Il peso del corpo (Like a Train on a Track)

Di Fabrizia Giuliani Mercoledì 07 Dicembre 2011 13:20 Stampa
Il peso del corpo (Like a Train on a Track) Foto: Emanuele Bevilacqua

Domenica 11 dicembre, le donne di “Se non ora quando?” sono tornate in piazza per ribadire la necessità di una forte e autonoma presenza femminile sulla scena pubblica italiana. Italianieuropei ha aderito a questa iniziativa e vuole offrire un contributo al dibattito riproponendo alcuni spunti e riflessioni pubblicati sugli ultimi numeri della rivista.


Pubblicato sul n. 10/2011 di Italianieuropei


I due lati del foglio

Pesano, i corpi. Pesano i corpi femminili che scandiscono la cronaca politica italiana e ingombrano in molti modi quella giudiziaria. Pesano le immagini sempre uguali, che affollano schermi e muri diventando nostro tratto distintivo, come narra impietosa la stampa internazionale. Pesa il linguaggio che parla del corpo, appesantito fino all’oltraggio anche quando le istituzioni dovrebbero porlo al riparo. E pesa il vuoto nel quale questo carico si rovescia: l’assenza fisica delle donne dai luoghi della rappresentanza, dove le poche presenze, pur apicali, non riescono a correggere il confronto impietoso con l’Europa; il progressivo ritiro dal lavoro regolare che contraddice l’alto livello di scolarizzazione; la voragine del lavoro irregolare, le macerie di Barletta che raccontano di scantinati affollati, giornate di quattordici ore e ore che non valgono nemmeno quattro euro.

Non sono soffitti di cristallo quelli che pesano sulla testa delle donne italiane. Si tratta di una questione, attingendo al lessico tradizionale dell’economia politica, strutturale. L’ipertrofia del corpo nei media e la contemporanea messa al margine sociale e politica delle donne sono i due lati dello stesso foglio, per usare la celebre ed efficacissima metafora di Saussure. Se ovunque il riconoscimento sociale e politico della soggettività femminile è stato segnato da controversie e conflitti, e certo non può dirsi compiuto nemmeno nei paesi più “virtuosi”, in Italia il rifiuto di misurarsi a fondo, pubblicamente, con i cambiamenti introdotti dalla libertà delle donne, uguale e diversa, è stato un fenomeno molto più forte e carico di conseguenze.

Se certo va oltre i confini di queste riflessioni affrontare in modo analitico le ragioni di un’anomalia che tocca la radice della crisi italiana, se ne possono provare a evidenziare almeno i tratti distintivi. E per farlo occorre partire proprio dal peso di questo corpo, destinato a sbilanciare ogni volta un assetto che non riesce a comprenderlo.

 

Il dittatore, assoluto, e anche il popolo oppresso

Nel dibattito degli ultimi anni si è discusso a lungo se fosse opportuno tornare a parlare del corpo, sia pure in modo critico. Alcune autrici hanno visto un tratto di subalternità nel farlo; riflettere e parlare di esso finisce per assecondarne comunque una centralità sbagliata, volta a mettere in ombra il talento e la creatività. Lo scarto vero, dunque, è nel sottolineare la forza della mente femminile che l’esibizione ostentata cancella.[1]

È invece necessario imboccare un’altra strada, per almeno due ragioni, che toccano, si può dire, le origini della riflessione delle donne. L’affermazione che non vi sia nulla di scontato e tanto meno di ineluttabilmente già segnato nel pensare e nel parlare del corpo, è stata l’incipit del secondo femminismo, quello che, superando l’orizzonte dell’emancipazione, poneva il tema del riconoscimento della differenza tra i sessi. La seconda considerazione è conseguenza della prima e arriva all’oggi. Identificare la forza dell’intelligenza nel suo essere altro da un corpo ingombrante perché assoggettato rimuove non solo quell’incipit – può l’intelligenza femminile prescindere dal corpo? – ma soprattutto asseconda, sostiene, ciò che punta a sconfiggere. Il tratto più forte delle immagini da cui si vuole prendere congedo, in fondo e nemmeno troppo, è proprio il ribadire possibile, e anzi perseguibile, un’idea del corpo come dispositivo da usare con accortezza, disponibile ad assecondare una volontà che non intende limiti. Con una forzatura vistosa, si restaura una dualità tra la mente e il corpo – un’antica sudditanza del secondo dalla prima – che il pensiero delle donne aveva rimesso radicalmente in questione. Va sottolineata l’assonanza oggettiva di questa posizione con teorie mainstreaming – di diverso segno – che identificano la libertà individuale con l’affrancamento da qualsiasi forma di vincolo naturale, a cominciare dalla corporeità.

E per quanto possano confondersi i due termini, ossia il corpo in quelle figure rischi di apparire al tempo stesso dittatore e popolo oppresso,[2] anche nella versione contemporanea il modello resta quello di una mente tutta autonoma nel progettare finalità, che dispone di un corpo esterno ridotto a pura proprietà. Le immagini, ma non solo, anche le parole che accompagnano quelle immagini, dilatano la percezione di una corporeità docile in primis rispetto alla volontà che se ne avvale. Amplificano la distanza tra la mente che interpreta i tempi con la scaltrezza richiesta e il corpo-risorsa che li asseconda, passivo ed estraneo. La forza – anche la libertà – soggettiva si concentra in questo esercizio di dominio, esplicitamente rivendicato. Un corpo senza storia, lontano dal tempo e dalle sue minacce, al riparo dalla tirannia dei ricordi, privo di limiti o portato a trascenderli fin dove è consentito e talvolta anche oltre.[3]

Corollario di questo modello è una visione della sessualità concepita solo in termini di controllo, sottomissione o dominio. La libertà che aveva consentito al femminismo di combattere alla radice il modello, ricostruendo un contesto vitale entro cui riportare la sessualità – fantasia, memoria, creatività – nelle immagini di cui parliamo si azzera.

 

Les lunettes, les grands sacs…

È anche da ricondurre a queste ragioni lo sguardo stupito che l’opinione pubblica internazionale rivolge alle vicende italiane. Basti pensare a un report da Bruxelles dedicato, appunto, al corpo femminile in Italia, dove il commentatore si soffermava stupito su cosa nascondessero gli occhiali scuri e le borse indossati nelle fotografie che per mesi hanno attraversato la rete. Oltre il dettaglio, la nota di costume, l’attenzione registra l’acutezza di un conflitto che investe palesemente la dimensione pubblica.

Non si può pensare di eludere la tempesta d’immagini che ha ricoperto il nostro paese senza incontrare resistenza o considerare irrilevante, sotto il profilo civile, l’affermazione di un modello femminile che ha fatto della propria disponibilità il tratto distintivo. Occorre rivolgere a questi fenomeni uno sguardo nuovo, che vada a fondo e si affranchi da categorie interpretative – e retoriche – che hanno fatto il loro tempo. Aver tenuto imbrigliato il discorso nelle secche di una disputa sulla liceità, sulla moralità e il decoro, dove si confrontavano staticamente favorevoli e contrari, ha significato evitare di comprendere la portata di ciò che accadeva. E forse, di questa responsabilità ci chiede conto lo sguardo internazionale.

La tensione all’adattamento riflessa nelle immagini descritte ripropone in vesti nuove e ben patinate il ricatto che ha tenuto lontane le donne dalla polis. Il silenzio dietro le lenti scure – il corpo che non parla – porta il segno evidente di un accesso alla sfera pubblica vincolato all’antica separazione logos/bios, come rendono esplicito programmi televisivi che non occorre certo ricordare, “artiglieria pesante” costruita per intero su questa opposizione.[4]

L’ostentazione del modello statico, irreale che oscura la pluralità della presenza femminile e la qualità della sua autorevolezza, porta lo stesso segno delle “donne che mancano” – riprendendo una felice espressione di Amartya Sen – dai luoghi della decisione politica ed economica o dell’allontanamento delle donne dal lavoro. Il corpo in gravidanza espunto, la marginalizzazione della carriera femminile provocata dall’indisponibilità a rendere compatibili de facto crescita professionale e tempo necessario allo sviluppo della vita affettiva sono tutte espressioni del rifiuto di modificare assetti concepiti in assenza delle donne, oggi ostacolo concreto all’esercizio della loro libertà.

Oltre le immagini evocate, è sufficiente uno sguardo, anche veloce, agli ultimi dati Istat[5] – dove oltre 800.000 madri lasciano il lavoro, firmando “dimissioni in bianco” – o al Rapporto 2012 sull’uguaglianza di genere elaborato dalla Banca mondiale –, dove si ipotizza una crescita pari al 7% del PIL se l’occupazione femminile italiana fosse portata ai parametri del Trattato di Lisbona. Ancora una volta il racconto sul corpo distribuito sui due lati del foglio combacia.

 

Happiness Hit Her Like a Train on a Track

Ma in Italia il peso del corpo ha giocato un ruolo forte, al rovescio, dal 13 febbraio 2011. Le modalità con cui l’appello lanciato da “Se non ora quando?” ha stabilito il nesso tra dignità e cittadinanza e la risposta ottenuta hanno rivelato quanto fosse forte la consapevolezza della posta in gioco. Lo scarto che si è prodotto nelle forme di quell’evento pubblico – le parole, la musica, le immagini che hanno segnato le manifestazioni in tutta Italia – deve la forza del suo impatto in primis alla felicità della scoperta di ritrovarsi fisicamente insieme. Inaspettatamente, come recita la canzone scandita dalla piazza romana, ma forse non è stata fino in fondo una sorpresa scoprire condivisa l’esigenza di riconoscersi, nel qui e ora di ogni piazza. Le fotografie, le belle immagini che hanno fatto il giro del mondo, e sono state ovunque, immediatamente comprese, restituiscono il senso di novità della partecipazione e si riflettono intatte nelle parole delle protagoniste più giovani.

«(…) quello che stiamo vivendo è un’esperienza inedita, fisica prima che verbale. L’aria è satura di allegria, di una semplicità disarmante. Il rapporto Censis del 2007 ci aveva definiti “mucillagine sociale”; ci avevano descritti fino all’altro ieri come una società sfibrata, disabituata a riti collettivi. Eppure quel che vedo adesso dimostra il contrario. Mi trovo al centro di una marea di famiglie, bambini, coppie che si tengono per mano e sento la misura larga di questo evento, l’emozione di vivere finalmente qualcosa che non ho mai vissuto prima».[6]

La gioia, l’agio che leggiamo in esse, nascono dall’aver visto una via nuova che consente di scartare dalla fatica dell’adattamento e dagli abbagli che produce. Il “noi”, nato in quelle piazze come ha scritto Olivia Guaraldo,[7] ha segnato il congedo dal ricatto implicito nella scissione della mente dal corpo e soprattutto dall’illusione di onnipotenza che ne deriva, dove i modelli creati a piacimento annullano la presenza reale. È un “noi” che trae forza dal limite, dunque, e segna così una discontinuità culturale profonda, a mio avviso non ancora colta. L’esperienza inedita non riguarda solo la scoperta del rito collettivo, per riprendere Avallone, il superamento del valore individuale che andava oltre qualsiasi istanza. Il “noi” delle donne, che non si esaurisce in esse, come quelle piazze hanno mostrato, porta il segno della ricomposizione. Nei corpi protagonisti di quel pomeriggio si annulla la distanza dal linguaggio e dal desiderio per lasciare il posto alla felicità della ricomposizione, del ritrovamento, della coincidenza con se stesse. E non è un caso se la politica, la forza politica, torna in queste forme segnando il tramonto di due tendenze, apparentemente opposte ma simmetriche, che attraversano la riflessione contemporanea, accomunate da una celebrazione dell’Io che identifica tout court il legame con l’ostacolo e il corpo con la dipendenza e il bisogno. Di ascendenza illuminista, nella versione “forte” antropocentrica, o di matrice postmoderna, nella versione fluida e indefinita, la libertà che queste teorie hanno affermato è una libertà autosufficiente e solitaria. La ricerca di una forma nuova – la forza di quel “noi” – non può che partire dal corpo ritrovato. Maybe “the dog days are over”.[8]



[1] Si veda N. Vassallo, Donne-madonne, donne-maddalene, in “Italianieuropei”, 3/2010, pp. 105-10.

[2] D. DeLillo, Body art, Einaudi, Torino 2001, p. 45.

[3] Si veda F. Giuliani, La tentazione d’Ipazia, in “DWF”, 3-4/2010, pp. 31-5.

[4] Si veda I. De Bernardis, Il corpo dimenticato, in “Leggendaria”, 90/2011 (in corso di stampa).

[5] Si vedano L. L. Sabbadini, Maternità e lavoro, la catastrofe italiana, in “Reset”, 126/2011, pp. 13-6; Sabbadini, Le statistiche ufficiali come specchio della realtà, in “Italianieuropei”, 8/2011, pp. 79-84.

[6] S. Avallone, La mia generazione senza riti scopre che manifestare ha senso, in “Corriere della Sera”, 14 febbraio 2011.

[7] O. Guaraldo, Sarà un paese per donne, in “Italianieuropei”, 6/2011, pp. 50-5.

[8] Queste riflessioni nascono dalla relazione pensata e scritta con Francesca Comencini a Siena per l’incontro nazionale dei comitati “Se non ora quando?” il 9 e 10 luglio, disponibile qui.

 


Foto: Emanuele Bevilacqua

 

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