La meritocrazia delle chiacchiere

Di Walter Tocci Venerdì 03 Dicembre 2010 10:43 Stampa
La meritocrazia delle chiacchiere Foto: Dolce Luna

La riforma Gelmini è stata presentata come un provvedimento teso ad introdurre nell’università italiana quei criteri meritocratici che, secondo i sostenitori del provvedimento, le sarebbero oggi estranei. Secondo Walter Tocci è invece vero il contrario.

 

Cade o non cade il governo Berlusconi? Da questo dipende la sorte della legge Gelmini. Speriamo che presto si possa esultare sia per l’abbandono del Cavaliere sia per la cancellazione di un progetto dannoso. Occorre però tenere alta la mobilitazione contro la legge. E soprattutto si deve continuare a smascherare la propaganda che l’ha sostenuta e che purtroppo è penetrata in profondità nel senso comune accademico. Ancora oggi mi sento dire da tante persone in buona fede che la Gelmini introduce la politica del merito. Purtroppo è vero esattamente il contrario. Il merito è solo nella straordinaria capacità del governo di raccontare un falso clamoroso. In tutti i sensi, è il trionfo della meritocrazia delle chiacchiere.

C’è poco da valutare se vince la burocrazia

Che il ddl sia in contrasto con la politica del merito risulta evidente già a un sommario sguardo del testo. Infatti, se fosse approvata la mole spropositata di norme, circa 500 disposizioni e 1000 regolamenti, avrebbe l’effetto di rafforzare la convergenza degli atenei verso un modello unico, quello appunto preferito dal legislatore, che non è detto sia il più efficace. Una volta realizzata questa uniformità normativa non si capisce cosa si dovrebbe valutare. La qualità di un ateneo, ad esempio, dipende per grande parte dai suoi professori, ma se la politica delle risorse umane è ingabbiata in un pesante apparato normativo le performance risulteranno inevitabilmente molto appiattite. Al contrario, la politica del merito presuppone la promozione di differenze e di innovazioni che poi si espandono per emulazione e per competizione, innalzando la qualità del sistema. Tutto ciò può avvenire solo con una legislazione mite, che lasci ampi spazi alla realizzazione di diversi modelli universitari.
Questa prospettiva di differenziazione è in atto in tutto il mondo, ma non ha mai avuto molta fortuna nel nostro paese e anche da sinistra è stata vista con diffidenza. Pesa una malintesa concezione egualitaria che dovrebbe riguardare le condizioni di accesso ma non la disponibilità dell’offerta.
A ben vedere questo è il principale problema italiano. Il vecchio modello dell’università di élite che funzionava dignitosamente con pochi studenti è stato tirato come un elastico per rispondere a una popolazione studentesca dieci volte maggiore senza che intervenisse nessuna sostanziale differenziazione. Ed è molto difficile che tutti gli atenei sappiano fare bene le stesse cose, dalle lauree brevi ai dottorati, dalla didattica alla ricerca avanzata. La vera riforma avrebbe dovuto promuovere una nuova concezione dell’università pubblica con un’offerta molteplice di percorsi formativi e diversi assetti dell’attività di ricerca.

Il blocco dell’ANVUR e del CIVR

Il ministero ha bloccato qualsiasi attività di valutazione. In due anni e mezzo la Gelmini non è riuscita a presentare neppure un dato sulla produttività scientifica degli atenei e non sarebbe ormai in grado di farlo neppure se malauguratamente dovesse concludere il mandato alla scadenza prevista del 2013. In due anni e mezzo il ministro non è stato capace neppure di attivare l’ANVUR che pure era già stata legiferata dal precedente governo. Ha perso inutilmente tempo nell’incertezza se abrogarla o approvarla, per poi concludere di mantenerla in vita riducendone però l’indipendenza rispetto al ministero. Il buon senso avrebbe voluto che nel frattempo si consentisse al CIVR di proseguire le valutazioni dopo la buona prova data nel rapporto relativo agli anni 2001-03, che ancora oggi rimane l’unico ranking disponibile sulla qualità scientifica dell’università italiana. Anche in questo caso ci sono voluti due anni per fare il decreto che autorizzava il CIVR a riprendere le attività, ma dopo qualche mese c’è stato di nuovo un blocco. Che cosa è successo? Il primo passo della procedura di valutazione prevede la nomina dei valutatori per le diverse aree disciplinari. Qui viene da pensar male. Forse la lista predisposta dal CIVR non è piaciuta al ministro e vorrebbe modificarla? Se si pretende di controllare i valutatori in sede politica è finita prima di cominciare la valutazione indipendente. Se anche l’ANVUR dovesse funzionare in questo modo sarebbe meglio non farne niente.

Come NON si deve fare valutazione

Uno dei capisaldi della metodologia internazionale consiste nel rendere certi e preventivi i criteri di valutazione in modo che gli atenei possano regolare i propri comportamenti. L’attuale gestione ministeriale, al contrario, potrebbe costituire una sorta di manuale degli errori che bisogna assolutamente evitare nella valutazione. Già lo scorso anno per il famoso Fondo per il merito vennero improvvisati i criteri in corso d’opera e si poteva pensare che fosse un difetto di avvio. Invece, a ottobre di quest’anno è uscito un nuovo schema di attribuzione dei punteggi che introduce modifiche a posteriori e addirittura esclude alcune voci precedentemente considerate: ad esempio, l’occupabilità dei laureati e il giudizio degli studenti sulla didattica. Proprio questi parametri lo scorso anno ebbero molto risalto nella propaganda ministeriale e furono ripresi con molta enfasi dai giornali a riprova che si faceva sul serio nel valutare le università in relazione ai risultati negli studi. Tuttavia la fretta comunicativa andò a discapito della significatività nella misura di quei parametri, come feci osservare a suo tempo nel documento di critica al ddl. Finita l’operazione propagandistica i tecnici del ministero hanno dovuto ammettere che non sono disponibili dati attendibili per misurare quei parametri. Se però nel frattempo qualche ateneo ci avesse creduto cominciando a muoversi in quelle direzioni vedrebbe vanificato il proprio impegno. È questa la strada per far perdere credibilità alla cultura della valutazione prima ancora che si consolidi nel nostro paese.
Nel frattempo i ritardi della gestione ministeriale rischiano di sprecare i soldi del Fondo di programmazione – circa 60 milioni – che di solito vengono attribuiti secondo parametri di qualità, verso obiettivi di offerta didattica, ricerca scientifica, servizi per gli studenti, internazionalizzazione, mobilità dei docenti – che invece sono ben conosciuti dagli atenei.

La valutazione che non scontenta nessuno

Mentre si chiacchiera di meritocrazia la Gelmini ha stretto un patto con i rettori per ridurre l’impatto sui finanziamenti dei pur timidi esercizi di valutazione. È stato concordato un taglio dei finanziamenti 2010 rispetto all’anno precedente del 3,72% (e il prossimo anno sarà quasi lo stesso, a proposito degli aumenti di cui parlano le veline governative). L’ateneo che otterrà i risultati peggiori non potrà scendere sotto il 5%, mentre il più virtuoso potrà al massimo evitare il taglio e attestarsi allo stesso finanziamento del 2009. Ciò significa che la banda di oscillazione tra gli atenei sarà del 5%. Tuttavia per esigenze di propaganda si annuncerà che il fondo per merito quest’anno si attesterà al 10% del FFO in modo da poter dire che si fanno dei passi in avanti rispetto alla percentuale fissata al 7% lo scorso anno. Peccato però che l’aumento venga sterilizzato dalla regola di attenuazione al 5%. La valutazione va bene, purché non scontenti nessun rettore, soprattutto mentre in Parlamento si discute la legge.
Inoltre, nel ddl al primo articolo c’è una norma ambigua che potrebbe costituire una via di uscita per gli atenei che perdono finanziamenti in base ai risultati della valutazione. Si prevede infatti la possibilità di fondi aggiuntivi da assegnare tramite accordi di programma per i quali non sono definiti criteri trasparenti.
Infine, era stata annunciata l’anagrafe dei ricercatori con l’elenco delle pubblicazioni. I dati sono già inseriti nel sistema Cineca e basterebbe un click per attivare la procedura. È tutto pronto da mesi, ma non si parte. Secondo il decreto legge 180/08 su questa base si sarebbero dovuti escludere dalle commissioni di concorso i professori che mostrano un’evidente inattività scientifica. Poiché molti degli inattivi sono spesso anche quelli che frequentano di più il ministero viene il sospetto che qualche papavero delle burocrazie accademiche voglia ritardare l’attivazione dello strumento.

L’idoneità non si nega a nessuno

Si continua a leggere nei giornali che il ddl reintroduce il concorso nazionale per farla finita con il localismo. La realtà è ben diversa. Il testo introduce un’idoneità senza limiti numerici, quindi non comparativa e molto poco selettiva. Nelle commissioni nazionali si faranno gli stessi accordi che ieri si facevano nelle commissioni locali. Il bravo professore sosterrà l’allievo di valore, ma non avendo vincoli comparativi da rispettare, lascerà fare il collega che sostiene una persona meno capace. L’idoneità senza limiti non si nega a nessuno. Poi si dovrà passare a una sorta di concorso locale per la chiamata effettiva. Con molta probabilità vincerà di nuovo il candidato locale, con l’unica differenza di aver raddoppiato inutilmente le procedure e le burocrazie. La legge Gelmini produce quindi una grave dequalificazione degli accessi alla docenza, altro che merito.
Ma la cosa più pericolosa è la lista nazionale degli idonei che si formerà a prescindere dal fabbisogno. È uno strumento criticabile anche in linea di principio poiché stabilisce una sorta di condizione giusnaturalistica del professore, i cui requisiti individuali hanno valore a prescindere dai posti disponibili.
Il sistema universitario ha già dimostrato di concepire l’idoneità come un diritto certo a diventare professore, basta ricordare il forte aumento di chiamate in seguito alle terne della vecchia legge sui concorsi. La lista costituirà quindi una pressione continua per l’accesso alla docenza e una tentazione per il legislatore a inserire una qualche ope legis in uno dei tanti disegni di legge omnibus coperti da voti di fiducia senza discussione parlamentare. D’altro canto si dovrebbe sapere in Italia cosa significa stilare una lista di idonei a prescindere dal fabbisogno. È già successo con le abilitazioni nella scuola degli anni Ottanta e ne paghiamo ancora le conseguenze con circa 200.000 insegnati precari che premono per entrare nei ruoli e bloccano nei fatti ogni discorso sull’accesso secondo il merito. Quando avremo accumulato anche nell’università una lista di 20-30.000 idonei la pressione diventerà insostenibile e farà impazzire la politica e l’accademia.

L'appiattimento della carriera docente

A regime quasi tutti i professori saranno inquadrati nel ruolo di associato. Questo perderà la funzione attuale e sarà caratterizzato da un forte appiattimento nel riconoscimento dei meriti. Se il ddl è stato criticato con tante ragioni dai ricercatori avrebbe dovuto ricevere contestazioni ben più rumorose dagli attuali professori associati che ne subiscono tutti gli effetti negativi. Essi avranno, infatti, molte difficoltà nel passaggio a ordinario – anche nel caso di chi ne avrebbe i meriti – perché troveranno il muro del blocco del turn-over e in generale i freni determinati dai tagli ai finanziamenti e dai tempi lunghi delle nuove procedure nazionali di idoneità. Nel frattempo il ruolo in cui si trovano diventerà l’unica ancora di salvezza per 26.000 ricercatori collocati a esaurimento e per circa 50.000 giovani ricercatori in attesa di entrare nel sistema. La figura dell’associato perderà di significato, non denoterà un livello di competenza e tanto meno individuerà una funzione da espletare. D’altro canto non sono ben definite neppure le differenze funzionali con il professore ordinario, al quale la legge attribuisce in più solo alcune prerogative nella composizione delle commissioni di concorso e nelle norme di elettorato passivo degli organi di ateneo. Si può quindi concludere che l’insieme dei professori associati e ordinari, pur distinti formalmente in due ruoli, di fatto costituiranno una sorta di ruolo unico della docenza. Il ddl governativo realizza così il sogno sindacale degli anni Settanta. Per una sorta di eterogenesi dei fini a mettere in pratica l’appiattimento egualitario sarà proprio il ministro che ossessivamente predica la fuoriuscita dal sessantottismo.
Al contrario, la complessità organizzativa della moderna università richiederebbe ruoli diversi per competenze scientifiche, didattiche e gestionali e uno sviluppo di carriera davvero basato sul merito e sull’impegno dei professori. Questa era la vera riforma da fare, ormai matura nella consapevolezza generale, ma il ddl invece di andare avanti guarda al passato.

La discrezionalità nei fondi per la ricerca

Negli ultimi tempi i fondi PRIN hanno perduto il rigore nella trasparenza delle procedure. Il ministero ormai li gestisce con la vecchia logica burocratica, invece di seguire i metodi di peer review diffusi a livello internazionale. La conferma viene da quanto accaduto nella designazione dei garanti per gli ultimi bandi del 2009. Su quattordici designati ben tre scienziati di valore hanno rinunciato all’incarico: uno del MIT di Boston, un altro di un istituto di ricerca di Parigi e un importante economista italiano. Un garante, invece, è stato nominato pur non avendo dichiarato alcuna pubblicazione scientifica. Non è certo un risultato brillante per la credibilità della procedura.
D’altro canto, mentre i ricercatori si affannano a partecipare ai bandi per pochi soldi e in grave ritardo sulle scadenze previste (ritardi purtroppo cominciati ai tempi del nostro governo), diventa sempre più importante un’altra fonte di finanziamento della ricerca che opera in assoluta discrezionalità. L’IIT ha in dote circa 300 milioni di euro non spesi e un finanziamento annuo di circa 100 milioni, superiore a quello disponibile per tutte le università italiane e in tutte le discipline. Chi ha i denti non ha il pane e chi ha il pane non ha i denti. L’istituto si trova col problema, insolito in Italia, di possedere risorse superiori alle sue possibilità di spesa. Ha deciso quindi di investire nel consenso stipulando convenzioni con diversi rettori per distribuire finanziamenti senza bandi ai diversi atenei e ottenendo in cambio un clima più favorevole verso la propria esistenza. E questo dovrebbe essere il soggetto innovativo della ricerca italiana!

La costante universale dei dipartimenti

Il ddl stabilisce in 35 il numero di professori che compongono il dipartimento, a prescindere dalle discipline scientifiche e dalle diverse vocazioni degli atenei. Non è un risultato di poco conto. Nessuno era mai riuscito finora a misurare questa costante universale dei dipartimenti. La scoperta avrebbe meritato una pubblicazione scientifica invece che un semplice testo normativo!
L’attuazione della norma imporrà la supremazia della quantità con effetti che potranno essere molto negativi sulla qualità. Ci saranno aree forti numericamente che imporranno le proprie scelte non sempre coincidenti con quelle di settori disciplinari più piccoli ma preziosi per la crescita della conoscenza. Inoltre, molte occasioni di crescita della conoscenza oggi nascono proprio dagli attraversamenti dei vecchi saperi e anche questo fenomeno può essere frenato da forti organizzazioni disciplinari. Ciò vale non solo per la ricerca fondamentale ma anche per settori molto finalizzati, come ad esempio la scienza della Terra.
Non si capisce quale sia il supremo interesse nazionale che porta a stabilire in una legge dello Stato il numero di professori per dipartimento. Questo dovrebbe essere il risultato di scelte organizzative che possono cambiare secondo le diverse strategie degli atenei. Ad esempio, se si vuole accentuare il ruolo della didattica oppure della ricerca saranno necessarie organizzazioni dipartimentali molto diverse. Inoltre, ciò che è valido per Medicina o Ingegneria non è detto che debba valere per Giurisprudenza o Lettere e così via.
L’unica esigenza nazionale che dovrebbero rispettare i diversi modelli organizzativi è la comparabilità dei risultati ai fini della valutazione nazionale. Ma questo obiettivo avrebbe richiesto un approccio al problema del tutto diverso. Bisognava partire dalle Linee guida dell’ANVUR o del CIVR per stabilire criteri qualitativi da rispettare nell’organizzazione dipartimentale, lasciando liberi gli atenei e i settori disciplinari di fare le proprie scelte assumendosene la responsabilità.

La numerologia cabalistica della didattica

Un esempio concreto dei provvedimenti attuativi che seguirebbero l’approvazione della legge Gelmini è dato dal decreto ministeriale n. 17 del 22 settembre 2010 relativo alla didattica. È un delirio di norme che ingabbiano l’organizzazione dei corsi di studio in rapporto al numero degli studenti e dei professori. Anche in questo caso si ricorre alla numerologia come fosse una magia cabalistica. La quantità viene imposta come unico riferimento, ma ci possono essere corsi di studio di scarsa qualità che pure rispettano le soglie previste dalla legge o viceversa corsi davvero innovativi che scontano all’inizio numeri bassi. L’esigenza da cui parte il decreto di limitare i corsi di studio è falsa, poiché la proliferazione esplosa ai tempi della Moratti è stata contenuta con il decreto 270 del 2007 emanato dal governo di centrosinistra e oggi la situazione è in linea con le dimensioni presenti prima dell’avvio del 3+2. Anzi, alcuni effetti imprevisti del decreto ministeriale n. 17 potrebbero addirittura riaprire il problema. Ad esempio, il requisito che impone distinti corsi di studio quando sia presente una differenziazione di almeno 40 crediti potrebbe portare a una forzosa proliferazione dei medesimi. È solo un esempio di come la numerologia cabalistica può portare a risultati paradossali e in contrasto con criteri di qualità dichiarati. Oltre alle norme scritte si vanno aggiungendo sempre di più le norme digitali che scaturiscono da vincoli assunti arbitrariamente dalle griglie informatiche di accesso utilizzate dal ministero. Infine, si devono considerare gli inutili disagi che tutto questo armamentario di regole scarica sugli studenti, sui docenti e sulle strutture amministrative. Si dovrà mettere mano nuovamente all’ordinamento didattico gestendo allo stesso tempo la sovrapposizione col precedente. Gli studenti in ritardo del vecchio ordinamento si troveranno un’offerta didattica non allineata con i precedenti piani di studio e avranno difficoltà a recuperare il tempo perduto. I legislatori non si rendono mai conto della fatica che nella vita reale produce ogni norma, anche quando è appropriata, e non è sempre questo il caso.
L’avvenuto riallineamento quantitativo dei corsi di studio era invece l’occasione buona per cambiare approccio e assumere la qualità come unico criterio di regolazione. La politica del merito nella didattica non si fa con i numeri, ma con la verifica dei programmi formativi, delle concrete metodologie adottate e dell’efficacia nei risultati. In tale direzione era maturo il tempo per attivare anche in Italia un moderno sistema di accreditamento dei corsi di studio, secondo le migliori esperienze e le precise indicazioni europee, tra l’altro già sottoscritte dal governo. Anche questo obiettivo di riforma è completamente disatteso dal ddl.

Si affaccia la meritocrazia del CEPU

Le università telematiche sono un esempio del cattivo uso che spesso si fa in Italia dell’innovazione tecnologica. La formazione a distanza doveva essere uno strumento diffuso in tutto il sistema e ben integrato con la normale attività didattica. Invece, si è deciso di farne atenei finti che costituiscono una sorta di lascia passare per i peggiori vizi dell’accademia e servono solo a vendere i titoli di studio e le cattedre. I meccanismi son ben noti: si bandiscono concorsi non per assumere i vincitori, ma semplicemente per ottenere idoneità da spendere negli atenei pubblici. Tutto ciò è un regalo della Moratti, anche lei a suo tempo presentata come campione della meritocrazia sulle colonne del “Corriere della Sera” e del “Sole 24 Ore”. Mussi bloccò le nuove autorizzazioni, mentre la Gelmini si era impegnata ad affrontare la questione dopo avere ricevuto un rapporto molto negativo dal CNVSU. Non solo l’impegno non è stato mantenuto dal ministro, ma in un documento inviato il 27 ottobre alla Crui per il parere di competenza si prospetta il seguente traguardo: «la trasformazione delle università non statali telematiche esistenti in Università non statali (non telematiche), su proposta delle università interessate, che preveda l’erogazione di almeno la metà della propria offerta formativa con modalità tradizionale o mista». Sembra solo un gioco di parole, ma l’effetto è devastante. Le attuali telematiche assumono il rango della Bocconi o della Luiss ed entrano a pieno titolo nel relativo capitolo di finanziamento che è stato appena integrato di 25 milioni con l’emendamento della maggioranza alla Camera. Ma non finisce qui, le nuove università potranno, come dice la norma, presentare un’offerta mista, in parte a distanza come è già adesso e in parte con didattica frontale tradizionale. Sembra una concessione innocua, ma per capirne le ragioni bisogna fare un esempio. La E-Campus è una delle più potenti fra le telematiche – annovera ad esempio tra i suoi docenti un certo Marcello Dell’Utri – e soprattutto è direttamente collegata al CEPU. Con il decreto Gelmini questa struttura, dotata di 120 sedi in tutta Italia, può entrare nel sistema pubblico delle università non statali facendosi trascinare dalla trasformazione di E-campus. E il gioco è fatto. D’altro canto, Berlusconi di recente ha visitato la sede del CEPU additandolo come esempio da seguire per l’università italiana. E così la meritocrazia può passare dalle chiacchiere agli affari.

 

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Foto di Dolce Luna

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