La sinistra e la sfida del nuovo compromesso democratico

Di Alfredo Reichlin Martedì 09 Dicembre 2008 16:24 Stampa
Partendo dal presupposto che l’ordine mondiale ha subito a partire dalla fine della guerra fredda una profonda trasformazione, è oggi indubbio che le risposte ai conflitti sociali e ai bisogni degli individui vadano cercate tenendo ben presente la dimensione globale dei processi politici e sociali. In questo contesto il ruolo del riformismo è lungi dall’essersi esaurito. È tuttavia essenziale, al fine di ridare forza a una democrazia ormai indebolita e vigore allo Stato nella garanzia e nella difesa dei diritti acquisiti nel corso del Novecento, che il Partito Democratico conosca a fondo la natura dei processi sociali in corso, soprattutto dei cambiamenti avvenuti nel mondo del lavoro, e trovi la capacità di elaborare una nuova cultura politica.

Sono del tutto astratte, perfino infantili, certe analisi che proclamano la fine del capitalismo e dell’economia di mercato. È chiaro però che è giunta alla fine quella concreta architettura del mondo quale si era venuta formando nel tornante degli anni Settanta. Fu quella una svolta di portata straordinaria di cui la sinistra non si è mai resa ben conto. Questo spiegherebbe, dopotutto, la sua crisi di lungo periodo.

Una crisi determinata dall’avvento di una forma nuova e inedita del capitalismo (parola che non parla solo di economia) e che spiega la perdita di fiducia in se stessa e nella propria funzione storica. Un riformismo debole e subalterno al pensiero dominante non poteva che spingere la sinistra ai margini dei nuovi conflitti che si sono venuti a creare. Queste note vogliono richiamare l’attenzione sul fatto che ormai è solo alla luce della nuova dimensione mondiale dei processi politici e sociali che si definiscono i termini nuovi dei conflitti e dei bisogni e, quindi, delle domande politiche. Se è così, la sorte stessa del Partito Democratico dipende dalla capacità di elaborare una cultura politica nuova, e nuova in quanto si ispiri a una visione politica e non economicistica di questo passaggio storico. Non si tratta di un compito da delegare agli intellettuali, è necessario invece partire dai fenomeni che sono già in atto, come – per fare solo un esempio – la forza del populismo. Lo si cita solo per ricordare che dietro al populismo, cioè dietro all’appello diretto al popolo in contrapposizione al sistema politico e istituzionale, non c’è solo un qualunquismo di radice reazionaria. C’è anche un fenomeno grandissimo, di dimensioni globali: c’è soprattutto il fatto che il centro di gravità del potere non risiede più nelle istituzioni rappresentative ma altrove. È a causa di ciò che si è creata quell’onda, anche torbida, di protesta che attraversa le nuove società emerse dalla fine delle vecchie certezze della società industriale novecentesca. I ceti poveri, ancora più di altri, non si sentono più rappresentati, sentono la vacuità della vecchia politica e finiscono col confondere anche la sinistra con l’establishment. Possiamo disprezzare i demagoghi che ne approfittano, ma la sinistra riformista se vuole tornare a parlare alla gente, se non vuole essere confusa con “chi comanda”, deve convincersi che il suo dovere è ridefinire il senso e la ragione del riformismo non come l’ala moderata e compromissoria della sinistra, né come qualcosa che riguarda il mondo di ieri ma come il più moderno ed efficace strumento critico del mondo attuale. Dunque, è indispensabile conoscere bene con che cosa ci si deve misurare. Ciò che è messo in discussione non è solo un modello economico, è un vero e proprio ordine, quell’ordine mondiale che si costruì negli anni Settanta, in conseguenza di una svolta resa a sua volta possibile da una vera e propria “congiunzione di astri”. In sintesi, la crisi del modello keynesiano e quindi di quel fenomeno di portata storico-politica che va sotto il nome di compromesso democratico col capitalismo, e – di conseguenza – l’avvento del ciclo neoliberista si intrecciarono con fenomeni altrettanto grandiosi. Una rivoluzione tecnico- scientifica che superava le vecchie frontiere dello spazio, del tempo e della natura (il digitale, l’informazione, le bioscienze). E tutto ciò nel quadro, anch’esso storico-politico, determinato dal crollo dell’Unione Sovietica e dall’affermarsi di una superpotenza senza più rivali, paragonabile solo alla Roma di Augusto. Il risultato fu un’enorme concentrazione di potere economico, militare, scientifico e ideologico che assunse la guida di quell’altro grandioso fenomeno in atto che era la mondializzazione: nuovi mercati e avvento di nuove potenze. Quali erano gli strumenti attraverso i quali esercitare tale controllo? Che le attività finanziarie finissero con il prevalere con le loro logiche su ogni altro aspetto delle relazioni economiche internazionali non fu un fatto inevitabile. Quella di togliere ogni vincolo alla libertà dei capitali di circolare continuamente in tutto il mondo fu una scelta cruciale, senza precedenti storici. Fu questa decisione che diede al paese che deteneva il potere sul dollaro, e che poteva esibire agli investitori la garanzia implicita derivante dall’essere lo Stato padrone del mondo, la capacità di attirare una quota enorme del risparmio mondiale. Grazie al quale gli Stati Uniti hanno potuto finanziare un altissimo deficit estero senza dover sottostare alle conseguenze di ciò in termini di svalutazione della moneta e di restrizioni per i suoi cittadini.

Al tempo stesso la globalizzazione è stata anche altro. Ha rappresentato, anche grazie ai movimenti finanziari, una leva potente per spezzare in molte zone del mondo antichi limiti allo sviluppo. In vent’anni all’incirca un miliardo di esseri umani è entrato nel circuito della produzione dei consumi e dell’informazione. Tutto questo è anche figlio di una grande ondata di innovazioni, il cui centro era collocato proprio negli Stati Uniti. È così che l’America ha potuto finanziare con deficit giganteschi investimenti nelle nuove produzioni (comprese le armi), ed è così che è stato possibile per il popolo americano vivere al di sopra delle proprie risorse. Ecco come politica ed economia si confondono. Questa grande asimmetria rispetto ai costi e alle servitù dell’economia reale ha spinto sempre più gli investitori di capitali a ricercare il profitto più alto e più rapido non più nel valore aggiunto, vale a dire nei profitti ricavati dalla produzione dei beni e servizi, ma nei plusvalori, cioè nei balzi dei corsi azionari e nelle speculazioni. Una gigantesca ondata di danaro, che non doveva rendere conto a nessuno, ha percorso il mondo arricchendo enormemente una ristretta oligarchia ma creando al tempo stesso nuove povertà. Una parte dei ceti medi è stata declassata, e investire sui servizi sociali e nei beni pubblici ha perso ogni convenienza. Ma tutto ciò ha anche colpito – si potrebbe aggiungere – la funzione stessa dell’imprenditore, dell’ingegnere, del capitano d’industria (la morale weberiana del capitalismo).

Le conseguenze politiche sono state enormi. Si è creato un divario crescente tra la potenza del- le forze che controllano i centri del potere (dalle reti dell’economia finanziaria agli strumenti che diffondono le conoscenze e l’informazione) e la debolezza dei vecchi ordinamenti statali, tale ormai da rendere sempre più incerta la difesa della democrazia e dei diritti e sempre più insicura l’esistenza delle persone, il loro lavoro, i progetti di vita e al tempo stesso le identità, le culture, le religioni. È essenziale riconoscere che qui sta il cuore dei nuovi conflitti nel mondo globale. Sono questi sviluppi che spiegano perché una nuova destra si stia affermando in questa vecchia Europa che teme di essere la vittima di quel grande fenomeno nuovo che è la redistribuzione della ricchezza, delle materie prime e dei poteri in un mondo non più dominio esclusivo dell’Occidente.

Che tipo di società umana si sta formando? È questa la domanda più importante. È solo a partire da questo fondamentale interrogativo che una forza come il Partito Democratico può ridefinire la sua funzione storica e il suo riuscire ad essere il punto di incontro di culture diverse capaci di leggere il mondo con categorie nuove rispetto anche a quelle classiste. Si sta creando, e con quali caratteri, una nuova “questione sociale”? Marc Augé nel precedente numero di questa rivista notava che, se è vero che le vecchie distanze abissali di reddito tra i paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo si vanno, nell’insieme, riducendo, il fenomeno nuovo a cui si sta assistendo è l’aumento, nei paesi ricchi, di una grande povertà e, nei paesi poveri, di una miseria assoluta. E tutto ciò insieme a crescenti disparità nel campo della conoscenza. Avrebbe quindi ragione chi paventa il consolidarsi nel medio periodo, non di una democrazia generalizzata su tutta la terra, ma di un’aristocrazia planetaria del sapere, del potere e della ricchezza, a fronte di una massa di semplici consumatori e, più in basso ancora, di esclusi sia dal sapere che dai consumi. Basta pensare alle diverse opportunità che si aprono per il futuro a una bambina che vive in una località remota e isolata della campagna afgana, e per un bambino americano figlio di due docenti di Harvard.

Che cosa rischia di essere il futuro dell’umanità? È sufficiente porsi questa domanda per capire che è tempo di restituire al pensiero e alla missione politica del riformismo il suo oggetto vero, ovvero la critica delle forze dominanti come si sono affermate in conseguenza di questa grande mutazione dello stesso capitalismo. Certo, non sarà un’impresa facile. Anche coloro che pensano a quel riformismo socialdemocratico che storicamente si è misurato con il vecchio capitalismo industriale, ottenendo di civilizzarlo e di imporgli un compromesso democratico, non dovrebbero dimenticare che non si trattò solo del genio di Keynes e dell’invenzione di nuove istituzioni economiche mondiali, tipo Bretton Woods. Il cosiddetto compromesso socialdemocratico ebbe successo perché la sinistra e il movimento operaio avevano messo in campo armi molto potenti, la cui forza era dirompente. Si pensi al conflitto sociale, imperniato sulla contesa per la distruzione del reddito e il cui centro era allora nella fabbrica, ma si pensi anche al suffragio universale e all’invenzione di sindacati e di partiti come strumenti di una costruzione della democrazia “dal basso”: partecipazione e politicizzazione delle masse. Dove sono oggi armi simili?

Di qui la questione cruciale che si vorrebbe presentare in queste pagine. Si sta delineando, in rapporto al tipo di mondializzazione, una nuova “questione sociale” determinata non solo da un’ingiustizia, sia pure clamorosa, nella distribuzione del reddito, ma dal fatto che il rapporto anche etico-politico, di convivenza, tra “dirigenti e diretti” – quale si era venuto formando dopo il riconoscimento dell’uguaglianza, almeno giuridica, ottenuto con le rivoluzioni moderne – viene ora messo in discussione? Se la situazione è questa, cambiano molte cose, e una forza come il Partito Democratico sarebbe chiamata a compiti nuovi, di grande portata. Si pensi alla drammaticità e ai costi umani di quello che è diventato uno dei fenomeni sociali dominanti: la precarizzazione del lavoro. Senza ignorare peraltro l’altro grande fenomeno, cioè la nascita di un lavoro, comunque più moderno, per popoli fino a ieri immersi nel buio del mondo primitivo. E, infine, l’emergere, soprattutto nei paesi avanzati, di lavori altamente qualificati e con caratteristiche di creatività e autonomia che ricordano i liberi artigiani di una volta. Ma il dato dominante è la fine di quella grande conquista del Novecento che si chiamò “civiltà del lavoro”. Ci si riferisce all’insieme di diritti ma soprattutto al riconoscimento, sia pure in linea di principio (ma non solo), di una pari dignità tra il lavoro e l’impresa, che mise fine al secolare rapporto tra padrone e servo. Fu questo che diede – non lo si dimentichi – alla democrazia politica il suo fondamento.

Perciò si gioca qui, sui diritti del lavoro, una partita decisiva, non solo per la sinistra ma per la democrazia. E tuttavia per vincerla non basterà difendere i vecchi diritti. Non sembrano esserci altre strade che quella di mettere in campo una strategia che faccia leva sulla nuova “potenza sociale” del lavoro moderno quale emerge (o può emergere se una sinistra nuova di crede) dalla società postindustriale, dei servizi e dell’informazione. Perché è ben vero che ha avuto luogo la fine di quella forma storica del lavoro che si è espressa con l’industrialismo: il lavoro come quella merce presente in tutte le merci, che ne determina il valore e il cui prezzo si misura in termini di tempo necessario a produrle; il lavoro salariato che crea il surplus per il capitale. Gran parte del lavoro continua ad essere tutto questo, ma la novità è che il lavoro tende in modo crescente a produrre non solo merci ma servizi, relazioni, a entrare in reti sempre più complesse, a rapportarsi in modo attivo con tutto ciò che rappresenta l’ambiente sociale e culturale che circonda il capitale fisico. Si potrebbe perfino dire che questo lavoro moderno non solo crea società ma spinge alla formazione di un nuovo capitale: cognitivo, relazionale, sociale. Se questo è vero, il problema politico irrisolto è come dare una rappresentanza politica nuova al lavoro moderno, è far leva sulla grande contraddizione che si comincia a toccare con mano. In un universo di questo tipo, in cui il legame sociale è affidato essenzialmente al denaro, ciò a cui si assiste (nonostante l’ideologia dominante esalti il trionfo dell’individuo e della sua libera iniziativa) è in realtà il declino dell’individuo e la sua progressiva estinzione. Il domino del mercato e delle sue logiche finanziarie è infatti tale che gli uomini sono sempre più posti in relazione tra loro non in quanto persone con la loro originalità e sostanza umana ma in quanto “maschere” misurabili con un solo metro: il denaro.

La cultura dei diritti è molto importante ma non è sufficiente. Occorre affermare non solo diritti di cittadinanza e non solo diritti sociali, ma diritti politici: il lavoro come “diritto umano” di base, e quindi politico per eccellenza, al pari del diritto di voto. Chi viene escluso dal lavoro viene escluso non solo dal diritto ad un reddito, ma ancor prima dalla possibilità di contribuire alla “produzione della società”. Diventa un “esubero”, non è un cittadino come gli altri perché viene spinto ai margini e sembra condannato all’inutilità. E se non ha un diritto a partecipare alla “produzione della società”, in nome di che cosa chiede alla società la formazione, l’aggiornamento professionale, la riqualificazione?

Come è stato detto e ripetuto, il vecchio statalismo della sinistra è anacronistico. Ma è anche vero che lo Stato non scompare affatto, anzi resta essenziale per la vita di una comunità che conti. Esso non è più il luogo esclusivo della politica, ma chi lo sostituisce, e come, nel garantire l’esercizio dei diritti e dei doveri, nonché le fondamentali protezioni sociali? Il grande rischio da fronteggiare è questo: è l’indebolirsi di ciò che finora ha dato basi alla democrazia politica e forma alle società moderne, fornendo ad esse le ragioni dello stare insieme – anche al di là del puro interesse economico-corporativo – e quindi il sentimento di un comune destino. È su questa faccia della globalizzazione che si dovrebbe rivolgere di più l’attenzione. Sul fatto, cioè, che si è aperta una grande questione di democrazia. E al tempo stesso di sicurezza e di identità. Si può dire di più: di senso, di significati. Si è posto il grande interrogativo su come una società possa esistere se essa è solo una somma di individui. Perché non si comincia a dire che è la rivoluzione conservatrice di cui si è detto che ha condotto ai rischi attuali? Ecco perché è essenziale ridefinire i caratteri del nuovo conflitto sociale. Tanto più l’esito dei conflitti moderni è destinato a tornare nelle mani non più solo di impersonali logiche di mercato, ma di soggetti che travalicano i vecchi Stati e i vecchi assetti e attori sociali, tanto più le forze della democrazia europea devono far pesare – riorganizzandola e dando ad essa rappresentanza politica – quella che è la base della nostra civiltà, la civiltà dell’uomo che lavora, crea, intraprende: l’umanesimo.

Tante idee e tante cose devono cambiare. Deve cambiare anche il rapporto tra la sinistra e l’impresa. Nel momento in cui per essere in grado di competere il problema principale per l’impresa diventa la diffusione delle informazioni, il decentramento delle decisioni, la responsabilità e creatività dell’individuo, non può non affacciarsi una discussione seria non solo sulle partite IVA ma su un’idea di impresa come luogo dove non si crea solo valore per gli azionisti e come strumento di valorizza- zione di tutte le sue risorse umane, culturali, ambientali, a cominciare dalla qualità del lavoro.

Con ciò non si intende nascondere che emerge anche un altro tipo di sfruttamento, quello delle idee e del lavoro creativo. Perché se è vero che è aumentata la capacità sociale e intellettuale del lavoro, è anche vero che la possibilità di esprimerla dipende dai poteri di quei “nuovi padroni”, i quali possiedono i nuovi mezzi di produzione, come le centrali del sapere e della informazione. Sono cose risapute. Ma lo si ricorda qui perché la politica deve interrogarsi non solo su chi governa il sistema bancario e finanziario, ma su come si configura oggi la proprietà dei mezzi di produzione quando ai vecchi impianti si sostituiscono le reti. E che cosa diventa la proprietà, quando il peso del capitale umano e del capitale sociale diventa così grande e il lavoro produce non solo profitto per l’imprenditore ma crea nuove relazioni sociali? La sinistra non è fuori gioco. Lo sarà se non comincerà a dire cose di questo genere.

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