L’autunno degli studenti europei

Di Federico Nastasi Venerdì 19 Ottobre 2012 12:18 Stampa
L’autunno degli studenti europei Foto: Leonardo Caforio

A Bruxelles sta andando in scena la battaglia per le risorse destinate al bilancio, al fondo sociale e alle linee finanziarie per il 2014-2020. Nel corso di questa trattativa tra Parlamento, Commissione europea e Stati membri – trasformata in mercato delle vacche tra le ritrosie degli Stati forti, Gran Bretagna in testa, e le ristrettezze economiche dei paesi mediterranei – l’appello del presidente della Commissione bilancio del Parlamento europeo, Alain Lamassoure, sul rischio azzeramento dei fondi per il progetto Erasmus è l’ultima chiamata prima che cada l’impalcatura attorno al cantiere dell’integrazione europea.


La possibile scomparsa del progetto di mobilità internazionale rappresenta poca cosa a fronte della riduzione delle pensioni minime in Grecia o alla desertificazione del tessuto industriale europeo, ma rende bene lo spirito del tempo.

Il progetto Erasmus, una tra le azioni del programma quadro Lifelong Learning, dà la possibilità ad uno studente universitario europeo di effettuare in un ateneo straniero un periodo di studio legalmente riconosciuto nel paese di provenienza. Il programma, partito nel 1987 dalla Francia di Mitterand, nasceva nel brodo culturale degli anni in cui i rettori delle università europee, dall’Atlantico agli Urali, si davano appuntamento a Bologna per sottoscrivere la Magna Charta Universitatum. In quel testo si prospettava l’idea di uno spazio universitario vasto, affermando l’autonomia degli atenei, l’indissolubilità del legame tra didattica e ricerca, l’avvio di una collaborazione stretta tra gli istituti di formazione dell’Est e dell’Ovest, mentre il muro di Berlino era ancora in piedi. L’anno successivo, sempre a Bologna, gli studenti si ritrovarono in un convegno internazionale per stipulare la loro Magna Charta dei diritti.

Era la politica che cambiava la vita delle persone. Tante persone: quasi tre milioni di studenti hanno svolto un periodo in Erasmus. Tutti giovani che vivranno l’Europa, qualunque sarà la sua forma, nei prossimi decenni.

L’Erasmus è prima di tutto una finestra di vita irripetibile: ha portato i giovani europei a dover affittare casa o stipulare un abbonamento metro in un paese diverso dal loro, a studiare intere mattinate in biblioteca e fare la fila alla mensa, a vivere da tre a dodici mesi in una comunità studentesca internazionale. Un tempo per costruire i popoli si sono usati gli eserciti o i consumi (come fece il fascismo italiano sfruttando la Standa e l’Upim); l’Erasmus è stato un progetto per costruire un popolo attraverso la cultura. Non è tutto, ma è già molto.

I limiti sono tanti, a partire dalle risorse sempre più scarse: il finanziamento complessivo al programma supera di poco i 400 milioni di euro, l’ammontare di una borsa di studio è di 254 euro mensili e per questo l’opportunità del progetto di mobilità è rivolta prevalentemente ai figli del ceto medio-alto. Il rischio di esaurimento del fondo sociale europeo non deriva da una semplice osservazione delle tabelle di bilancio, è una scelta politica: una delle tante forme che assume l’austerity dei conti in ordine e della fase due che non arriva mai. È finita la stagione delle approssimazioni positive, dell’integrazione a piccoli passi, dello stop and go, di un avanzamento lento e inesorabile verso un continente senza più confini.

La prospettiva europea ha riempito di significato l’impegno politico di molti. Oggi quell’orizzonte non c’è più, il nuovo orizzonte non c’è ancora e brusco è stato il passaggio dal desiderio alla colpa, dalla speranza alla paura.

Per un giovane italiano, greco o spagnolo la domanda “che vuoi fare da grande?” non ha senso (l’ha disegnato bene Staino: alla domanda di Bobo, la figlia risponde “perché, si può scegliere?”). L’autunno degli studenti europei è la stagione dell’allontanamento dei nostri destini, la consapevolezza che la notte sarà lunga. Nel continente sette milioni e mezzo di ragazzi non studiano e non lavorano, un giovane su cinque è disoccupato, in Grecia e Spagna uno ogni due.

La polverizzazione del lavoro d’integrazione fin qui svolto è un rischio concreto, un baratro sul cui orlo si danza tra i veleni del pensiero dei vari Alain de Benoist e l’ascesa delle forze neofasciste.

Nell’Europa del fiscal compact e dei compiti a casa, il confine tra critica alla tecnocrazia e euroscetticismo è sottile. Superarlo è semplice, e significa perdere la partita dell’integrazione. La risposta a chi vuol fare l’agenda di governo con la lettera della BCE, per noi è ancora il testo più europeista di tutti: il libro bianco di Jacques Delors.

Delors, osservando il tramonto del fordismo, propone una ridefinizione di economia, di modi di produzione, di società. Ci dice che le caratteristiche del modello europeo, in particolare il welfare e le istituzioni della conoscenza, sono le leve con le quali coniugare il binomio cittadinanza-sviluppo economico. Non è la scuola che deve adeguarsi alla domanda del mercato, ma i modelli d’impresa che si plasmano ad una società innervata di sapere, grazie ad un grande investimento pubblico che miri a produrre e diffondere conoscenza. Di questo, poco si riconosce nelle politiche della sinistra europea degli anni Novanta. Oggi, nell’avvilimento di un dibattito pubblico stretto tra l’egoismo dei forti e la colpevolizzazione dei popoli mediterranei, non si vede lo spazio per riaffermare l’idea di ricostruire le società e la democrazia attraverso il sapere che cambia il modo di produrre.

Il compito di questa generazione, dei giovani che vivono l’Europa della crisi e del declino, è di salvarci dalle risposte facili, da chi vuole riportarci alle monete nazionali e alle università di provincia. Costruire un pensiero progressista forte, che chiami all’impegno tanti, che stringa culture diverse.

Dopo aver salvato l’Erasmus, bisognerà aprire una riflessione su come integrare i sistemi universitari del Mediterraneo, su come costruire una cultura condivisa con quei giovani del Nord Africa che stanno ricostruendo dalle fondamenta i loro paesi, perché adesso non bastano più l’iniziativa UniMed o gli scambi promossi dai singoli atenei. Si tratta, per la nostra generazione, di mettere assieme pensieri e azioni, di costruire un movimento sociale che indirizzi e qualifichi il dibattito pubblico, che fissi più lontano l’orizzonte da raggiungere.

Le premesse non sono positive, non lo erano nemmeno per l’Italia che viveva Spinelli quando aveva la mia età. Sarà una battaglia dura: d’altronde, se fosse semplice, non sarebbe una battaglia.

 


Foto: Leonardo Caforio

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