Do something

Di Mattia Diletti Martedì 11 Settembre 2012 10:49 Stampa
Do something Foto: Barack Obama

La Convention repubblicana e quella democratica hanno aperto la campagna elettorale per le presidenziali 2012. E già sono emersi i limiti di un partito, quello repubblicano, che sembra congelato nel passato, e la forza dei democratici che, impegnandosi ad ampliare i loro diritti, puntano sul sostegno dei soggetti più deboli della società: donne, omosessuali, latinos, lavoratori a basso reddito.


Qualcuno, forse, ricorderà una vignetta apparsa subito dopo la vittoria di Barack Obama nelle elezioni del 2008: il nuovo presidente si rivolgeva, con aria interdetta e tenendo tra le mani del pane e del pesce, all’elettore che gli aveva consegnato lo strano regalo: «E questi cosa sono?», «Pani e pesci. Do something».
La Convention repubblicana e, in modo indiretto, quella democratica hanno ruotato attorno a quel “do something”. Da oggi in poi, il candidato repubblicano spenderà milioni di dollari per chiedere agli americani se stanno meglio di quattro anni fa, fornendo la risposta per lui più ovvia: assolutamente no. Dall’altro lato la campagna democratica racconterà quello che è stato fatto e ciò che si può ancora fare.

Come ha ricordato Mario Del Pero, la sintesi migliore della risposta della Convention democratica alle invettive republican l’ha data il vicepresidente Joe Biden: «Osama bin Laden è morto e la General Motors è viva». La prospettiva per il futuro (“Forward”) l’ha mostrata il presidente in carica: un milione di posti di lavoro nell’industria entro il 2016; il raddoppio dell’export entro il 2014; la riduzione dell’importazione di petrolio e la creazione di 600 mila posti di lavoro grazie al potenziamento del settore del gas; un calmieramento delle rette per il college; l’assunzione di 100 mila insegnanti di matematica e scienze; la formazione di due milioni di lavoratori nelle scuole pubbliche per aiutarli ad affrontare le nuove esigenze del mercato del lavoro. Tutto ciò, Congresso repubblicano permettendo.


Crisi della politica, American way


Ma basterà agli americani che Osama bin Laden sia morto e il governo non abbia fatto fallire la General Motors? Certamente no (ma si è anche parlato di riforma sanitaria e di molto altro). Tutti citano i dati disastrosi relativi ai tassi di disoccupazione: non si riesce più a scendere sotto l’8%, nonostante l’economia abbia ripreso a camminare. In realtà, tuttavia, il senso di sfiducia degli americani verso istituzioni e politica va ben oltre questo singolo dato. Basti vedere la serie storica, drammatica, del grado di approvazione concesso dagli elettori americani al Congresso degli Stati Uniti, di poco superiore al 10% e in picchiata ormai da anni.

Più in generale, accade negli Stati Uniti ciò che avviene qui in Europa: la credibilità della politica è scesa ai minimi termini. Come scrive Alfio Mastropaolo, viviamo nella “democrazia dello scontento”. Ancor di più in un paese come gli Stati Uniti, dove da un regime di governo diviso tipico del passato – il Presidente di un partito, il Congresso di un altro, ma in qualche modo si riusciva a lavorare – si è arrivati a un “non governo”, allo stallo, a una contrapposizione ideologica feroce, voluta in modo strategico dal Partito repubblicano. Ma anche figlia di una trasformazione antropologica profonda di quel partito, lunga trent’anni.

L’impressione è che sia proprio la strategia repubblicana di questi ultimi due anni (molto simile a quella di tante altre occasioni) a indebolire il GOP: la guerra di religione contro Obama non ha una traccia di futuro, non segna nessun nuovo percorso attorno al quale unire il popolo americano, già di per sé abbastanza disorientato. E qui ha gioco facile Obama nel dire che «I nostri avversari ci parlano di tagli alle tasse, meno regole e che siccome il governo non può mica fare tutto, è meglio non faccia nulla. Non puoi pagarti l’assicurazione sanitaria? Non ti ammalare! Se una compagnia inquina l’aria che tuo figlio respira, è il progresso! E se non hai i soldi per pagarti il college, fatti prestare i soldi dai tuoi, come dice il mio avversario (...). Noi non siamo così, crediamo nell’iniziativa individuale ma anche in qualcosa di nome cittadinanza, una parola che significa che abbiamo obblighi gli uni nei confronti degli altri».1 


I democratici, quasi un partito (dei diritti?)


Le previsioni sono fatte per essere sbagliate – lo spazio politico/elettorale per una restaurazione repubblicana è stretto ma reale – però i democratici posseggono ancora una qualche visione politica del futuro, mentre i repubblicani non hanno fatto un passo in avanti rispetto a quattro, dieci o trenta anni fa. Come se nel mondo non fosse successo nulla, non solo una gravissima crisi economica, ma anche la caduta del Muro di Berlino (buona la battuta di John Kerry alla Convention democratica: «Quattro anni fa Sarah Palin diceva di vedere la Russia dalle coste dell’Alaska, oggi Romney ne parla come se avesse appena visto Rocky IV»).
I democratici – e Obama – appaiono più forti perché sembrano ancora possedere un lumicino di credibilità, e attorno a essa organizzano interessi, gruppi sociali e domande: quelle dei soggetti che devono ancora lottare ed emergere per allargare la sfera dei diritti (i latinos, le donne, gli omosessuali, i giovani, i lavoratori a basso reddito, i sindacati, i lavoratori pubblici). A loro è stato dato un grande spazio alla Convention di Charlotte, dove i democratici parevano un partito quasi organizzato, per loro un fatto nuovo.

Non è affatto detto che il sistema politico americano e la sua élite politico-economica (democratica e repubblicana) possa riuscire a garantire diritti, opportunità e potere a questi gruppi che chiedono e rivendicano, ma sembra già qualcosa rispetto alla non politica dei repubblicani. Ed è quel qualcosa che ha a che fare con un disegno di futuro.


 

[1] Il virgolettato tradotto in italiano è tratto da M. Mazzonis, Election 2012/Il discorso di Obama, più uomo e meno profeta, disponibile su Rolling Stone.

 


Foto: Barack Obama

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