Il «modello Roma»

Written by Walter Veltroni Monday, 02 January 2006 02:00 Print

Poco più di un anno fa, all’inizio del 2005, all’Auditorium di Roma organizzammo un convegno di due giorni per riflettere, insieme a tutti gli «attori» presenti sulla scena romana, della città che verrà da qui ai prossimi dieci anni. Fu un’occasione, quel convegno, per osservare e per comprendere la direzione dei mutamenti in corso, per individuare le scelte strategiche in grado di continuare ad animare una politica amministrativa intelligente e progettuale. Fu un’occasione, al tempo stesso, per tornare a sottolineare la nostra idea di città, e quindi gli obiettivi ai quali tende, quotidianamente, il lavoro che questa amministrazione porta avanti da ormai quasi cinque anni.

 

Poco più di un anno fa, all’inizio del 2005, all’Auditorium di Roma organizzammo un convegno di due giorni per riflettere, insieme a tutti gli «attori» presenti sulla scena romana, della città che verrà da qui ai prossimi dieci anni. Fu un’occasione, quel convegno, per osservare e per comprendere la direzione dei mutamenti in corso, per individuare le scelte strategiche in grado di continuare ad animare una politica amministrativa intelligente e progettuale. Fu un’occasione, al tempo stesso, per tornare a sottolineare la nostra idea di città, e quindi gli obiettivi ai quali tende, quotidianamente, il lavoro che questa amministrazione porta avanti da ormai quasi cinque anni.

Su una cosa ci fu un accordo unanime, anche nel momento in cui guardavamo soprattutto al futuro: Roma è già oggi una città in movimento, che si sta modernizzando con grande velocità. È ormai finita nel dimenticatoio, una volta per sempre, l’immagine della vecchia città della burocrazia, della città dei ministeri. Roma è una capitale aperta all’orizzonte dell’Europa unita e all’economia globale, con una base economica diversificata, con infrastrutture avanzate, con alta tecnologia. È una città dinamica, che migliora i servizi offerti, che apre nuovi spazi per la cultura, che ha messo in cantiere grandi opere, che è il luogo ideale per far crescere nuove attività.

È motivo di orgoglio che giornali autorevoli come «Le Monde» e «Financial Times» parlino, in proposito, di «nuovo Rinascimento di Roma». Ma per noi è ancora più importante che tutto questo stia avvenendo senza derogare mai da un principio che abbiamo posto, fin dall’inizio, alla base della nostra azione: il principio che non esiste vero sviluppo se ad esso non si accompagna, sempre, qualità sociale, equilibrio tra le diverse parti della città, e in particolare attenzione ai più deboli, a chi ha bisogno, a chi rischia di restare ai margini o di essere escluso. Se c’è un «modello Roma», se molti osservatori ormai parlano in questi termini della nostra esperienza, è per questo. Perché tutto ciò che facciamo è volto a tenere insieme crescita economica e coesione sociale, e perché alla base delle scelte che prendiamo c’è sempre un modo di lavorare, di collaborare, di «concertare», di procedere insieme: la giunta, il consiglio comunale, e insieme a loro il mondo dell’impresa, le associazioni di categoria, le forze sociali e i diversi soggetti della società civile. È la volontà, di fare «sistema». È un’idea «larga» di ciò che è una classe dirigente.

Dal punto di vista della crescita economica i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Roma è una città che produce ricchezza, e lo fa a ritmi che sono molto superiori a quelli della media nazionale. A chi legge una rivista come questa, animata da idee di lungo respiro e da analisi rigorose, credo che i numeri non facciano paura. Vorrei dunque citare alcuni dati, per dare concretezza a queste affermazioni. Il valore aggiunto a prezzi costanti è cresciuto a Roma, nel 2004, del 4,1%, contro un aumento dell’1,3% della media nazionale. Tre volte di più, secondo quanto ci dicono i dati ISTAT e le elaborazioni svolte da Prometeia. Il settore dei servizi, a sua volta, è cresciuto del 4,3%, e quello dell’industria in senso stretto, sebbene storicamente debole nel tessuto produttivo della nostra città, è salito del 3,1%. C’è poi un vero e proprio balzo nel settore agricolo, che spicca con un +15,8%.

È una crescita, questa, che crea occupazione. Tra il 2001 e il 2004 gli occupati nell’area romana sono cresciuti del 10,3%, di nuovo molto di più di quanto non sia successo nel resto del paese, fermo a un +3,7%. Il tasso di disoccupazione si è ridotto del 2,3% contro un calo dell’1,1% nella media nazionale. Aumenta anche il numero delle imprese: erano più di 229 mila quelle attive nel terzo trimestre del 2005, con una dinamica di crescita che ancora una volta è molto superiore rispetto a quella che si registra nel resto del paese: se si confrontano, appunto, i dati del terzo trimestre del 2005 con lo stesso periodo del 2001, si può vedere che nell’area romana le imprese attive sono aumentate dell’8,73% contro il 4,76% della media nazionale. Di questi risultati, peraltro, protagoniste decisive sono le donne: tra il 2001 e il 2004 la crescita dell’occupazione femminile è aumentata del 17%, contro una media del 5,3% a livello nazionale. E le donne titolari di imprese erano, alla fine del 2004 (ultima rilevazione disponibile) 42.501, vale a dire oltre duemila in più rispetto al 2001. Se poi guardiamo al settore del turismo, che dell’economia romana è un pilastro, nel 2005 abbiamo superato i 16 milioni e mezzo di presenze, molto più del 2004 e addirittura del 2000, anno del Giubileo. Vuol dire, tra le tante altre cose, che abbiamo portato nelle casse dello Stato 900 milioni di euro di IVA, senza peraltro che a Roma restasse un centesimo.

Questi risultati sono il frutto di una visione della città e del suo futuro. Sono la conseguenza di una assunzione di responsabilità di tutti i soggetti. L’amministrazione, da parte sua, ha puntato a migliorare il contesto nel quale le imprese operano, portando avanti un programma consistente di investimenti pubblici. Dal 2001 a oggi sono stati attivati 5,5 miliardi di euro di investimenti e la capacità di realizzazione è passata dal 30 al 70%. Abbiamo varato un piano delle opere pubbliche per il 2006–2008 che prevede investimenti per 2.170 milioni di euro, su più di mille interventi tra nuove opere, manutenzioni straordinarie e completamenti. Tutto questo rafforzando allo stesso tempo la solidità della gestione amministrativa che ci viene riconosciuta anche da agenzie di rating internazionali come Standard & Poor’s, che ha confermato, lo scorso dicembre, il rating AA- alla nostra città.

Insomma, Roma ha tutte le carte in regola per continuare a percorrere la strada che unisce crescita economica e coesione sociale. Insisto su questa indissolubilità, che è poi la chiave di ogni vera politica riformista. Nessun intervento singolo potrebbe avere l’effetto voluto se non fosse inserito in un contesto in cui al primo posto c’è la condivisione di un’idea della città, di un’idea forte di comunità, di un percorso di sviluppo che si realizza perché aumenta il grado di coesione sociale.

Già cinque anni fa, presentando il nostro programma, assumemmo come centrale, per questo, il principio «Roma cresce se cresce tutta Roma». Definimmo, tra le priorità, quella di «portare le periferie al centro della città», quella di disegnare una città che non abbia un solo centro ma più centri, diffondendo sviluppo e qualità su tutto il territorio metropolitano. Una città, dunque, riequilibrata nel rapporto centroperiferia, perché più accessibile e vivibile grazie all’intreccio delle scelte urbanistiche e di quelle legate alla mobilità, perché il sistema produttivo, le infrastrutture e la qualità ambientale sono tenute insieme.

Sono i principi che hanno ispirato il nuovo Piano regolatore di Roma, il primo ad essere adottato dal consiglio comunale dopo quello di Nathan, ormai un secolo fa. Sono i principi che animano la nostra attenzione per le periferie. Sono i principi che seguiamo quando portiamo nelle strade periferiche l’illuminazione, quando facciamo nascere lì nuove librerie, creando incubatori d’impresa e posti di lavoro, ponendo le basi di un intervento complessivo che comprende i Programmi di recupero e di riqualificazione urbana, i Contratti di quartiere, e anche uno strumento come l’Atlante delle periferie. Penso, inoltre, agli articoli 11, che si possono considerare dei veri modelli innovativi in fatto di progettazione del territorio cittadino e che interessano un terzo delle periferie romane e 440 mila cittadini. Si tratta della più grande manovra di recupero delle periferie mai programmata da un comune italiano.

Una città più unita, dunque. Fisicamente e anche in un modo che a ben vedere va più in profondità, ed è più «di lungo periodo». Sempre presentando il programma sottolineammo un obiettivo che in questo arco di tempo è stato una sorta di vero e proprio assillo: fare tutto il possibile perché Roma sia davvero, nel senso più alto, una «comunità». Poteva apparire, forse, una questione astratta, impalpabile, da lasciare alla riflessione degli studiosi. Credo invece di poter dire che si tratta di qualcosa che riguarda la nostra vita di tutti i giorni, e che il frutto del nostro impegno sia importante, prezioso, soprattutto in un tempo come questo, caratterizzato da una generale e diffusa incertezza, da insicurezza, da profondi timori sul proprio avvenire, sul futuro. Da tempo, ormai, in Italia siamo in una situazione in cui il problema non è più solo la povertà estrema. A soffrire, ad essere in difficoltà, sono le famiglie colpite nel loro potere d’acquisto e costrette a mille sacrifici per arrivare alla fine del mese, sono le giovani coppie che non possono fare progetti perché non riescono ad accendere un mutuo per comprare una casa e si trovano di fronte ad affitti proibitivi, e sono anche, su un altro versante, le imprese costrette a muoversi in uno scenario di domanda nazionale ed europea in declino.

Di fronte a tutto questo le istituzioni hanno, come primo dovere, quello di non far vincere la sfiducia, quello di non far cadere intere fasce sociali nello sconforto e nella rinuncia. Così un paese, una comunità, rischia di spaccarsi. È come se ci fosse una forza centrifuga, estremamente pericolosa, che rischia di staccare pezzi interi della società e di farli precipitare nel disagio, nell’emarginazione. Contrastare questa forza, contrapporle una spinta verso l’interno, verso l’inclusione, è compito fondamentale di un governo, di un’amministrazione.

È un compito che noi, a Roma, sentiamo di avere. I cittadini devono poter sentire che le istituzioni sono loro vicine, sono «amiche». I romani, di fronte all’aumento del costo della vita, hanno potuto contare, ad esempio, sull’istituzione dell’Osservatorio sui prezzi e sul protocollo d’intesa «Roma Spende Bene», o anche sul cosiddetto «kit» per l’inizio della scuola. E per il problema della casa, il Comune in quattro anni e mezzo ha consegnato circa 1.900 appartamenti e ha erogato buoni casa per circa 10 mila famiglie. Allo stesso modo i cittadini romani sanno che di fronte al crescere dei rischi alimentari i loro bambini possono mangiare, nelle mense scolastiche, cibi biologici e garantiti; e che se delle antenne abusive nei pressi di una scuola costringono i loro figli a convivere ogni giorno con gli effetti delle onde elettromagnetiche, c’è chi si preoccupa, governando, di porre fine a una situazione inaccettabile.

I romani sanno che un piano straordinario per gli asili nido ha permesso di abbattere le liste di attesa, di passare dagli 8.321 posti disponibili del 2001 agli attuali 12.727, con un incremento, quindi, del 53%. I romani sanno che se hanno un figlio disabile, anche quando non potranno più occuparsene, anche dopo di loro, ci sarà una fondazione, voluta dal Comune, che lo farà. Sanno che i loro parenti più anziani, anche d’estate, non saranno soli, perché possono fare affidamento su una vasta rete di servizi, sull’attività di una Sala operativa sociale che funziona tutti i giorni 24 ore su 24 e che nei tre anni della sua attività ha risposto a circa 200 mila persone effettuando più di 40 mila interventi; e sulla Teleassistenza, che ci permette di seguire ogni giorno migliaia di anziani, grazie a un braccialetto posto al loro polso che ci informa costantemente del loro stato di salute e ci consente interventi di emergenza.

Sanno, i romani, che se il loro desiderio è quello di prendere in affido o in adozione un bambino, o se scelgono il sostegno a distanza, possono contare sul Centro «Pollicino». I romani sanno, in generale, che questa è una città attenta in particolare ai più deboli, a chi ha più bisogno, a chi si trova improvvisamente a vivere una situazione di profondo dolore e disagio. La piattaforma alimentare «Roma Non Spreca» è nata per raccogliere le eccedenze di alimenti che verrebbero gettati via e distribuirli invece al circuito delle mense e dell’assistenza. Ci sono poi le «Isole della solidarietà» a Castel Sant’Angelo, il nuovo centro di accoglienza inaugurato a Ostia il 24 dicembre e tutte le strutture che in questo inverno permettono di garantire complessivamente 4.176 posti (3.500 in più rispetto al 2001) alle persone senza fissa dimora. Trecento di questi posti sono espressamente dedicati ai nuclei formati da madre e bambino, così come ai bambini di famiglie in gravi difficoltà, a rischio di disgregazione, è dedicato il Centro per il contrasto alla mendicità minorile, per sottrarre i piccoli alla strada, per assisterli, per entrare in contatto con i loro genitori e sostenerli nell’assunzione delle proprie responsabilità di cura.

Per garantire la coesione sociale, per dare concretezza alla parola «inclusione», e allo stesso tempo alla parola «opportunità», a Roma abbiamo scelto una strada precisa, che io credo sia, in senso più ampio, quella del futuro. È la strada di un nuovo welfare, assai lontano dall’assistenzialismo fine a se stesso. È l’idea – che informa tutto il nostro Piano regolatore sociale – di una vera welfare community, dove le risorse della società civile, di tanti volontari e associazioni, delle stesse famiglie, disegnano una rete in cui la cura dei bisogni degli anziani non autosufficienti e dei disabili va di pari passo con nuove tutele a favore dell’ingresso nel mondo del lavoro e della stabilizzazione degli impieghi. È, insomma, l’idea di uno Stato sociale della sussidiarietà. È l’idea di un ve ro e proprio patto sociale, che si basa sulla capacità di tenere insieme l’innovazione e la competitività con il livello della vita dei cittadini, con l’attenzione alle opportunità di chi ha talento e le esigenze di chi ha bisogno. Questo è il senso della nostra sfida, della sfida che sta portando avanti una maggioranza che ha iniziato il suo lavoro avendo su di sé tante attenzioni anche per il fatto di essere felicemente «anomala» per la sua «estensione» politica, e che questo lavo ro ha saputo portare avanti con una coesione e con capacità tali da dimostrare che quando c’è una volontà comune, quando si ha a cuore il bene della collettività, le differenze e i diversi colori non sono certo un impaccio, ma una ricchezza. È con queste convinzioni, con queste idee, con i risultati del lavoro di cinque anni, e con i nostri progetti per la città che verrà, che ci presenteremo, il prossimo maggio, di fronte ai cittadini romani.