Quel che resta del giorno

Written by Renzo Guolo Wednesday, 22 September 2021 16:29 Print
Quel che resta del giorno Istockphoto/Rost-9D

 

La scena non può essere che l’annunciato, ma non meno sorpren­dente, ritorno al potere dei Taliban e quella della precipitosa e dram­matica fuga occidentale dall’Afghanistan. Due decenni di conflitto, migliaia di vittime, masse di profughi, gigantesche risorse investite. Poi, quei turbanti nel palazzo presidenziale di Kabul. Come se il tem­po fosse trascorso vanamente. In realtà le cose non sono così sempli­ci, ma l’epilogo afghano produce, comunque, un effetto straniante. E suscita interrogativi che non si possono eludere.

Cosa rimane della lunga stagione iniziata con l’attacco di al Qaeda all’America, proseguita con le guerre di Bush jr. in Afghanistan e Iraq, la teorizzazione dell’esportazione della democrazia con ogni mezzo, la violenta deflagrazione siriana, l’illusoria stagione delle cosiddette “primavere arabe”, la proclamazione dello Stato islamico, la campa­gna terroristica in Occidente come articolazione del jihad globale, il riposizionamento dei regimi autocratici della Mezzaluna in funzione di antemurale islamista? Un bilancio di questo enorme sommovi­mento va fatto. Tanto più ora, mentre gli occhi sono ancora pieni delle immagini degli aerei stracolmi di fuggitivi che si levano in volo da Kabul, lasciando a terra molti di quelli che avevano creduto alle parole d’ordine occidentali, centinaia dei quali non solo metaforica­mente colpiti a morte da chi li considera “servi di infedeli e traditori”.

UN CAPITALE POLITICO E SIMBOLICO

SERIAMENTE DANNEGGIATO

Ha senso partire, nel cercare di dare significato agli avvenimenti di questo doppio decennio di inizio secolo, dalla conclusione della vi­cenda afghana, avventura che rischia di trasformarsi in duplice cata­strofe, politica e culturale, per l’Occidente. Quella culturale persino più disastrosa di quella politica, poiché la sua amara conclusione mette in gioco il capitale simbolico più prezioso. La débâcle afghana, infatti, tarpa le ali – per lungo tempo, se proprio non definitivamen­te – alla spinta propulsiva occidentale fondata non esclusivamente sul potere militare. È questa la vera vittima politica eccellente del lungo conflitto. Difficile, in futuro, richiamarsi, senza generare criti­che o dubbi, a parole d’ordine incentrate sulla democrazia. Già messe in discussione da chi, in particolare fuori dall’Occidente, le ritiene etnocentriche, per nulla universaliste o, addirittura, espressione delle “categorie del Politico” del Nemico.

Dopo l’11 settembre, la scelta di andare alla resa dei conti con il fon­damentalismo di matrice islamista jihadista sembrava aprire le porte alla quarta ondata della democratizzazione: la terza era stata inne­scata dalla caduta del Muro e il tramonto del comunismo di regime.

La linea dell’esportazione della democrazia, soprattutto nella militan­te versione originaria neocon – un distorto e audace mix di wilsoni­smo imbevuto di residui di trotzkismo declinato in chiave di “guerra permanente” per la libertà evocato, oltre che dalla biografia di alcu­ni suoi ideologi, dalla stessa espressione enduring freedom – segnava idealmente quel passaggio. Sebbene sia stata, nei fatti, abbandonata dalle Amministrazioni succedute a quella Bush jr., quella suggestio­ne ha continuato a illuminare un ideale orizzonte mobilitante per l’opinione pubblica occidentale, che sembrava sostenere interventi che andassero oltre la mera dimensione militare. L’interventismo post guerra fredda assumeva maggiore legittimazione nella cornice dell’espansione della democrazia. Come conferma l’enfasi posta in seguito, una volta divenute evidenti alcune strumentali concezioni neocon, sulla necessità di accompagnare il soft power all’hard power.

La convinzione che trapiantare la democrazia in regioni e aree cul­turali del mondo che alimentavano il fondamentalismo di matrice islamista consentisse di spostare in avanti le linee di difesa dell’Oc­cidente, producendo in loco anticorpi in grado di contenere quel fe­nomeno e i rischi per la sicurezza che ne derivavano e, al contempo, allargare i diritti umani, in particolare delle donne, faceva convergere su quell’ipotesi mobilitante soggetti di matrice politica diversa. L’idea della democratizzazione, sostenuta da attori più o meno strumentali, o più o meno convinti, restava così centrale nel discorso occidentale sul, e al, mondo.

Lo shock afghano è tanto più intenso perché, replicando in maniera ancora più impietosa quanto era accaduto in Iraq, sancisce la distanza da quella visione del mondo di complessi sistemi culturali, dei quali le tradizioni e le religioni, o le particolari interpretazioni poli­tiche di esse, sono parte integrante. Mettendo a nudo, così, impieto­samente, la crisi dell’universalismo democratico. La resa ai Taliban, dopo che l’esercito a lungo addestrato dagli oc­cidentali si è liquefatto senza combattere, mostra come la “conquista dei cuori e delle menti” fosse assai precaria; e che se non ci sono forze locali che vivono convintamente i valori democratici, i trapianti, tanto più in particolari condizioni sto­riche, provocano indifferenza o rigetto.

Di fronte a questa evidente impasse esultano le autocrazie che considerano debolezze le preoccu­pazioni per i diritti umani e per il rispetto delle procedure. La quarta ondata della democratizza­zione si infrange, dunque, sulla diga naturale co­stituita da regimi che non nascondono la propria soddisfazione per il disincantato finale della crisi afghana. Regimi rassicurati dal fatto che la di­sfatta occidentale neutralizza ogni pressione esterna sul fronte, anche solo propagandistico, dell’invocata democratizzazione interna. Cina, Russia, Iran, Turchia, ma anche Arabia Saudita e Pakistan, decisi a mantenere per motivi diversi stretti rapporti con il rinato Emirato islamico e a colmare il vuoto americano, sono tra i più soddisfatti della piega presa dalle cose.

Quanto ai movimenti islamisti, il trionfo dei Taliban rilancia il mito politico della “via islamica”, volano essenziale nella riproduzione di un’ideologia totale come quella di cui sono portatori. Per i gruppi di quel magmatico universo, spesso conflittuale al suo interno, il ritor­no al potere dei vecchi compagni del mullah Omar non rappresenta un modello al quale ispirarsi: troppo condizionata, l’esperienza, dal peso della tradizione locale afghana. Ma la vicenda è significativa perché fotografa plasticamente che una fase storica, quella che mette insieme “guerra al terrore” ed “esportazione della democrazia”, è fi­nita. E, dunque, che il volto del nemico non si paleserà, per qualche anno almeno, con il pesante e ritmico rumore degli “stivali sul terre­no” delle armate occidentali. Se proprio guerra fosse, e non rappresa­glia come quella che mette fuori gioco militanti dell’ISIS-Khorasan ritenuti gli organizzatori dell’attentato all’aeroporto di Kabul, sarà guerra dell’aria, da remoto o meno. Un tipo di guerra devastante ma che, da sola, difficilmente piega gruppi convinti ideologicamente o radicati tra la popolazione.

È questa consapevolezza strategica, articolata attorno al principio del­la minore deterrenza ostile, a costituire, per la galassia islamista, il vero dividendo politico costituito dall’aver issato la bandiera dell’E­mirato a Kabul. È questa presa d’atto che, al di là del loro orienta­mento, islamonazionalista o panislamista combattente, consente ai diversi gruppi che si riconoscono negli stendardi con la sura aprente, di pensare di disporre di un certo margine d’azione per perseguire, a scapito di un Occidente sfinito e senza più strategia unificante, che non ha più chiaro né il senso della coalizione né quello della mis­sione, i propri obiettivi. Per questo, al di là delle scelte compiute in futuro dai Taliban, la fuga da Kabul promette di riverberare pesanti conseguenze anche in luoghi assai lontani dalle desolate valli afghane.

GUERRA AL TERRORE E DEMOCRAZIA

Ritirandosi dall’Afghanistan, in applicazione di accordi firmati dall’Amministrazione Trump, Joe Biden ha affermato che l’obiettivo americano era distruggere le forze che avevano attaccato l’America e che questo è stato fatto. Interpretazione degli avvenimenti veritiera ma riduttiva. Certo, tutti i presidenti americani si sono proposti di debellare, con ogni mezzo, la forza dei jihadisti. E così hanno fatto. Certo, alla fine del ventennio inaugurato drammaticamente dagli ae­rei scagliati come proiettili sulla skyline di Manhattan, Bin Laden e decine di altri leader di primo piano del jihadismo sono morti o sono stati messi fuori gioco. Certo, l’ultima utopia novecentesca, alme­no nella sua genesi teorica, quella di uno Stato islamico fondato su una totalizzante concezione del mondo e una violenta opposizione ai valori occidentali, da costruire “qui e ora”, è stata distrutta. Ma la contrazione del ciclo armato non significa fine dell’islamismo, né di quello radicale né di quello neotradizionalista di matrice salafita che punta alla costruzione di esperienze politiche che non attirino trop­po ostilità. Anzi, nel progressivo ripiegamento interno occidentale in nome, nel caso americano, di una “politica estera per i lavoratori”, frutto avvelenato del condizionamento interno costituito dal sovrani­ smo populista trumpiano, quelle forze scorgono un’opportunità. Esse adattano la loro strategia in un contesto nel quale mostrare minore rigidità ideologica diventa un vantaggio competitivo. Dunque, il fu­turo sembra appartenere, più che alle avanguar­die radicali che hanno sposato la tesi del jihad globale, come l’ISIS, ai movimenti che, a sca­pito della dimensione transnazionale dell’ideo-

logia di riferimento, intendono misurarsi lungo la via dell’“islamismo in un paese solo”. O che, comunque, possono usare le opportunità offerte dalla democrazia, magari ridotta a semplice pro­cesso elettorale, per conquistare il potere.

È proprio il pessimistico e inconfessabile timo­re di un simile esito che ha indotto l’Occidente a volgere lo sguardo altrove quando alleati non certo democratici, o con evidenti pulsioni auto­cratiche, hanno mostrato di contenere quei mo­vimenti. La tesi dell’esportazione della democrazia, o della non inge­renza di fronte alla volontà popolare, è franata anche sotto l’eccesso di questa Realpolitik che ha visto gli occidentali volgere lo sguardo altrove nel momento in cui la democratizzazione rischiava di aprire le porte ai suoi nemici o a forze considerate tali. Gli autocrati locali hanno provveduto a riportare tutto all’antico regime. Il caso egiziano è, in tal senso, eclatante.

Resta il fatto che la lettura retrospettiva e minimalista del ventennio, ridotto alla sola “guerra al terrore”, contenuta nelle stesse parole di Biden, non riesce a oscurare la lunga teorizzazione dell’élite politica e intellettuale americana sull’esportazione della democrazia e sui van­taggi che ne sarebbero venuti per la sicurezza e l’egemonia degli Stati Uniti. Una linea che, però, né in campo occidentale né tra quanti dovevano esserne i principali attori e beneficiari, ha avuto alle spalle una politica capace di sorreggerla coerentemente.

UN MONDO NIENTE AFFATTO NUOVO

Dalle irrespirabili ceneri dell’11 settembre e dai fuochi che ne sono seguiti nei due decenni successivi, non è nato un mondo nuovo, né, tanto meno, si è realizzato il trionfo della democrazia liberale. Il mondo si è rivelato assai più complesso di quello ipotizzato dai neocon o dai fautori della narrazione sulla “fine della storia”. La crisi della sua potenza guida, tanto più ripiegata su sé stessa dopo l’assalto di Capitol Hill, evento ancora largamente incompreso in tutta la sua portata politica e simbolica che segnala le profonde e non ricompo­ste fratture interne, si riverbera sull’intero Occidente. Lasciata l’Asia centrale, ritenuto sempre meno centrale il Medio Oriente, l’America guarda al Pacifico, e dunque alla Cina che vi proietta la sua ombra, come principale teatro del suo impegno. Un vuoto geopolitico che, nelle aree del disimpegno, non può essere colmato da un’Unione eu­ropea a 27 paralizzata dalla sindrome dell’unanimismo, dalla diver­genza degli interessi strategici dei suoi membri, dall’assenza di una politica estera e di difesa comune. Frastornati prima dagli accordi di Doha tra Trump e i talebani, poi da un ritiro da Kabul effettuato senza consultarsi con loro, gli alleati di Washington si ritrovano at­toniti davanti alla crisi a stelle e strisce. Il secolo iniziato all’insegna del “siamo tutti americani” e dell’accettazione del principio che “la missione decide la coalizione” si manifesta così, all’inizio della sua terza decade, anche con il volto della crisi della NATO.

Quel che resta del giorno, dell’11 settembre delle Torri in fiamme e dei vertiginosi crolli, dei detriti e dei corpi a terra, degli uomini che cadevano nel vuoto, di quel giorno che Don De Lillo racchiudeva nella semplice frase “Il mondo era questo, adesso”, non ha ancora finito di generare la sua lunga onda.