Intellettuale

Written by Biagio De Giovanni Tuesday, 24 May 2011 17:21 Print
Intellettuale Illustrazione: Anna Sutor

La parola “intellettuale”, nel senso più ampio di produttore di cultura, ha assunto un significato pregnante e inedito nell’età della politicizzazione di massa, tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo. Da quegli anni, che sono pure quelli della “grande trasformazione”, momento di rottura del vecchio equilibrio europeo, l’intellettuale conquistò una dimensione politica che lo spinse in un agone.

La parola “intellettuale”, nel senso più ampio di produttore di cultura, ha assunto un significato pregnante e inedito nell’età della politicizzazione di massa, tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo. Da quegli anni, che sono pure quelli della “grande trasformazione”, momento di rottura del vecchio equilibrio europeo, l’intellettuale conquistò una dimensione politica che lo spinse in un agone.

La ragione di tale evoluzione può esser vista alla luce dell’irruzione di quella “nuova politica”, seguita all’espansione della sua dimensione di massa, che scosse un equilibrio statale consolidato in cui gli intellettuali erano essenzialmente incardinati nelle funzioni dello Stato superando ogni precedente atteggiamento cosmopolita. Quando questo equilibrio si ruppe, quando la politica scardinò i vecchi confini statali e la vita reclamò i suoi diritti, allora la figura dell’intellettuale si trasferì in questa nuova zona di confine avvertendo che mutava lo stesso significato della sua produzione culturale e del suo rapporto con essa: a un certo punto, egli si interpretò come funzionario dell’umanità o della classe.

Liberato dalla pervasività dello Stato, l’intellettuale si collocò in un nuovo spazio. La sua cultura doveva interpretare la profondità della crisi, la quale mutava il ruolo dell’intelligenza accentuandone la dimensione critica. Egli diventa sempre più un critico dello stato di cose esistente, dinanzi alla caduta verti - cale di un mondo equilibrato, dove ogni cosa sembrava essere al posto giusto. Questo mutamento ha come profeti, in forme diverse, Marx e Nietzsche, Weber e Gramsci, Heidegger e Gentile. In forme diverse, appunto, giacché con Marx nacque la figura dell’intellettuale “organico”, che Gramsci elaborò profondamente in relazione alla dinamica delle classi sociali. La politica penetrò la funzione specialistica: per Gramsci, nella figura dell’intellettuale si disegnò quella dello specialista più politico. Weber, consapevole del destino cui andava incontro l’epoca, aveva cercato di sondare il significato del processo di razionalizzazione – che implicava disincanto, da assumere quale base per una vocazione responsabile del “lavoro intellettuale come professione” – e salvarlo dal magma vitale che assediava da ogni parte il significato stesso di questo lavoro. Nietzsche, critico violento dellademocrazia di massa, incardinò nell’intellettuale nihilista la funzione della volontà di potenza: il mondo era un magma vitale che ruotava su se stesso. Con Heidegger e Gentile (sotto l’influenza sia di Marx, sia di Nietzsche) le dighe si ruppero, e in forme anche lì diverse la prassi trasformatrice divenne tutto, e l’intellettuale (il pensiero) si assunse il compito di una diagnosi del destino del mondo e di una azione conseguente. Senza indicare altri nomi, tutto il secolo fu impregnato di questa idea e la funzione del pensiero si collocò in relazione alla prassi trasformatrice.

La fine della politicizzazione di massa, che irruppe come rovescio della medaglia di quel processo nell’ultima parte del secolo scorso, segnò la crisi perentoria di questo atteggiamento, che aveva dunque dominato fino a quel momento. L’intellettuale ha rinunciato alla funzione di “lettore” della storia e del suo destino, qualcuno dice, ironicamente, con qualche vantaggio per il mondo. Egli si è fatto interprete della nuova virtualità che ha dissolto ogni cosa consistente, ogni evento e tutti i rapporti stabili, che ha tradotto il mondo in una immagine fatta da una filiera infinita di individui tenuti insieme o da un cosmopolitismo senza centro o da una chiusa entropia identitaria, unica controfaccia della virtualità. Se nella funzione intellettuale si concentra il mondo delle idee (e delle ideazioni), queste sembrano dividersi fra un iperspecialismo che discredita ogni visione unitaria e l’appoggiarsi su una idea di vita liberata da ogni ulteriore determinazione, e dunque su una criticità di cui è difficile scorgere la misura.

Non sto dando giudizi di valore, né tantomeno rievocando nostalgie per un mondo che ha esaurito il proprio tragitto. Provo, in uno spazio breve, a disegnare qualche tratto di una fenomenologia che si apre su un mondo che sembra aver perduto alcuni elementi della sua materialità e che immagina di espandersi in una comunicazione senza resistenze: che cosa c’è di più “intellettuale” di questo? Una forma diversa di intellettualizzazione del mondo rispetto a quella che analizzava Max Weber.

Difficile dire se il mondo virtuale riuscirà a diventare “reale” al punto da farsi tramite di trasformazioni così profonde dell’intelligenza da costituire la base per una antropologia di carattere intensamente “culturale”, dove la cultura e la sua produzione saranno libere da vecchie mediazioni e gerarchie. Certo, la figura dell’intellettuale che ha accompagnato la formazione di chi è nato nei primi decenni del secolo scorso (e ancora, magari, si attarda nel presente) è scomparsa dalla scena. Come scomparsa è la sua prassi politico-intellettuale. Sarà un’altra “intelligenza” a capire il mondo che si va formando, e non so dire quanto questa nuova intelligenza avrà bisogno degli strumenti di un mondo esaurito. Qualcuno pensa, ma si può anche dubitarne, che la materialità del mondo tornerà a farsi sentire.

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