La porta del continente africano

Written by Gianfranco Belgrano Thursday, 21 September 2023 09:16 Print
La porta del continente africano Illustrazione di Emanuele Ragnisco

 

Non aveva i numeri degli altri componenti dei BRIC, ma quando il Sudafrica nel 2011 entrò nell’alleanza che vedeva insieme due potenze con diritto di veto all’ONU (Russia e Cina), un altro gigante asiatico come l’India e, per l’America Latina, il Brasile, le idee su quale potesse essere il ruolo sudafricano erano già chiare. La S che trasforma i BRIC in BRICS è innanzitutto una porta di accesso al continente africano, ovvero al continente destinato a crescere più rapidamente a livello demografico e a svolgere un ruolo ancor più importante a livello economico.
Già nella conferenza stampa congiunta del terzo summit dell’organizzazione (il primo con il Sudafrica) fu l’allora presidente sudafricano Jacob Zuma a sottolineare i punti di forza del suo paese. «Sebbene i nostri partner BRICS siano tra le principali economie del mondo, il Sudafrica apporta elementi peculiari che completano il meccanismo BRICS. A livello politico, i nostri partner apprezzano il sistema di valori che deriva da una storia e da una esperienza uniche (...). A livello economico, riconoscono il Sudafrica come uno dei più significativi attori in un’Africa in crescita».
In queste parole c’era sì la presa d’atto di una differenza sostanziale di peso politico ed economico del Sudafrica rispetto ai partner che la accoglievano, ma al tempo stesso c’era la consapevolezza di rappresentare l’avanguardia di un continente in piena trasformazione. E un passaggio successivo del discorso chiariva questo aspetto richiamando gli sforzi per creare aree di libero scambio a livello regionale all’interno dell’Africa. Oggi sappiamo che questi sforzi sono andati oltre e hanno consentito, nel gennaio del 2021 (la firma del trattato risale al 2018), di rendere operativa l’African Continental Free Trade Area (AfCFTA), ovvero la più grande area di libero scambio al mondo.
Benché nel momento in cui Zuma parlava il Sudafrica fosse la prima economia dell’Africa subsahariana, poi superata nel 2014 dalla più popolosa Nigeria, il punto fatto subito proprio dal governo sudafricano è stato quello di presentarsi come porta di ingresso, anello di congiunzione con un continente giovane, demograficamente in crescita ed economicamente in fase di pieno sviluppo. La S dei BRICS è quella del Sudafrica ma è anche quella di un intero continente che vuole contare di più e che ancora oggi trova spazi chiusi da un sistema messo in piedi dopo la seconda guerra mondiale da soggetti esterni al continente, consegnando all’Occidente e agli Stati Uniti in particolare, il ruolo di decisori globali. Usando le parole dello studioso camerunese Achille Mbembe, l’Africa sta entrando in una fase nuova: «Il ciclo storico che si era aperto dopo la seconda guerra mondiale e che aveva portato a una decolonizzazione incompleta, è finito. L’Africa sta entrando in un altro periodo della sua storia, un periodo che sarà lungo e che porterà enormi sconvolgimenti».
Con diversi paesi africani che stanno bussando alla porta dei BRICS – e con alcuni di loro che, come è stato deciso all’ultimo vertice del gruppo, ne faranno parte – il Sudafrica dovrebbe molto presto non essere più l’unico rappresentante del continente all’interno di questa associazione.
La nazione dell’Africa australe porta con sé tutte quelle componenti che stanno già cambiando il volto del mondo così come lo abbiamo conosciuto negli ultimi secoli. E questo è il più grande valore aggiunto che gli viene riconosciuto all’interno dei BRICS. Il riconoscimento di questo cambiamento è al tempo stesso l’elemento che finora è venuto meno in Occidente, in particolare in Europa. La parte di Occidente più vicina all’Africa e che per questo motivo dovrebbe giocare un ruolo e una partita diversi da come finora fatto, si è concentrata sugli effetti delle crisi africane – flussi migratori, sicurezza – privilegiando le politiche securitarie, finanziando dispiegamenti di missioni militari, creando barriere e non ponti di comunicazione. Al contrario, avrebbe dovuto mettere in campo partnership economiche che andassero a reciproco vantaggio, anche in risposta alle vere sfide sul tavolo: crescita demografica e sviluppo sociale, urbanizzazione e infrastrutture, sicurezza alimentare e sviluppo di un’agricoltura moderna, creazione di valore aggiunto e accesso all’energia, cambiamenti climatici e politiche di sviluppo eque.
L’Africa sta chiedendo di fatto di avere più voce in capitolo e il Sudafrica nei BRICS ha avuto possibilità che nemmeno il far parte del G20 avrebbe potuto garantirgli. La possibilità di dire la sua e di cominciare a parlare a nome di un continente che – lo dicono i numeri – conta e conterà sempre di più.  IL FATTORE DEMOGRAFICO
Quando, nel 2011, il Sudafrica entrò a far parte dei BRICS contava circa 51 milioni di abitanti. Nel 2022, secondo le stime attuali, è stato superato il traguardo dei 60 milioni di abitanti, con 22 milioni di persone che ricadono nella fascia di età 0-19 anni. Questo dinamismo è evidente in Sudafrica come nel resto del continente: tra il 2030 e il 2100 (dati UNDESA), la popolazione africana aumenterà di 2,2 miliardi di abitanti raggiungendo quindi per la fine del secolo quota 4 miliardi. Nello stesso periodo, la popolazione del Nord America aumenterà di 55 milioni e quella dell’Oceania di 19 milioni, mentre diminuiranno quelle di America Latina (-50 milioni), Europa (-150) e Asia (-285). In altre parole, se oggi gli africani rappresentano il 18% della popolazione globale, nel 2100 saranno il 37,9%. Tenendo in conto lo stesso arco temporale, il peso dell’Europa passerà dall’attuale 9,3% al 5,7%.
Siamo nelle fasi iniziali di un cambiamento epocale di cui il Sudafrica è portabandiera ma non unico attore. Il paese è consapevole di essere un simbolo, di essere una potenza in Africa destinata a essere affiancata da altri attori regionali di rilievo, a partire dalla Nigeria, che per peso demografico ed economico le è già davanti, dall’Etiopia, dal Kenya o dalla Tanzania per l’Africa orientale, dalla Costa d’Avorio o dal Senegal per l’Africa francofona, dal Marocco, dall’Algeria e dall’Egitto per il Nord Africa. Questa spinta demografica porta con sé un cambiamento generazionale altrettanto profondo, con i giovani e le giovani che hanno in mano inneschi rivoluzionari, che portano avanti un confronto con le vecchie dirigenze, accusate di aver tradito le aspettative e di aver contribuito a lasciare a metà i processi di decolonizzazione, di liberazione e di condivisione delle risorse. Un confronto che ha assunto in più occasioni contorni di forte dialettica o di aperta violenza.
Questo confronto generazionale in Sudafrica è stato declinato sul piano politico nell’unica seria sfida arrivata all’African National Congress (ANC), il partito di Nelson Mandela al potere dalla fine dell’apartheid (e nel 2024 saranno trent’anni di democrazia). La sfida è giunta da Julius Sello Malema, che dopo aver guidato l’ala giovanile dell’ANC, nel 2013 ha fondato gli Economic Freedom Fighters, avanzando recriminazioni e richieste da parte delle fasce più giovani della popolazione per una più equa ripartizione delle risorse del paese. Malema ha portato avanti un’agenda politica che prevedeva la nazionalizzazione delle industrie minerarie e l’espropriazione delle terre senza compensazioni: azioni entrambe in contrasto con il potere della minoranza bianca che tuttora possiede la quota più importante delle terre migliori e di fatto controlla l’economia. La questione della terra resta aperta ed è uno dei punti più sensibili della politica sudafricana.  IL FATTORE ECONOMICO
Di fronte ai giganti asiatici, alla Russia e al Brasile, il peso del Sudafrica all’interno dei Brics è relativo. Prendendo come punto di riferimento l’anno precedente alla pandemia (il 2019), in termini di PIL, secondo i dati del Fondo monetario internazionale, la Cina era al secondo posto nella classifica mondiale dei paesi più ricchi, l’India al quinto, il Brasile al nono posto, la Russia all’undicesimo e il Sudafrica al trentasettesimo posto con una quota dello 0,4% sul totale globale. Un confronto impari sulla carta, confermato anche nei dati sulle spese per la difesa. Paese quindi non di rilievo economico e nemmeno militare. Ma l’adesione ai BRICS ha certificato da una parte e favorito dall’altra il suo peso crescente in termini di interscambio.
La Cina è oggi il primo partner del paese (dati della Banca mondiale) assorbendo l’11,4% dell’export sudafricano e contando per il 20,7% delle sue importazioni. Tuttavia, le posizioni successive sono quasi interamente occupate da paesi occidentali – in particolare Stati Uniti, Germania e Regno Unito – sia per l’import che per l’export, a eccezione di India e Arabia Saudita, che tra i paesi che esportano in Sudafrica occupano la quarta e quinta posizione. Ad oggi, in altre parole, l’Occidente continua a essere il primo partner economico del paese.
Anche in questo caso, a fronte di un peso economico ancora poco incisivo a livello globale, sono le traiettorie e le tendenze che devono essere prese in considerazione, sia per quanto riguarda il Sudafrica sia soprattutto per quanto riguarda il continente nel suo insieme. Significativo a tal proposito è un rapporto del 2022 di Goldman Sachs intitolato “The Path to 2075”. Prendendo in esame 104 paesi, il rapporto scatta delle fotografie del mondo da qui ai prossimi cinquanta anni. Secondo questo documento, entro la fine del secolo il PIL di Cina e India supererà quello degli Stati Uniti, mentre l’Indonesia in trent’anni sarà stabilmente la quarta maggiore potenza economica (quinta solo se consideriamo l’eurozona come un’unica economia). Entro il 2050, inoltre, l’Italia uscirà dai primi quindici posti, mentre vi entreranno a far parte per la prima volta due nazioni africane: l’Egitto, che quell’anno dovrebbe attestarsi alla dodicesima posizione, e la Nigeria, alla quindicesima. In generale, in questa classifica, i paesi che dovrebbero scendere hanno la comune caratteristica di un continuo calo demografico, esattamente il contrario di quelli che saliranno sulla carrozza dei primi. Secondo quanto sostiene il documento di Goldman Sachs, la seconda parte del XXI secolo non sarà quindi americana e nemmeno appannaggio di due sole grandi potenze. Sarà piuttosto un terreno di conquista e di progresso economico per una serie di paesi rimasti indietro dalla seconda rivoluzione industriale ad oggi.
Citando l’economista statunitense Richard Baldwin, dopo gli anni della “Grande divergenza”, in cui i paesi del G7 avevano in mano gran parte del PIL mondiale, siamo entrati nella “Grande convergenza”, una fase in cui le differenze tra gli Stati cominciano ad assottigliarsi. Da qui si deduce la necessità per molti paesi di rivedere le regole che hanno dettato gli equilibri globali tra le nazioni. Resta però la forte questione delle disuguaglianze all’interno degli Stati, che in definitiva hanno poi un peso sulla stabilità e sulla tenuta politica.
Il Sudafrica, sottolinea la Banca mondiale, rimane un’economia duale, con uno dei tassi di diseguaglianza più alti e persistenti al mondo. «L’elevata diseguaglianza è perpetuata da un retaggio di esclusione e dalla natura della crescita economica, che non è a favore dei poveri e non genera posti di lavoro sufficienti. La diseguaglianza nella ricchezza è ancora più elevata e la mobilità intergenerazionale è bassa, e questo significa che le diseguaglianze vengono tramandate di generazione in generazione con pochi cambiamenti nel tempo» evidenzia l’istituzione finanziaria.
Problemi irrisolti quindi, ma anche spinte in avanti e movimenti sullo scacchiere mondiale in atto da diverso tempo.  IL FATTORE STORICO E POLITICO
La sintesi del ragionamento fatto finora conduce a una riflessione di fondo. Perché il Sudafrica il 2 marzo del 2022, nel voto con cui l’Assemblea generale dell’Onu ha condannato l’invasione russa dell’Ucraina, ha fatto la scelta dell’astensione? Perché un paese così vicino all’Occidente e così legato economicamente all’Occidente (fatto salvo il peso della Cina), che va fiero del suo impegno in difesa dei diritti umani e dei valori della democrazia, condivide al tempo stesso il tavolo con Mosca e Pechino, che hanno sistemi politici e valori molto diversi da quelli occidentali?
Secondo una interessante ricerca firmata nel 2022 da Omololu Fagbadebo (“South Africa in BRICS: A Review of Asymmetric Power Relations in an Intercontinental Group”) e pubblicata nel “Journal of African Foreign Affairs”, in sede ONU il Sudafrica ha decisamente preso una svolta a favore degli interessi sino-russi, votando in più occasioni in contrasto con quei valori su cui ha costruito la propria storia post apartheid. E traendone vantaggi. In particolare, spiega questo ricercatore sudafricano dell’Università di Durban, a livello diplomatico le posizioni di Pretoria si sono rafforzate notevolmente rispetto agli altri paesi della SACD, l’organizzazione che riunisce i paesi dell’Africa australe, perché parlare avendo alle proprie spalle due potenze come Mosca e Pechino ha un peso non indifferente. Sul lato economico, poi, il paese ha ottenuto corridoi preferenziali per investimenti e prestiti cinesi e ha infine avviato cooperazioni in ambito nucleare con la Russia. Ma il fattore più importante risiede, secondo Fagbadebo, nella natura stessa di questa relazione: il rapporto asimmetrico tra Sudafrica da una parte e Cina e Russia dall’altra è servito agli ultimi due per aprire le porte dell’Africa tutta, un’autostrada per la promozione di un emergente nuovo ordine mondiale, in competizione con le istituzioni di Bretton Woods, apparentemente più vicino alle aspirazioni di paesi consapevoli della loro forza e vogliosi di avere voce in capitolo nelle dinamiche globali.
D’altronde, perché l’Africa dovrebbe oggi difendere un assetto da cui ha tratto ben pochi benefici? L’Occidente, che nei decenni passati ha condannato alcuni dittatori e ne ha appoggiati altri che garantivano corposi interessi, è lo stesso che nel 2020 voleva eliminare i finanziamenti allo sfruttamento del gas perché fonte non green (proprio quando l’Africa aveva individuato nel gas una risorsa essenziale per spingere l’accesso alle fonti energetiche) e che poi, quando è esploso il conflitto ucraino e servivano forniture alternative a quelle russe, ha fatto dietrofront e ha inserito il gas nelle fonti green, lanciandosi nello sviluppo di progetti a livello globale. Sono cambiate le circostanze ma è rimasto l’atteggiamento equivoco. Forse anche per questo motivo, tornando al voto dell’Assemblea generale dell’ONU del 2 marzo del 2022, ad astenersi non fu soltanto il Sudafrica: furono diciassette i paesi africani ad astenersi. Sommando questi diciassette astenuti, il voto contrario dell’Eritrea e gli otto assenti, si arriva a ventisei paesi, poco meno della metà dei cinquantaquattro Stati che compongono il continente. Un dato significativo che deve invitare a riflettere.