Sull’astensionismo

Written by Fausto Anderlini e Marcella Mauthe Tuesday, 23 May 2023 11:20 Print
Sull’astensionismo ©iStockphoto/francescoch

L’astensionismo è il risultato di più cani che si mordono la coda, in un processo a spirale per il quale non sembrano esserci contro indicazioni. Uno scenario nel quale sono ormai definiti i contorni di una democrazia vieppiù informe, con basi di legittimazione sempre più ristrette ed esclusive, dominata dalle oligarchie economico-sociali e periodicamente percorsa da moti ribellistici anti-elitari. Se fino agli anni Novanta l’astensionismo è proceduto con misura in tutte le democrazie europee assecondando una naturale deflazione delle passioni politiche al seguito del benessere e della stabilità istituzionale, oggi il fenomeno sembra entrato in una dismisura che appare come il più evidente consuntivo del ciclo neoliberista. Masse elettorali disaffezionate e allo stato brado, volatili, a fronte di partiti ancorati a vecchie “famiglie” ormai esangui o di nuovo conio surrogatorio, cartellizzati come ceto nella sfera istituzionale, distanti anni luce da ogni funzione integrazionistica, oppure occasionale megafono delle masse alienate percosse dalla crisi economica ed emarginate dal sistema politico e dalla cultura dominante. Classi politiche evanescenti di partiti “sradicati”, anch’essi volatili. Talvolta anche espressione virulenta di fratture identitarie e territoriali a carattere dormiente, cioè non saturate per intero nella formazione degli Stati nazionali e nel percorso delle soglie della legittimazione democratica. Tutti gli indicatoridi fiducia testati dalle rilevazioni demoscopiche inclinano al ribasso. Sintomi di una sorta di “esaurimento politico” dove il basso generale dell’apatia è interrotto da improvvise sollevazioni elettorali di formazioni extra-sistemiche o revansciste, comunque ai margini della politica ufficiale. Società orientate verso traguardi “civili” sempre più avanzati espressione dell’individualismo postmoderno, ma con basi sociali profondamente intaccate. Mondi del lavoro frantumati e sospinti verso la marginalità, classi medie impoverite e precarizzate, diseguaglianze crescenti. I detriti depositati dal neoliberismo: una fragilità che mina le basi materiali dell’equilibrio democratico. Come postulato nei desiderata del “riformismo” neoliberista la domanda sociale ha perso la voce che un tempo era incanalata dalle strutture di capitale sociale (partiti, sindacati, associazioni). Il voto è l’unica arma a disposizione, ma ha perso la “misura”: “pesa” troppo poco, o pesa troppo, come un titolo tossico.
L’Italia, che un tempo godeva di un party system fra i più solidi e articolati dell’Europa e che per questo vantava tassi di partecipazione fra i più elevati, è entrata nel vortice con un impeto clamoroso. Nelle recenti elezioni politiche il tasso di astensionismo è cresciuto di dieci punti in un sol colpo, portando ciò che è impropriamente nominato il “partito dell’astensione” assai vicino al 40%. Nelle due elezioni regionali appena espletate (nel Lazio e in Lombardia) l’astensionismo è lievitato addirittura al 60%, replicando la situazione eccezionale del2014 in Emilia-Romagna. Anche nelle più recenti elezioni comunali nelle grandi città – le consultazioni che dovrebbero essere le “più vicine” ai cittadini – ha votato un elettore su due, con livelli di astensionismo al secondo turno prossimi al 60%. Il corpo votante sembra avviato a essere una minoranza della popolazione, tendenzialmente coincidente, come diagnosticato da tutte le indagini di campo, con la parte benestante e meglio istruita, o comunque meno disagiata, della società. Le classi medie risparmiate, e in qualche caso promosse, dalla ristrutturazione neoliberista.È ampiamente verificata la correlazione fra astensionismo e livello del reddito, tassi di disoccupazione, precariato, gioventù drop out che non lavora né studia, adultescenza, zone periferiche e di degrado, marginalità socio-culturale in genere.
È la “sommersa emergenza” di un vasto e proteiforme “mondo remoto”. Non è per nulla casuale che le esplosioni disaffettive e protestatarie, con l’annessa e perversa emersione di forze “antisistema”, siano avvenute al seguito di governi tecnici, a larghe intese, con tutela presidenziale, bypassanti i partiti politici e orientati alla “neutralizzazione politica”. Le impennate più forti dell’astensionismo sono avvenute a seguito del governo Monti e del governo Draghi, ma certi sintomi non sono mancati, in passato, dopo i governi Ciampi e Dini. L’interruzione delle legislature “politiche” ad opera di governi tecnici guidati da personalità imposte dall’apparato di potere e celebrate dall’establishment come deus ex machina, ancorché non curare la malattia l’ha resa ancor più acuta, ingigantendone gli effetti collaterali. Costretti a una posizione ancillare e ininfluente i partiti “responsabili” ob torto collo vengono abbandonati dai loro elettori, molti dei quali recedono nell’astensione, mentre il front desk della politica viene occupato dalle formazioni oppositive non colluse e comunque capaci di intercettare la protesta. Il presunto “risanamento” del sistema sotto la tutela della garanzia presidenziale ha come esito necessario un grave indebolimento delle stesse istituzioni rappresentative.

TRE TIPI DI ASTENSIONISMO
L’ecologia dell’astensionismo si compendia nel sommarsi di tre tipi di non votanti; quelli che la disciplina individua come gli “astensionisti involontari” impossibilitati a recarsi alle urne (anziani non autosufficienti, emigrati, popolazioni “mobili” per lavoro, studio o altro ecc.), gli “astensionisti volontari” per “indifferenza” (persone afflitte da apatia e disinteresse per la politica con caratteri cronici) egli astensionisti volontari per “alienazione”, ovvero gli astensionisti per protesta. Figure entrambe, queste ultime, del forgotten man, il “senzatetto politico”.
Apparentemente i due tipi di astensionismo volontario appaiono agli antipodi. In un caso un individuo deprivato, un Io sfuggente, piccolo e intimidito, oppresso da un senso acuto di ininfluenza. Nell’altro caso un Io acrimonioso che si rinforza e si erge rivendicando la propria dignità in chiave punitiva e aggressiva, attraverso l’exit. Farsi stranieri, disertare, accomunarsi nella massa anonima dei renitenti alla leva, darsi alla macchia. Sovente, seguendo Hirschman, dietro la scelta astensionista c’è una loyalty tradita, e una voice inascoltata e frustrata nelle sue pretese. In realtà non sono così lontani. Condotte entrambe razionali, motivate da una acuta (e del tutto veritiera) sensazione di una promessa democratica tradita dallo strapotere dei centri economici, mediatici, tecnico-burocratici. Quasi coincidenti nel comune assunto di un sistema di partiti, e più generalmente di un’offerta di rappresentanza, che non incrocia gli interessi e le aspettati vedi cambiamento e protezione della parte più sfavorita della società. In entrambi i casi la denuncia, implicita o esplicita, di un grave deficit di “sovranità popolare” che dai partiti simulacro si estende alle istituzioni. Organi di rappresentanza dimidiati dal monocratismo, dall’accentramento e/o dalla delocalizzazione delle decisioni in sfere sottratte al controllo popolare.
La “dismisura” dell’astensionismo come patologia è dovuta alla simultanea lievitazione di tutte e tre le forme tipologiche. Ma mentre quelle in un certo senso fisiologiche (astensionismo involontario e da apatia) tendono a una crescita lineare per inerzia, l’astensionismo per protesta ha un carattere più violento e agisce via random, con impennate clamorose. I dati in proposito (vedasi Eurobarometro) indicano che questa fenomenologia supera ormai ampiamente il 40% del totale del non voto (e questo senza considerare l’altro fenomeno annesso, quello delle schede bianche e nulle). L’alienazione politica è uscita dalle nicchie ecologiche storiche (ad esempio il Sud del paese) e tende a essere un fenomeno pervasivo anche nelle immediate periferie contermini alle aree centrali. E non è certo un caso che esso sia esploso proprio al seguito del Coronavirus, con la crescita delle diseguaglianze che ne è derivata. Anche in tal caso in gioco, per via sanitaria, la promessa tradita di una solidarietà sociale e di comunanza nella sventura che si era momentaneamente palesata durante il lockdown. Una acuta domanda di protezione sociale inascoltata se non platealmente frustrata. Della quale la stessa insorgenza “negazionista” dominata dall’ossessione del controllo panottico può essere considerata come una perversa manifestazione. Una caduta fiduciaria letteralmente pandemica, come mai si era palesata in tutta l’epoca postbellica.
Nel lessico corrente si parla di un “partito dell’astensione”. In parte impropriamente, perché l’astensionismo è un flusso che è a stretto contatto con la massa dei votanti, con un ininterrotto interscambio di entrate/uscite. Cioè un aggregato situazionale i cui membri sono in continuo movimento. In parte a ragione perché è lo stock dell’astensione, nella sua incidenza asimmetrica sulle forze politiche, a determinare l’esito elettorale. L’astensione “conta”, eccome. Un estremo paradosso.
Le pratiche e le proposte per limitare l’astensionismo involontario– voto per corrispondenza, voto digitale, election day, voto per delega, voto anticipato presidiato ecc. (una parte delle quali recepite nel Libro bianco redatto sotto l’egida del ministro per i Rapporti con il Parlamento) – possono risultare di dubbia efficacia. Da un lato, per la loro complessità tecnica, rischiano di approfondire lo iato fra l’elettorato “alto” e quello “basso”. Dall’altro lato proprio nel loro proposito di rendere più “agevole” il voto, riducendone il costo e attenuando le barriere ostative, finiscono per renderlo più “leggero”. Con il rischio che corre ogni cosa così a buon mercato da risultare irrilevante e ancor meno desiderabile. Soprattutto si muovono nel senso di aggirare quell’unità di luogo e di tempo che conferisce un carattere “sacrale”, quasi processionale, al rito delle elezioni. Se è vero che l’elettore esercita il suo diritto in solitudine, nella privacy della cabina e nel segreto dell’urna, il cittadino che si reca al seggio è partecipe, nel senso canettiano, dell’esperienza vibrante, e talvolta anche snervante come nelle lunghe code, della cittadinanza democratica come “massa”. È il sentimento ineguagliabile di far parte della comunità nazionale deliberante. E qui si aprirebbe un discorso più generale e filosoficamente pregnante di tono weberiano.La de-sacralizzazione del voto che avrebbe dovuto sancire l’approdo a una democrazia matura, razionale, non più piagata dalle ideologie, individualizzata e senza falsa coscienza (l’individuo-cittadino deliberante, finalmente “sovrano”, come il consumatore) ne certifica in realtà la malattia come perdita dei suoi fondamenti di valore (in quel necessario “politeismo” individuato a suo tempo da Kelsen come sale della democrazia).

QUATTRO FASI
In una lettura di lungo periodo del trend delle elezioni politiche, al quale sono variamente correlate, ciascuna a suo modo, anche le consultazioni regionali, europee e comunali, nonché referendarie, si possono distinguere quattro fasi (si vedano Figura 1 e Figura 2).

 

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Una prima fase che si protrae dalla Costituente al 1976, momento culmine del bipartitismo in sede proporzionale, con una straordinaria avanzata del PCI. Il periodo aureo dei partiti democratici di massa nel quale si compie la trasformazione industriale-agraria del paese. In questa fase l’astensionismo è quasi irrilevante, poco al di sopra del 5%. Dato che si replica identico anche nelle due prime elezioni regionali. A funzionare non è solo l’ostracismo legale che configura il voto come dovere obbligatorio. Le elezioni sono il rito sacrale, e di massa, di partiti che sono anche Chiese e come tali hanno un rapporto ecumenico con gli elettori, identitario e integrazionistico, con le pratiche pedagogiche e di socializzazione, accompagnamento, patronato, la stessa clientela, a sua volta variamente connessa al moltiplicatore del voto multiplo di preferenza. Il rapporto con l’elettorato è di tipo vivo, sensibile, iper premuroso. Nessuna anima, nessun voto deve andare perduto. Le campagne elettorali sono feste che si prolungano per mesi con innumerevoli rappresentazioni orali, ma anche vere e proprie battaglie (campagne, appunto, dove le organizzazioni di partito si muovono come corpi militarizzati) condotte attraverso eserciti di militanti specializzati. Vere e proprie epopee, ben vive nel ricordo di chi le ha vissute come scrutatore, rappresentante di lista, nonché propagandista.
Una seconda fase che si protrae dal 1979 al 1992, ultima elezione in regime proporzionale, nella quale si assiste a una crescita tendenziale del tasso di astensione (sino a toccare quasi il 13%). Fenomeno che si replica, con lieve accentuazione, anche nelle elezioni regionali e nelle prime europee (dove l’astensionismo tocca, nel 1989, la cifra del 18%). La crescita dell’astensionismo registra in questo periodo la stabilizzazione terminale dei governi pentapartito che sfruttano la rendita centrista, una perdita di mordente dei partiti costituenti, l’affacciarsi di prime liste particolaristiche, di protesta e di taglio postmaterialista. Nonostante tali fenomeni (astensionismo e frammentazione dell’offerta di rappresentanza) siano di entità ancora solo sintomatica, la “crisi di rappresentanza” è argomentata con grande enfasi dalla politologia e dai commentatori e ampiamente tematizzata soprattutto nella sinistra. Partiti anchilosati, ormai deprivati del fuoco “costituente” delle origini, arretrati rispetto ai fermenti di una società vieppiù dinamica ormai all’imbocco della postmodernità, coi suoi nuovi bisogni post materiali, un sistema elettorale, quello proporzionale, tendente all’inamovibilità dei rapporti di forza, salvo equilibri consociativi di basso livello, una ‘questione morale’ vieppiù dilagante tendente a fare dei partiti centri di malaffare. Enrico Berlinguer, con la sua celebre intervista sulla questione morale, cercò di puntualizzare la critica verso i partiti di governo e un sistema di governance sempre più autoreferente, rivendicando la “diversità comunista” come argine alla deriva del PSI craxiano e alla sclerosi della DC. Tuttavia la politologia corrente era piuttosto orientata a mettere in risalto come il malaffare fosse anche il risultato della sclerosi burocratica e culturale del PCI e della sua incapacità di procedere a un mutamento radicale dell’identità che lo abilitasse al governo. Un PCI, peraltro, ritornato all’opposizione dopo la fallimentare stagione del compromesso storico. Fu l’epoca della critica del partito egemonico, una vera e propria reazione anti-gramsciana, e del peana a una società civile, in sé etica e socialmente dinamica, votata a una partecipazione “vera” in quanto mondata dall’ideologia e da ogni forma di fideismo. La politica come auto-valorizzazione spontanea degli individui e dei gruppi.
Una terza fase che copre il periodo dal 1994 al 2008 e che coincide con il ciclo legato all’introduzione del sistema maggioritario, meglio noto come Seconda Repubblica. In questo periodo cambia radicalmente la platea dei partiti: sorgono e si affermano forze nuove, come Forza Italia e Lega, e si rinominano vecchie forze residue costituenti e non, come il PDS e Rifondazione, i vari partiti “popolari”, AN. L’astensionismo cresce di pari passo, seppure allo stesso ritmo dello step precedente, sino a toccare il 22% nel 2008. Il turning point che razionalizzale conseguenze dell’89, ma anche i fermenti critici degli anni Ottanta, sono i referendum del 1991 (preferenza unica) e del 1993(ben otto quesiti, fra cui quelli riguardanti l’abolizione dei ministeri di Agricoltura, Turismo e Partecipazioni statali, il modo di elezione del Senato e l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti), coni quali, in sintonia con la rivoluzione delle toghe, si apriva la stagione non solo della Seconda Repubblica, ma anche del neoliberismo. Un aspetto, quest’ultimo che allora apparve chiaro solo a pochi se nona nessuno, ma nondimeno destinato a esiti travolgenti. Nella Prima Repubblica il tasso di partecipazione ai referendum è sempre stato assai sostenuto. A parte il caso del referendum sulla caccia (1990). I temi erano di grande rilevanza civile e sociale (divorzio, aborto, nucleare, scala mobile, ordine pubblico) e rilevanti nel segnare le fratture nell’opinione pubblica. I partiti erano parte in causa e anche quando la promozione dei referendum avveniva al di fuori di essi, essi usavano prendere posizione in modo molto chiaro. Essendo ancora espressione di “visioni del mondo” i partiti declinavano i diversi temi alla luce della Weltanschauung che li ispirava, adattandola. Perciò i referendum erano occasione di mobilitazioni dispiegate, in un confronto ideologico con caratteri netti. Dopo di allora tutti i referendum sono andati falliti, salvo le eccezioni notevoli del 2006e del 2016 (referendum istituzionali) e del 2011 (acqua, nucleare, beni comuni). Un singolare effetto controintuitivo. Se i partiti scompaiono dalla scena, salvo rientrarvi con strumentali intromissioni o lasciare liberi gli elettori di opzionare ciò che vogliono, rinunciando a prendere posizione, agli elettori sembra non interessi nulla di dover fare in proprio. Delegano, ma non si sa a chi e a che cosa. La partecipazione diretta, extra-partitica, si rivela cioè una chimera fallimentare (si veda Figura 3).

 

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Malgrado i proporzionalisti usino additare il maggioritario (con il personalismo inerente al collegio uninominale, le liste bloccate, le alleanze forzose e nel caso della svolta monocratica comunale con il depotenziamento delle assemblee elettive ecc.) come causa di una ben più profonda crisi della rappresenti di rimobilitazione come nel caso del 2006. Semmai ciò che è avvenuto è stato, paradossalmente, un aumento dell’efficacia marginale dell’astensionismo. Contravvenendo i teoremi del mercato politico di Anthony Downs (con la golden share attribuita agli spostamenti dell’elettorato opinionistico moderato) il bipolarismo ha piuttosto enfatizzato la necessità di coinvolgere, attraverso la mobilitazione, l’elettorato marginale, anche nelle sue espressioni radicali. Lezione che la destra, assai più del centrosinistra guidato dal PD, ha saputo far propria con grande spregiudicatezza. Nei fatti ogni volta il risultato delle elezioni è stato condizionato dal carattere asimmetrico assunto dall’astensionismo. La golden share pratica (seppure in termini negativi e apparentemente involontari) è transitata cioè dall’elettore di centro all’elettorato disaffezionato in soprannumero di uno dei due blocchi. Essendo peraltro quasi nulla, dato l’irrigidimento degli schieramenti, la mobilità elettorale fra gli stessi.
Anche nel caso dei Comuni e delle Regioni la riforma monocratica e il doppio turno hanno rafforzato, per un certo periodo, la presa del bipolarismo, innestando la personalizzazione della premiership su strutturate coalizioni di partito. Cioè tenendo in forma, anche per rapporto al quadro nazionale, la politica locale. Lo stesso collegio uninominale, al di là di fenomeni deteriori come i “paracadutati”, ha favorito il radicamento territoriale della classe politica. In sintesi, la fase bipolare ha piuttosto “qualificato” la dinamica astensionista e tenuto in forma un sistema politico probabilmente destinato a una più radicale involuzione.
Involuzione che è invece dilagata nella quarta e ultima fase: dal 2013al 2022. Alle politiche un balzo nel decennio di 15 punti, con la cifra record del 36% nella più recente consultazione. Alle europee vota ormai stabilmente un italiano su due, mentre è impressionante la volatilità del voto locale. Con singolari fenomeni: in Emilia, culla della partecipazione, futili indagini giudiziarie hanno prodotto nel 2014un collasso fiduciario spettacolare, mentre in Lazio e Lombardia ben più gravi coinvolgimenti non hanno impedito nel 2013 un re-incremento occasionale della partecipazione. Le regionali sembrano anticipare o posticipare in modo enfatico il trend del voto politico nazionale. Elezioni che paiono “non stare in piedi” da sole. Dove l’esito appare scontato, come nei recentissimi casi di Lazio e Lombardia, è emerso un nuovo tipo di astensionismo: l’astensionismo da “disinteresse”, qualcosa di diverso dall’apatia. Piuttosto un giudizio di irrilevanza generalizzato circa la posta in gioco. Un fenomeno che si replica nelle elezioni comunali, dove l’offerta politica è letteralmente infestata da elementi localistici a carattere civico e personalistico. Una vera e propria devianza particolaristica variamente connessa alla deflazione del voto. Con buona pace, anche e soprattutto nelle Regioni rosse, degli accumuli di capitale sociale e degli effetti di lunga durata delle tradizioni civiche a suo tempo argomentati da Putname Nanetti. L’autogoverno, proprio perché tale non è, non sembra più interessare le popolazioni locali salvo una minoranza che si affanna a plebiscitare con percentuali astronomiche questo o quel personaggio osannato come un astro nascente e un fantastico iperdecisore. Una celebrazione parossistica (se non parodistica, come nel caso degli autonominatisi “governatori”) del fattore personale che si afferma nel vuoto politico più totale. Una affezione pseudo-carismatica con caratteri letteralmente patologici (si veda Figura 4).

 

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Alto astensionismo, enorme mobilità, travalicamento delle frontiere di schieramento, volatilità estrema. Tutto questo coincide con la fine del bipolarismo e la decomposizione dei blocchi politici. Ben lungi dal ripristinare le antiche appartenenze la fine del bipolarismo “forzoso” si presenta come una maionese impazzita dove è l’astensionismo a fungere da ingrediente base.

COSA SUCCEDE A SINISTRA
Dato il contesto generale c’è comunque una certa differenza nei diversi campi politici. Dopo il collasso del PDL berlusconiano e gli eccezionali sbarellamenti del 2013 e del 2018 (in seguito all’emergere di una forza protestataria acchiappatutto come il Movimento 5Stelle), la destra ha trovato una nuova modalità di esercizio: l’appartenenza mobile, ovvero la fissità mutevole. Si conferma l’indirizzo di valore (cioè una sorta di liberismo securitario a inclinazione sovranista) ma cambiando di volta in volta l’interprete guida dell’alleanza con spettacolari e repentini trasferimenti di voto, da Forza Italia alla Lega e da questa a Fratelli d’Italia.
Il Movimento 5 Stelle è fra tutte le formazioni quella che ha un rapporto più stretto e vitale con l’astensionismo e l’elettorato socialmente marginale in genere. I dati di flusso fra una elezione politica e l’altra come fra diverse consultazioni (dalle politiche alle locali) confermano un interscambio vigoroso e bidirezionale con l’astensionismo. Di carattere attrattivo nelle politiche e remissivo nelle locali, alle quali questo tipo di elettorato, dopo le occasionali performance di Roma e Torino, Parma e Livorno, non sembra interessato. Anche ecologicamente il voto 5 Stelle è correlato con gli ambienti più permeati dalla disaffezione: il Sud e le periferie urbane, le aree di povertà, ma anche del ceto medio precarizzato. Il nuovo corso sotto la leadership di Conte ha rafforzato la relazione, personalizzandola in modo nuovo. A funzionare in questa contiguità non sono solo i temi sociali divenuti vieppiù rilevanti nell’agenda dei 5 Stelle secondo uno stile che non fu estraneo al defunto PCI. A questo ha senz’altro contribuito anche il violento ostracismo di cui Conte è stato fatto oggetto da parte dei media mainstream e dei poteri costituiti: un diverso, un personaggio anomalo, non ufficiale, venuto dal nulla, un importuno da escludere, malgrado i suoi toni pacati e signorili. L’emergere di un fattore C (Conte) per opera di un establishment come “spaventato” da una rivoluzione per molti versi analogo a quello che fu il fattore K ad uso dell’emarginazione del PCI. Se Grillo è stato il megafono istrionico e iper-rappresentativo del forgotten man politico, con Conte è scattata una vera e propria identificazione (che nel Sud assume un tono identitario ancor più generale, e non solo perché egli viene da Vulturara Appula). L’avocat du peuple escluso fra gli esclusi. Il cane bastonato con il quale ci si identifica e simpatizza. Del resto la “spirale del silenzio”, quella situazione tematizzata da Noelle-Neumann per la quale la gente comune si adatta per timidezza ai diktat propagandati dai media dominanti, funziona ormaia rovescio. Se ne è avuta di recente più di una manifestazione, come nel referendum istituzionale del 2016. Con tutti i media schierati da una parte la gente si è riversata in massa con la parte data per illegittima e perdente. In conseguenza della generale crisi fiduciaria la gente revoca in dubbio qualsivoglia pretesa di oggettività e di verità propalata da parte dei reggenti ufficiali della competenza. Chi si fa abbindolare dai media non sono più le persone ai margini, ma piuttosto quei ceti “presunti riflessivi” che vivono più a contatto del suo chiacchiericcio senza fine.
Il PD invece ha ceduto masse di voto sia ai 5 Stelle che all’astensione. Sei milioni di voti, dal 2008, dispersi altrove. Potranno tornare a casa col nuovo corso schleineiano? In politica il “riaccasamento” dopo le grandi diaspore è arduo se non impossibile come i casi di resurrezione. L’elettorato non è un singolo individuo, ma un aggregato mobile intessuto da un infinito numero di storie e memorie che perònon ha, come tale, memoria di sé. Come si ripete spesso con l’abuso della metafora baumaniana della “società liquida”, le classi, con i loro repertori simbolici e le trame dell’inconscio collettivo, si sono disperse. E questo vale soprattutto per quelle subalterne giacché quella alto-borghese un filo conduttore lo ha sempre: il patrimonio. Nella cui preservazione si risolve la trasmissione ereditaria dei valori. Non c’è dubbio, tuttavia, che il fenomeno dell’astensionismo “di sinistra” ha una sua specificità, ovvero una precipua connotazione esistenziale. C’è al fondo una sindrome da lealtà tradita, una disillusione a carattere fideistico che ha a probabilmente a che vedere, in una lettura psicologico-politica di lungo periodo, con la rilevanza che aveva l’elettorato di appartenenza, ovvero subculturale, del defunto PCI. Un modo peculiare del disincanto e della perdita di fiducia, cioè del processo di individualizzazione e di scardinamento dei rapporti collettivi ascritti. Un emblema di questo fenomeno è la crescente divaricazione (ripetutamente verificata da uno degli scriventi nelle sue trascorse attività demoscopiche) fra l’autopercezione di sé (ovvero l’autocollocazione politica sul continuum sinistra-destra) e le scelte di voto/non voto. Moltissime persone continuano a definirsi di sinistra potendo votare all’occorrenza per i 5 Stelle, la Lega e anche altra formazione destrorsa. O astenersi. In un singolare binomio che vede da un lato una radicata “intimizzazione” e interiorizzazione dell’identità (come cristiani senza Chiesa né denominazione) e dall’altro lato uno smagato atteggiamento strumentale e occasionalistico nella scelta di voto. Un’altra emblematica dimostrazione a supporto è il caso degli iscritti alla CGIL, fra i quali solo una ristretta minoranza vota per il PD, senza che questo comporti alcuna de-identificazione con il proprio sindacato. Si potrebbe parlare di un processo di secolarizzazione con una origine traumatica. Una volta rotto il rapporto fiduciario (pure in qualche misura procrastinato nei derivati del PCI e nel PD originario) difficilmente si rientra nel seminato. Se entrare nel “bosco” è facile, difficile è trovare una via di uscita. Piuttosto ci si adatta a viverci dentro, come esuli, migranti e apolidi. Ed è per questo che ogni tentativo di ripescaggio (come quello tentato da LEU) non ha avuto fortuna. Permane un senso di estraneità, di appartamento, disancoramento e nomadismo. A pensarci bene, il lascito fenomenologico terminale e inerziale più profondo del PCI nella storia del paese. Più probabile l’adesione a una novità totalmente disancorata dal passato, una totale ri-sublimazione, come già avvenne con la riconversione nei sogni in celluloide di FI dei naufraghi della DC e del PSI, ma come è avvenuto anche con i 5 Stelle e prima di essi con le alterne fortune della Lega nel luogo di radicamento della subcultura bianca. È l’arduo problema che sta innanzi al PD, dopo la grande debacle.