L’utopia sostenibile

Written by Anna Colombo Tuesday, 23 May 2023 11:09 Print
L’utopia sostenibile ©iStockphoto/francescoch

 

« L’Utopia sostenibile » è il titolo di uno dei libri più recenti del professor Enrico Giovannini. Nel testo vengono illustrate le ricadute necessarie per conformarsi all’Agenda 2030 delle Nazioni Unite.

Interessante notare che accanto agli ovvi obiettivi ecologici, e a quelli - chissà meno scontati - di sostenibilità sociale (lotta alla fame, alla poverta, alle diseguaglianze, sanita ed educazione universali..) l’Agenda fa riferimento a precisi goals di cooperazione internazionale e a istituzioni forti, democratiche ed autonome affinché non solo essa si concretizzi, ma abbia dei riferimenti resilienti e duraturi nel dialogo, nella diplomazia, nella partecipazione, nella democrazia e lo stato di diritto. Dopo qualche esitazione iniziale, la UE si è data - almeno sulla carta - l’ambizione di essere « il » continente dello Sviluppo Sostenibile, facendo dell’Agenda 2030 il riferimento per la sua trasformazione.

A più di un anno dall’inizio della guerra in Ucraina pochi credono che il conflitto abbia una mera valenza regionale. La guerra sta cambiando rapidamente gli equilibri del mondo, e forse i popoli europei cominciano a capire a proprie spese che l’Occidente (nella sua confusa accezione) non è più al centro dello stesso. Si tratta di quei popoli europei che ogni 9 maggio celebrano la nascita di una Comunità europea che aveva come sua prima vocazione la Pace, e che rivendica (dimenticando peraltro sistematicamente la ex Iugoslavia) decenni di assenza di conflitti sul suo territorio, salutando cooperazione, democrazia, diplomazia, solidarietà e stato di diritto come valori fondanti del suo nuovo ordine.

Purtroppo sembra che la UE abbia smesso di portare la Pace come valore, come se la diplomazia e la ricerca del negoziato siano equivalenti a debolezza, a rinuncia, e non alla forza di Istituzioni autorevoli e credibili.

Il SIPRI (Istituto Internazionale Ricerca per la Pace, con sede a Stoccolma) pubblica ogni anno un rapporto sulla vendita e il commercio di armamenti nel mondo. La cifra di affari dei colossi degli armamenti non ha cessato di aumentare, in modo drammatico e significativo, negli ultimi anni. Già nel 2021, secondo anno di pandemia Covid, nonostante la drammatica recessione economica la spesa militare mondiale aveva superato per la prima volta i 2000 miliardi di dollari, e continua a crescere. Le azioni delle industrie del settore sono fra le più rentabili al mondo. Nel 2020, il SIPRI faceva notare come un tale aumento andasse di pari passo all’indebolimento del ruolo delle diplomazie per la soluzione dei conflitti, quasi come se tante armi, superata la favola della deterrenza, non vedessero l’ora di essere usate, per produrne sempre di più. Oltre a questa drammatica considerazione, le risorse spese nel riarmo sottraggono somme ingenti alla trasformazione ecologica e sociale (lotta urgentissima alle diseguaglianze, senza la quale lo sviluppo sostenibile è un’illusione) allontanando il pianeta dagli obiettivi 2030/2050 e condannando intere popolazioni alla siccità, alla fame e a migrazioni forzate e inarrestabili.

Poiche la sviluppo sostenibile è cosi intrinsecamente legato alla Pace, se la nostra Europa nasce proprio per preservarla, se al tempo stesso sembra proprio candidarsi a essere un continente « guida » verso l’Agenda 2030 che presuppone un rinnovato multilateralismo inclusivo, perché l’Unione europea non ha agito e non agisce per essere l’attore politico capace di costruire un cessate il fuoco e iniziare seri negoziati per porre fine al conflitto in Ucraina ?

In molti, all’inizio della guerra, ci avevano sperato. L’UE, unita sulle sanzioni contro la Russia, ne avrebbe pero sofferto in primis le ricadute economiche ; la crisi energetica e l’aumento dell’inflazione (già determinato dal rilancio post pandemico) erano lí a ricordarci che il teatro della guerra è proprio sul nostro territorio, e che sul nostro territorio si consumava un conflitto per procura, fra Russia e Stati Uniti, con lo sguardo rivolto alla Cina. Urgente agire, no ?

Purtroppo i mesi successivi hanno mostrato ben altro scenario. Hanno reso palese un’Europa profondamente divisa sul suo significato geopolitico (nel senso neutro del termine), sul suo ruolo all’interno dell’Alleanza Atlantica, sull’idea stessa di Politica estera comune ed inclusive, e di sicurezza continentale. Lo stesso Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza, Josep Borrell, ha dichiarato all’inizio del conflitto che la Russia andava sconfitta sul campo di battaglia, incurante peraltro delle conseguenze di una guerra che coinvolge potenze nucleari.

Non stupisce che i più autorevoli accademici, esperti e commentatori favorevoli ad una urgente soluzione diplomatica, pur con sfumature diverse quanto alle responsabilità degli attori in campo, chiedano ormai tutti un intervento da parte delle emergenti potenze del « sud del mondo », non coinvolte nel conflitto - se non attraverso le drammatiche conseguenze economiche che hanno ricadute sul benessere delle loro popolazioni – affinché si adoperino a favore della Pace.

L’UE è coinvolta, e paralizzata da veti incrociati; e le iniziali speranze di vedere quantomeno paesi come la Germania, la Francia e (in misura minore visto anche il cambio di governo) l’Italia adoperarsi per una soluzione diplomatica sono scemate rapidamente. L’Europa dell’est a trazione polacca e baltica spinge per un’accresciuto ruolo dell’Europa come mero pilatro europeo della NATO, oltre che per l’annientamento della Russia. I paesi scandinavi a guida socialista entrano nella NATO dopo decenni di neutralità (e cedono il governo ai conservatori e alla destra estrema). La coalizione di governo in Germania sta litigando addirittura sull’atteggiamento da tenere nei confronti della Cina, con i verdi sempre meno ecologisti, per nulla pacifisti e in preda a una pericolosa escalation di supposta superiorità morale nei confronti del globo. Macron, aspramente criticato ed attaccato per aver detto coraggiose ovvietà (si consenta l’ossimoro) durante la sua visita a Pechino, anche questa in ordine sparso, è pero molto indebolito a casa propria visto il braccio di ferro sociale sulla riforma delle pensioni (Gilets Jaunes atto secondo, a riprova che non ci sarà sviluppo sostenibile senza equità sociale). Persino sull’accoglienza dei rifugiati la Polonia inizia a fare marcia indietro, e l’ultimo triste atto in ordine di tempo è l’ognuno fa da sé sui depositi di grano in provenienza dall’Ucraina.

La verità è che nonostante il soprassalto, esistenziale e dovuto alla pandemia, che ha permesso all’Unione Europea di far quasi dimenticare la disastrosa gestione della crisi del 2008, e tracciare un coraggioso percorso di cooperazione comune dentro il nuovo millennio (infatti, anche se non lo si ricorda quasi mai, i piani di ripresa debbono essere soprattutto votati alla resilienza, alla preparazione cioé di fronte alle molteplici e sistemiche crisi), l’Europa Politica è lontana, lontanissima, e lo era anche nel febbraio 2022.

L’Europa Politica ha subito una drammatica battuta di arresto dopo la caduta del muro di Berlino, ma soprattutto nella preparazione al grande allargamento del 2004 (da 15 paesi a 25, poi 27, impresa senza precedenti). Allargamento doveroso, auspicato, un appuntamento con la Storia certamente da non mancare, ma che avrebbe dovuto/potuto essere concepito su altre basi e con altre tempistiche.

Chi c’era, ricorderà il dibattito su « allargamento o approfondimento » allora appannaggio di pochi addetti ai lavori, ma che ribobinato ora assume significati fondamentali (le fondamenta stesse cioe di quella che si chiamava giustamente allora « Comunità Europea »).

Con buona pace dei lodevoli propositi di chi si è convinto che « al tempo stesso » si potessero realizzare approfondimento e allargamento, sono state fatte scelte figlie dei tempi. C’è chi ha cercato di andare in direzione ostinata e contraria, soprattutto fra i socialisti europei, chiedendo che fosse prima consolidato un modello più consono; ma la verità è che i socialisti europei in quegli anni non sono stati abbastanza ambiziosi. Alla fine degli anni ’90 si era al governo (da soli o in coalizione) in 13 paesi sui 15. Clinton era alla Casa Bianca e, forse, si sarebbe anche potuto discutere di un ruolo autonomo dell’Europa nella dottrina post ’92.

Ai paesi dell’ex blocco sovietico si sarebbe insomma dovuto prospettare di appartenere ad una comunita di valori, prima ancora che regole (cioé l’acquis communautaire in senso stretto, direttive e regolamenti tecnici propedeutici all’ingresso in un grande mercato).

Certo la Storia non si fa con i « se » e con i « ma », pero per costruire un’utopia sostenibile, unica possibile per il nostro futuro comune, occorre almeno non ripetersi.

Le scelte figlie dei tempi le dettó in buona parte la Commissione guidata da Jose Manuel Durao Barroso, l’ospite del Vertice delle Azzorre che ha portato parte dell’Europa al fianco di GW Bush in Iraq, alla ricerca di armi di distruzione di massa non pervenute. Convinto sostenitore dell’ordo liberismo e di una globalizzazione poco regolata a effetto cascata, poco convinto di un ruolo autonomo e propositivo della Commissione nei confronti del Consiglio, ha inaugurato il decennio “buio” della politica sociale europea (col corollario a tratti ingiusto dell’idraulico polacco), per un continente « di servizi avanzati » senza una visione strategica di politica industriale (anzi, senza politiche anti delocalizzazioni e con regole di concorrenza tutte interne volte a scoraggiare qualsiasi tentativo di « campione europeo », in qualsiasi campo) e manco a dirlo con una accanita competizione fiscale. Il 2008 ha fatto il resto, ma i segni di un modello globale insostenibile e di un capitalismo malato c’erano già tutti. A questa crisi, come del resto a quella pandemica (che per fortuna ha suonato la sveglia), l’UE si è presentata senza nessuna idea di autonomia strategica interna, senza un destino di investimenti comuni per il futuro, insomma senza rete.

Ma l’Europa del post 2004 era anche quella che, dopo l’annunciata debacle della Costituzione, preparava il trattato di Lisbona, con annessa istituzione di un Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune. Inutile dire che questa figura (fatta eccezione per coraggio dimostrato da Mogherini con il trattato sul nucleare iraniano PACG) non ha svolto alcun ruolo e non ha delineato i principi di una politica estera inclusiva, condivisa e autonoma per l’UE. Ancora una volta, nessuna autonomia strategica, qui esterna. Che avrebbe avuto tutti gli argomenti, il peso e gli strumenti per esistere, pur nel rispetto dell’appartenenza alla NATO della maggioranza dei paesi europei.

Una vera política estera comune (che deve comprendere anche uno sforzo verso una difesa comune europea), deve avere obiettivi di lungo termine definiti, sulla base di chiari principi: innanzitutto la coerenza (promuovere uno sviluppo sostenibile anche socialmente, stato di diritto, una politica migratoria più umana e aperta e politiche di aiuti allo sviluppo che portino a veri parntenariati). Poi una governance esemplare, cioé il guidare attraverso l’esempio: se siamo una comunità di valori, tali valori debbono valere ovunque, dentro e fuori i nostri confini. E ancora, spendiamo meglio, non di più, per la difesa comune ; coordiniamo le capacità, sia convenzionali che non (cyber sicurezza, crimini finanziari, intelligence). Infine, ottimizziamo le nostre capacità europee evitando i “silos” come ci detta l’Agenda 2030: commercio, aiuti umanitari, sviluppo debbono essere in armonía con gli obiettivi di política estera, e viceversa.

Il tutto nel quadro di un chiaro e prioritario impegno per un multilateralismo che riconosca tutti gli attori in campo e rafforzi le istituzioni comuni a partire dall’ONU, dove un seggio unico al Consiglio di sicurezza, visto che siamo in tema di utopia, avrebbe suggellato la serietà del ruolo europeo e della sua proposta per un « nuovo ordine globale «  più giusto. Con una diplomazia forte, autorevole, competente e capace di trovare, seppur faticosamente (non è mai stato facile, la Storia insegna), la soluzione ai grandi conflitti.

Una Unione europea fedele alla sua Storia e al mandato dei suoi popoli avrebbe dovuto e dovrebbe attivamente lavorare per la Pace, da perseguire con veemenza, anche nella ricerca di accordi sempre più ambiziosi, ovunque, sul controllo delle armi, la loro produzione e diffusione, in vista del disarmo globale, nucleare in primis.

Che dire ?

Ora, sappiamo fin troppo bene, alla luce degli avvenimenti recenti e alla « guerra mondiale a pezzi »citata da Bergoglio, che indietro non si torna. Pero dal passato e da quello che non è stato si puo imparare. Questa Europa divisa sta già nuovamente parlando di allargamento e di « appuntamento con la Storia ». Attenzione e non seppellire definitivamente il continente dello sviluppo sostenibile, dello Stato di diritto, di una sicurezza autonoma e inclusiva, di un’auspicata nuova Helsinki, e dell’impegno che dobbiamo alle generazioni future, con un salto in avanti nel buio.

Le elezioni europee della primavera 2024, a coronamento di un dibattito molto profondo che deve iniziare fin d’ora, soprattutto nel campo del PSE (non necessariamente su Instagram) debbono essere e saranno anche una risposta a tutto questo. A volte i supini atlantismi nostrani nascondono un’idea di internazionalismo francamente ingenua. A volte nascondono un’idea per nulla internazionalista.

L’Europa dell’Utopia Sostenibile, intera autonoma completa e complessa, è l’unico obiettivo per il quale varrà la pena battersi. Altrimenti resteremmo « solo » il più grande mercato del mondo, ma con sempre meno argomenti per essere un mezzo, non un fine.