Islam e democrazia. Un approccio panikkariano

Written by Marco Emanuele Wednesday, 18 March 2020 12:27 Print

«Sono convinto (…) che il mondo si trovi dinanzi
a un dilemma di proporzioni planetarie: o avviene
un cambio radicale di “civiltà”, nel senso dell’humanum,
o una catastrofe di proporzioni cosmiche. Questo porta
a vedere nell’interculturalità un primo passo
verso una metanoia pregna di speranza».
Raimon Panikkar, La pienezza dell’uomo

 

Siamo arrivati, nel cambio di era, a una svolta decisiva nella storia dell’umanità e di ogni uomo. Il presente contributo, indirizzato a chi voglia davvero entrare dentro la storia, scavando nei fondamenti per cercare di costruire scenari possibili di convivenza, vuole iniziare un percorso di ricerca. Il fine è quello di elaborare un pensiero storico, una filosofia nel presente. Il “cambio radicale di civiltà”, evocato da Raimon Panikkar nella citazione iniziale, porta con sé un tale intreccio di elementi che solo un (ri)pensamento transdisciplinare può aiutarci a elaborare. Il tutto, nelle nostre intenzioni, non può che costituire opportunità per classi dirigenti, non solo in politica.

Non c’è spazio, in questo saggio, per approfondire in maniera adeguata un rapporto complesso come quello, evidenziato nel titolo, tra Islam e democrazia. Sia perché tante sono le forme possibili della democrazia sia perché l’Islam si “incarna” nei differenti contesti e si trasforma in ogni realtà, trasformandola. Quando parliamo di Islam, infatti, sottintendiamo trattarsi di un mondo in più mondi, attraversato dalle differenze (in termini teologici, di costruzione del rapporto tra religione e politica, di natura dello Stato, di relazioni geopolitiche) e da esasperati conflitti interstatuali e regionali che, più o meno recenti, non sembrano vedere orizzonti di soluzione. Mi sia permesso, fin dall’inizio, di ragionare brevemente sulla parola religione, prendendo a prestito alcune formidabili intuizioni di un grande pensatore del Novecento, Raimon Panikkar. Egli distingue senza separare la religiosità, il fatto religioso come dimensione umana fondamentale; la religiologia, lo studio della religione e delle religioni, la riflessione sul fatto della religiosità; il religionismo, da intendersi come il senso di appartenenza dell’uomo a un qualche gruppo; la necessità di riunirsi in associazioni, di sentirsi comunità.1 «Se la religione – dice Panikkar –, il religioso, non costituisce la dimensione più intima della realtà stessa, allora non è che una sovrastruttura aggiunta a ciò che è, ossia niente di più, tutto sommato, che un’istituzione messa lì per aiutarti nel caso migliore, per inquietarti o annoiarti nel caso peggiore».2

Tutte le religioni, nessuna esclusa, portano dentro i tre aspetti di una unica dimensione. È importante, allora, considerare la complessità del “dato religioso”, come di un qualcosa – al contempo – di intimo in ogni essere umano, di pubblico e di “collegamento” tra l’uomo, la terra e il cielo. Che lo si voglia o meno, la religione ha un ruolo storico ineliminabile. Renzo Guolo ci ricorda «le funzioni sociali che la stessa religione svolge».3 Una visione sociologica della religione, che non riguarda l’appiattimento della religione a puro fatto sociologico, vuole e deve guardare alle ricadute politiche della religione stessa. Fuori e dentro i testi sacri, cosa accade nelle nostre convivenze?

In termini di giudizio storico, più la religione della democrazia rappresenta un fatto universale. Eppure, se guardiamo agli ultimi decenni della nostra storia, in particolare tra la fine del Novecento e l’inizio del terzo millennio, tornò, nell’euforia collettiva seguita alla caduta del muro di Berlino e al collasso del totalitarismo sovietico, l’idea di “fine della storia”. Attraverso il suo ultimo interprete, Francis Fukuyama, si immaginò che la democrazia liberale, unita al capitalismo di mercato, avrebbe potuto essere “esportata” in giro per il mondo, pressoché a prescindere dai contesti, dalle loro complessità e dal loro essere differenti l’uno dall’altro. Si trattò di un approccio anzitutto culturale, di applicazione lineare di un’idea concettualizzata alla realtà per la creazione di una sorta di “storia universale” che avrebbe dovuto unificare società e culture. Si cercò di indirizzare il motore del processo storico verso il sistema liberaldemocratico e, particolarmente in Fukuyama,4 guardando alle tesi del progresso scientifico-tecnologico come progresso direzionale della storia e del riconoscimento (ben considerando che la democrazia non era, allora come oggi, “naturalmente” accettata ovunque e che persistevano, come persistono, regimi con economia capitalistica in un quadro non democratico).

Rispetto alla democrazia, tema troppo spesso trattato in termini laicamente dogmatici, Gwendoline Jarczyk, in dialogo con Mohamed Talbi, ne scrive come del «risultato di un apprendistato, attraverso le tappe di una progressiva democratizzazione».5 Ciò a significare, nella nostra logica, che la democrazia mai può dirsi “compiuta”. In particolare nel mondo arabo, sottolinea Talbi, «nella quasi totalità dei casi, non si tratta che della messinscena della democrazia: si recita la commedia democratica, con la scenografia adatta e il vocabolario ricalcato su quello dell’Occidente, compresa la suspence del conteggio dei voti».6 Egli pone la questione centrale di «una società civile che non riesce ad emergere e ad imporsi, posta com’è tra Scilla e Cariddi: dittatura o afghanizzazione».7

Il giudizio storico va elaborato in termini realistici. Il filosofo Roberto Esposito così scrive del realismo: «più che un’attitudine nei confronti del reale, è un processo di realizzazione mediante il quale l’uomo afferma la propria socialità».8 In tale visione il realismo, condizione fondamentale per un agire politico pertinente, porta dentro di sé una serie di parole chiave che non possono essere eluse: ordine, conf#mce_temp_url#litto, complessità, istituzione e istituzioni. Parole che, a ben guardare, ci dicono quanto il rapporto tra religione e politica, cuore del rapporto tra Islam e democrazia, non possa essere considerato dentro un approccio lineare e universale ma richieda una scelta in termini di pensiero complesso e di pensiero contestuale. Qui collochiamo questa nostra riflessione.

Sul punto del rapporto che stiamo analizzando è centrale una notazione di Renzo Guolo, laddove scrive che «l’Islam in Occidente si manifesta (…) come progetto transnazionale di ricomposizione della “comunità dei credenti” che prescinde dalla territorialità del politico. Storici avversari degli Stati nazione, gli islamisti fanno coincidere lo spazio della umma con il luogo in cui vi sia anche un solo musulmano». La umma, dunque, è in ogni musulmano.9 Così, potremmo dire, il “vincolo” dello Stato nazione, di una territorialità che limita lo spazio del globale, si pone al centro della (im)possibilità del rapporto tra Islam e democrazia.10

Per ragionare pragmaticamente, Guolo focalizza il tema del «silenzioso scambio politico avvenuto (…) tra migranti musulmani e società europee» e il ruolo, in termini di contrasto, delle moschee e delle associazioni neotradizionaliste.11 Non si accetta, in sostanza, ciò che è condiviso dalla maggioranza dei musulmani: l’inculturazione della fede prevede anche la “relatività” nell’approccio alla convivenza. Egli sottolinea, giustamente, che «la fruizione passiva dell’Islam è impedita dalla strutturazione dell’ambiente circostante: fuori dal suo tradizionale contesto culturale, dev’essere rivissuto e ripensato, diventare oggetto di riflessione».12 Tale passaggio problematizza l’elemento comunitario dell’Islam, facendo ricadere la scelta su ogni individuo: è un nodo risolto?13

Dal giudizio storico come interpretazione della storia, passando nel realismo come approccio necessario, il metodo è il dialogo. Ci può essere, nelle nostre democrazie così come oggi evolvono, la possibilità di avviare e consolidare “dialoghi dialogali”14 che comprendano la dimensione dialettica (le tensioni tra differenti), incarnati nel contesto complesso di ogni realtà, e che ci aiutino a costruire “spazio pubblico” e a condividerlo. Il tema del dialogo è d’importanza straordinaria e va declinato in termini profondi e globali, esistenziali, di reciproca fecondazione.15 «Se – scrive Raimon Panikkar – non scopro in me lo scettico, il non credente, il musulmano e tante altre realtà, sarò incapace di entrare in dialogo con gli altri. Non sarebbe allora un dialogo – dià ton logon –, poiché non si traverserebbe il logos da parte a parte, ma non si farebbe invece che discutere o, eventualmente, chiacchierare (…). Il dia-logos non è un esercizio di pura logica».16 Mohammed Haddad, richiamando Panikkar, ci invita «ad andare oltre la dicotomia verità/tradizione e a guardare alla fine di una fase dell’esperienza umana durata 6000 anni». Il tema, come si diceva all’inizio, appartiene da sempre alla storia dell’uomo e del pensiero; qui proponiamo di (ri)appropriarcene per costruire le strade di un futuro già presente. Nel campo dell’Islam, le spinte contrarie a ciò che qui chiamiamo “dialogo dialogale” sono certamente presenti e potenti, radicate. Vi è, dall’altra parte, un atteggiamento del cosiddetto Occidente ancora percorso da una mentalità (sostanzialmente) coloniale che non passa.

Giudizio storico, realismo e dialogo debbono calarsi nei fattori geopolitici che pesano sulla resilienza delle nostre democrazie. Dopo l’euforia da “fine della storia”, ciò che Valerio Castronovo definisce un “abbaglio”,17 e una serie di scelte politiche – degli Stati Uniti e di un Occidente rimasto senza nemico strategico dopo il crollo dell’Unione Sovietica – che la storia ha rivelato profondamente sbagliate, venne l’11 settembre, un momento (diremmo una “categoria storica”) nel quale tutto cambiò, a cominciare dalla natura del rischio e dalla metamorfosi di idea e pratica di sicurezza. Nota Valerio Castronovo che «fu così che in Occidente ci si trovò di fronte a un nuovo genere di emergenza, a cui nessun governo era assolutamente preparato».18

La conclusione di questo breve saggio riguarda il possibile futuro della democrazia in chiave “transculturale”, un luogo dove, per dirla con Panikkar, la verità si ricerchi “in solidale”.19 Senza negare ciò che siamo, e l’importanza del simbolico20 nella costruzione del reale, occorre guardare allo “spazio pubblico” come qualcosa che ci supera pur essendone parte, che riguarda l’oltre di noi e che ci istituisce in esso. Anche per contribuire a superare le spinte contrarie che vengono dall’interno dell’Islam alla condivisione di “territorialità globali” (le originalità non devono essere negate ma possono essere valorizzate solo nella loro apertura a una dimensione globale), dobbiamo superare il pensiero dicotomico (amico-nemico, civiltà-barbarie) ancora così diffuso nelle società di un mondo percorso dalla paura, dai conflitti irrisolti e dalle diseguaglianze.

La democrazia “transculturale”, percorsa dalle migrazioni, deve a sua volta migrare dall’eredità di ciò che è stata, necessariamente (ri)pensandosi. Perché un discorso su Islam e democrazia possa avere senso, non lasciandosi intrappolare nelle gabbie di una retorica falsata da verità imposte, occorre una “conoscenza cosciente” che vada oltre la superficialità dilagante.

I mondi dell’Islam vivono contraddizioni interne che interagiscono in un panorama planetario che deve (ri)trovare nuove vie, mediazioni, visioni, progettualità. Spetta a ciascuno di noi, qualunque sia la nostra casa, di non cadere nella trappola di una autoreferenziale “sufficienza storica”; abbiamo la responsabilità di immaginare insieme un mondo che si “istituisca” a partire dalla considerazione (non negazione) dei conflitti che nascono nelle differenze e di non omologarli in nome di una qualsivoglia, e presunta, verità ultima.

Dobbiamo, in chiave transculturale, uscire dalla «logica contraddittoria insita nella costruzione dello Stato nazione, il cui motore è la tensione tra i suoi due elementi costitutivi».21 Se non abbandoniamo progressivamente tale logica, percorrendo forme di organizzazione della convivenza umana (anche utilizzando le potenzialità delle nuove tecnologie) che superino la nazionalità escludente, troppo spesso praticata come nazionalismo, difficilmente riusciremo a dare una risposta al tema oggetto di questa riflessione. Perché la democrazia che conosciamo, all’apparenza immobile nel pieno di un mondo in metamorfosi, non dà realistiche risposte a chi chiede legittimo e sostanziale riconoscimento. Sentirsi parte di un contesto, ovunque si viva e al di là di dinamiche endogene di violenza e di scontro con l’Occidente presenti nei mondi dell’Islam, è parte fondamentale per avviare percorsi di istituzione nel dialogo.


[1] Come ben dice Panikkar, senza la religiosità come dimensione umana, il religionismo si riduce in qualcosa di superficiale. Senza la religiosità, la religiologia non ha radici e degenera immediatamente, trasformandosi in una sovrastruttura o in superstizione. Non possiamo confondere le religioni, com’è avvenuto in più di una occasione, con un puro fatto sociologico. Non esiste alcuna religione che, come fatto di religiosità, non si esprima in un certo modo e non supponga una certa comunità. Si vedano R. Panikkar, La pienezza dell’uomo. Una cristofania, Jaca Book, Milano 2003. Per le citazioni di Panikkar si veda www.raimon-panikkar.org.

[2] R. Panikkar, Tra Dio e il cosmo. Dialogo con Gwendoline Jarczyk, Laterza, Roma-Bari 2019, p. 3.

[3] Ancora, l’autore sottolinea il legame tra credere e agire – facendone, appunto, un sistema –, mettendo in evidenza la relazione tra rappresentazioni simboliche e ambiente sociale, storicamente determinato, nel quale vivono concretamente gli individui e la tensione, o lo scarto, tra mondo delle rappresentazioni e realtà sociale. Ignorare tale dimensione significa riprodurre un’idea immutabile, essenzialista, dell’Islam. Secondo cui tutti i musulmani dovrebbero avere un certo tipo di caratteristiche e comportarsi allo stesso modo “perché così dicono i testi”. Una rappresentazione letteralista che i mutamenti sociali che influiscono sulla religione, sul suo discorso e funzione, sulla sua organizzazione, e che investono l’agire dei credenti, mettono in discussione. Si veda R. Guolo, Sociologia dell’Islam. Religione e politica, Mondadori, Milano 2016.

[4] F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1992.

[5] M. Talbi, G. Jarczyk, Islam e libero pensiero. Laicità e democrazia nel mondo musulmano, UTET, Torino 2005, p. 313.

[6] M. Talbi, op. cit., p. 314. Sottolinea ancora l’autore (p. 316): «La resistenza alla democrazia si spiega propriamente a molteplici livelli e in molte direzioni, è sia endogena che esogena, interna alla storia specifica degli arabi, ma anche carica di influenze esterne, di situazioni che gli arabi dovettero subire dall’esterno delle loro frontiere e della loro cultura. Di fatto, la democrazia non ha potuto o non ha avuto il tempo necessario per proporsi come il risultato di un’evoluzione interna. E perché? Perché è essenzialmente un prodotto di importazione, soggetto a barriere doganali in entrata, e talvolta anche in uscita. La colonizzazione e le sue conseguenze, una colonizzazione che in certi casi cambia faccia prendendo forme nuove, ha svolto un ruolo non trascurabile, spesso sotterraneo e difficile da analizzare e da capire».

[7] M. Talbi, op. cit., p. 317.

[8] R. Esposito, Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica, Einaudi, Torino 2020, p. 194.

[9] R. Guolo, op. cit., p. 200.

[10] (Im)possibilità è a significare il necessario sguardo nel profondo della possibilità.

[11] R. Guolo, op. cit., p. 200. Inoltre l’Autore sottolinea la natura di uno scambio che aveva come oggetto l’accesso ai diritti universali di cittadinanza contro la riduzione dell’islam alla sfera privata. Al contrario, le leadership islamiste rivendicano, in questa fase, la piena visibilità dell’islam nella scena pubblica, rifiutando sia l’assimilazione sia l’occultamento fuori dallo spazio collettivo. Gli esponenti di tali leadership, veri e propri “imprenditori della visibilizzazione” dell’islam, agiscono per istituzionalizzare i luoghi di culto nel territorio, dare forma a uno spazio simbolico in cui i musulmani possano rinsaldare la propria identità religiosa, incoraggiare stili di vita diversi da quelli legati alla cultura autoctona. Cercano di creare a livello locale l’evidenza sociale perduta con l’abbandono del territorio d’origine.

[12] Ivi, p. 201.

[13] Guolo sostiene che il processo di individualizzazione, che segna la progressiva autonomia del singolo e l’autopercezione di sé come soggetto libero di scegliere, è uno degli aspetti più rilevanti dell’essere musulmano in Occidente. In un simile contesto il riferimento alla tradizione è declinato in termini di valori e non di norme, dal momento che l’Islam in Occidente non dispone di istituzioni capaci di dare effettività giuridica vincolante. Tutto è lasciato alla volontà del singolo, anche l’osservanza degli obblighi. Ibidem.

[14] Mohamed Haddad, Ibn ‘Arabi e Panikkar: un’altra via per l’umanità?, in AA.VV., I mistici nelle grandi tradizioni. Omaggio a Raimon Panikkar, Jaca Book, Milano 2009, p. 115, scrive che «da qualche tempo si parla (…) della “rivincita di Dio” (titolo di una fortunata opera di Gilles Kepel) e si domanda: siamo dunque condannati a vivere costantemente fra rivincite e contro-rivincite?».

[15] R. Panikkar, Tra Dio e il cosmo cit., pp. 121-22, scrive parole di straordinario interesse: «Quando mi impegno nel dialogo dialogale, non ho in primo luogo l’intenzione di convincerti, ma la motivazione profonda che mi spinge è di conoscermi meglio. Poiché l’immagine che tu mi rinvii è di importanza decisiva per la conoscenza che è necessario io abbia di me stesso. (….) È un dialogo che, allo stesso tempo, mi permette anche di conoscere te, poiché le cose sono legate; tutto ciò a un livello di maggiore profondità, che deve andare fino a uno scambio di convinzioni in cui può accadere – è il grande rischio – che sia tu a convertire me».

[16] Ivi, p. 132.

[17] V. Castronovo, Le ombre lunghe del ‘900. Perché la Storia non è finita, Mondadori, Milano 2010, p. 11.

[18] Ivi, p. 43.

[19] R. Panikkar, Tra Dio e il cosmo cit., p. 125.

[20] Symbolon, secondo Roberto Esposito (op. cit., p. XVIII), evoca un ordine non alternativo al conflitto, ma da esso prodotto e di esso produttivo, in una forma destinata continuamente a mutare in base ai rapporti di forza di volta in volta instaurati tra le parti confliggenti. Panikkar, scrive: «Noi abbiamo la tendenza a irrigidirci in concetti puri. Orbene, almeno nella sua dimensione formale il concetto non è che una specie di algoritmo che tratta di una realtà che lo scavalca. Abbiamo perso quella che io chiamo la coscienza simbolica a vantaggio della conoscenza concettuale». R. Panikkar, Tra Dio e il cosmo cit., p. 127.

[21] S. Forti, Le figure del male, in H. Arendt, Le Origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2009, p. XXIX, così descrive lo Stato come costruzione razional-legale e la nazione, nutrita invece dall’idea di una comunità sostanziale e omogenea quanto a ethos e ethnos. Se lo Stato è, almeno in via teorica, quella struttura volta a garantire i diritti di tutti, la nazione si regge invece sul presupposto di una comunità escludente.