I sistemi di welfare europei fra nuovi e vecchi rischi sociali

Written by Maria Cecilia Guerra Monday, 26 February 2024 12:05 Print
I sistemi di welfare europei fra nuovi e vecchi rischi sociali ©iStockphoto/saemilee


Storicamente i sistemi di welfare nascono e si sviluppano per soddisfare i bisogni fondamentali delle persone e contrastare i rischi sociali che ne mettono in discussione il benessere. I rischi a cui le persone sono esposte, così come la valutazione del loro benessere e in definitiva di cosa debba essere considerato il loro diritto di cittadinanza, non sono però immutabili, variano in funzione del contesto economico, sociale, culturale, politico e religioso in cui ci si trova. Per queste ragioni, pur a fronte di tendenze comuni, i sistemi di welfare state dei diversi paesi europei faticano a convergere verso un unico modello. Diverso è anche il modo con cui si stanno confrontando con i nuovi rischi sociali, in un quadro che le profonde trasformazioni in atto – digitale, ecologica e generazionale – rende ancora tutt’altro che assestato.

I TRENT’ANNI GLORIOSI E I “VECCHI” RISCHI SOCIALI
Il contesto economico del secondo dopoguerra, a partire dal quale i sistemi di welfare dei paesi europei hanno conosciuto la loro affermazione, era caratterizzato da un forte sviluppo industriale, con economie in crescita, alti livelli di occupazione maschile ed espansione salariale. Al tempo stesso le strutture familiari erano stabili e con una chiara divisione di ruoli all’interno della famiglia: gli uomini incaricati di provvedere al sostentamento economico del nucleo, le donne con la funzione di occuparsi del lavoro domestico e di cura. La finalità principale delle politiche di welfare era quindi quella di proteggere le famiglie dal rischio di perdita o riduzione della capacità di ottenere un reddito da parte del maschio breadwinner, sia che questa fosse dovuta a malattia o a invalidità, vecchiaia, perdita o mancanza di occupazione. Le donne, per una lunga fase, non erano considerate destinatarie dirette di interventi, se non in caso di mancanza del marito, come ad esempio per le pensioni ai superstiti. Anche del diritto alla salute godevano, assieme ai figli, per via mediata, in relazione alla partecipazione del marito al mercato del lavoro.
Sia pure con differenze anche sensibili fra paese e paese, nei “trenta anni gloriosi” dal dopoguerra in poi, alla crescita dell’economia si è accompagnata una crescita dell’intervento pubblico in campo economico e un incremento significativo della spesa pubblica e dei livelli di tassazione. I modelli europei di welfare si sono però sviluppati in modo differenziato, in ragione sia dei diversi contesti politici e culturali, caratterizzati da sensibilità molto diverse circa il ruolo da assegnare a fattori come l’uguaglianza e la solidarietà, sia del contesto istituzionale e sociale, in cui hanno rilievo le complesse relazioni fra i tre attori fondamentali: Stato, mercato e famiglie.
Le differenze di impostazione ed evoluzione di questi modelli sono state a più riprese codificate a partire dal contributo pionieristico di Esping- Andersen del 1990, portando all’identificazione, tradizionalmente accolta, di quattro diversi modelli: socialdemocratico (scandinavo), liberale (anglosassone), corporativo (bismarkiano) e mediterraneo. Modelli che si differenziano per il diverso peso assegnato a fattori quali: l’universalismo rispetto all’accesso a prestazioni e servizi soggetti a stringenti prove dei mezzi; soluzioni di mercato o assicurative piuttosto che pubbliche e redistributive; ruolo sussidiario, ma sarebbe meglio dire sostitutivo, affidato alle famiglie; tipo di finanziamento, con la fiscalità generale, tipicamente progressiva, o attraverso contribuzioni categoriali; frammentazione degli interventi, che spesso si accompagna a una insufficienza del loro finanziamento, o capacità invece di impostare programmi strutturati.

I NUOVI RISCHI SOCIALI
L’evoluzione dei contesti di riferimento, che ha caratterizzato il periodo successivo, a partire dalla crisi petrolifera della metà degli anni Settanta fino ai giorni nostri, ha contribuito a complicare il quadro, interferendo in misura significativa con le caratteristiche, qualitative e quantitative, delle politiche di welfare.
È a metà degli anni Settanta che si comincia a parlare di crisi del welfare state; una crisi di cui inizialmente si enfatizza l’aspetto della sostenibilità finanziaria (“non ce lo possiamo permettere”). È indubbio che la pressione competitiva imposta dalla sempre più estesa globalizzazione cui si accompagnano anche fenomeni significativi di delocalizzazione, l’esposizione dei paesi a fenomeni di concorrenza fiscale nel campo della tassazione dei redditi di capitale e delle imprese, il rallentamento della crescita economica, fino ad arrivare alla crisi del debito sovrano della fine del primo decennio degli anni Duemila e alle conseguenti politiche di austerità, impongono vincoli nuovi alla finanza pubblica. Ma questa problematica risulta ben presto strettamente intrecciata a numerosi altri fattori che svolgono un ruolo cruciale nel determinarne gli esiti. Molto schematicamente, i principali possono essere descritti come segue.
Sul piano politico, gioca un ruolo rilevante l’influenza della filosofia propria dei governi liberisti nel Regno Unito e negli Stati Uniti, fermamente determinati a ridurre il ruolo dell’intervento pubblico, agendo, in primo luogo, proprio sulla compressione della spesa sociale, alla cui espansione viene imputato l’aumento della pressione fiscale che si vuole invece contrastare. Ne è un aspetto emblematico la politica del taglio delle tasse, finalizzato ad “affamare la bestia” insaziabile del welfare che si mangia tutte le risorse dei cittadini, di reaganiana memoria.
Nel frattempo il welfare state fatica ad adattarsi ai profondi cambiamenti che caratterizzano, sul piano economico, la fase postindustriale: alla riduzione del peso dell’industria si affianca una forte espansione del settore dei servizi, nei quali l’organizzazione del lavoro assume caratteristiche molto diverse per quanto riguarda aspetti cruciali, come la richiesta di flessibilità cui si risponde con forme di lavoro precario, la diffusione di basse qualifiche e basse retribuzioni, che rendono insufficienti le tutele classiche, pensate per lavoratori standard, lavoratori cioè con retribuzioni adeguate, a tempo pieno e con carriere stabili. Crescono disuguaglianze e povertà. Povertà che ora muta pelle: non riguarda solo le persone più vulnerabili, marginali, della società, ma interessa anche persone giovani, famiglie con figli e persone che lavorano.
Una modifica molto significativa interviene poi nella relazione fra famiglia e mercato del lavoro, con l’aumento dell’offerta di lavoro femminile, motivato sia da ragioni economiche (un solo stipendio in famiglia, specie in presenza di figli, aumenta drasticamente l’incidenza della povertà), sia per ragioni legate alla volontà delle donne di uscire da una situazione di sudditanza e partecipare pienamente alla vita collettiva. Un fenomeno che altera profondamente l’equilibrio raggiunto nel preesistente regime fordista fra lavoro fuori casa e lavoro di cura, attraverso la loro divisione per genere. I legami familiari diventano più instabili, e le separazioni, specialmente in presenza di figli, si accompagnano sempre più spesso all’insorgere di situazioni di povertà. Aumentano i nuclei composti da persone sole, e quelli monoparentali, bisognosi di specifiche forme di sostegno.
Si aggiunge al quadro l’invecchiamento della popolazione, che non solo esercita una pressione molto forte per il mantenimento e il rafforzamento di politiche tradizionali, prevalentemente a favore delle pensioni, che può determinare conflitti intergenerazionali per la ripartizione delle risorse destinate al welfare. Ma si accompagna anche ad accresciuti bisogni sul fronte della non autosufficienza e della sanità. Bisogni a cui è possibile dare risposte di qualità crescente, in ragione della forte innovazione scientifica e tecnologica, che però richiedono di sostenere costi più alti se si vuole evitare l’allargarsi di una delle forme più odiose di disuguaglianza: quella nell’accesso alle cure. Fa aumentare l’indice di dipendenza, che indica il peso del “mantenimento” di soggetti inattivi da parte di quelli che sono attivi sul mercato del lavoro, aggravando i problemi di sostenibilità del finanziamento del welfare. Rende sempre meno sostenibile all’interno del solo ambito familiare il lavoro di cura in famiglie diventate progressivamente sempre più strette (cioè con un numero più limitato di adulti in grado di dare una mano) e più lunghe (cioè poste nella necessità di occuparsi di più generazioni: tipicamente famiglie in cui una sola donna si occupa dei genitori e/o suoceri non autosufficienti, dei figli e/o nipoti).
L’immigrazione e le politiche di integrazione che la accompagnano si aggiungono e si intersecano con queste diverse problematiche in vario modo: imponendo mutamenti in campi rilevanti del welfare, fra cui istruzione e politiche abitative; ampliando il novero di persone soggette a fragilità economica e creando tensioni in tutte le politiche fortemente orientate alla prova dei mezzi, in cui la competizione fra popolazione autoctona e immigrata diventa molto forte a fronte di accessi limitati.
Nel loro complesso, queste profonde trasformazioni determinano la nascita di rischi sociali “nuovi”, che richiedono innovazione e adattamento nei sistemi di welfare dei diversi paesi, molti dei quali non ancora compiutamente attrezzati per fare fronte neppure ai rischi sociali “vecchi”. La diffusione di lavoratori a basso salario, ad esempio, pone l’inedito problema di integrarne i redditi familiari. La risposta alla flessibilità/precarietà del lavoro può essere cercata nel rafforzamento degli ammortizzatori sociali, per favorire il transito da un lavoro all’altro, ma impone anche il rafforzamento delle politiche attive e di formazione continua. L’aumento dell’occupazione femminile richiede misure di conciliazione lavoro-famiglia, che non possono tradursi solo in un sostegno monetario che renda più agevole rivolgersi al mercato ma necessitano dell’ampliamento di servizi, come asili nido e tempo pieno nelle scuole, che liberino tempo per il care giver. Lo stesso avviene per quanto riguarda la necessità di assistenza alle persone non autosufficienti, resa più urgente dall’aumento della speranza di vita, e così via.
Un quadro destinato ulteriormente a complicarsi, a fronte dell’accelerazione delle transizioni, tecnologica ed ecologica, che impone trasformazioni profonde nel mercato del lavoro, con fenomeni di polarizzazione che, se non adeguatamente contrastati anche con investimenti in nuove competenze, potranno portare all’impoverimento di gruppi sempre più estesi di lavoratori, anche appartenenti al cosiddetto ceto medio.


LA RISPOSTA DEI PAESI EUROPEI
Come hanno sino ad ora risposto i sistemi di welfare dei paesi europei a questo mutato quadro? Il cammino seguito non è stato univoco, tanto che alla tradizionale classificazione di questi sistemi nei quattro modelli prima richiamati ne viene ormai spesso sostituita un’altra, solo parzialmente sovrapposta, che li distingue in ragione dell’equilibrio che hanno trovato, o quanto meno stanno cercando, visto che il processo è in continua evoluzione, fra copertura assicurata ai vecchi e ai nuovi rischi.
A un estremo stanno i paesi che hanno privilegiato il cosiddetto retrenchment e cioè la riduzione della protezione riconosciuta ai vecchi rischi, senza espandere le proprie politiche per fronteggiare i rischi nuovi. Uno scenario caratterizzato quindi da una riduzione generalizzata della risposta ai bisogni sociali e da un indebolimento complessivo dei diritti di cittadinanza, motivato da esigenze finanziarie ma sostenuto anche da un credo neoliberista, rafforzato dalla volontà di contrastare un presunto atteggiamento passivo/parassitario dei percettori di prestazioni e servizi. Questa riduzione ha conosciuto modalità e intensità diverse, nei paesi anglosassoni e in una parte dei paesi dell’Europa centro-orientale: dalla progressiva privatizzazione di aree tradizionali dell’intervento pubblico, prevalentemente sanità e pensioni, alla sottrazione di parte della copertura prima offerta, attraverso la sostituzione di strumenti di intervento considerati “assistenzialisti”, non in grado cioè di spingere alla responsabilizzazione gli individui, con strumenti che enfatizzano le condizionalità, e cioè che riconoscono un sostegno a fronte di comportamenti di attivazione, in un’ottica non di inclusione sociale ed empowerment, ma di controprestazione punitiva.
All’altro estremo si trovano invece i paesi che hanno mantenuto o rafforzato la protezione per i vecchi rischi, adottando anche politiche innovative di contrasto di quelli nuovi. Un percorso seguito, con particolare attenzione alle politiche di attivazione, di conciliazione e relative alla garanzia di un reddito minimo, nei paesi scandinavi negli anni Ottanta.
In mezzo si trovano, da un lato, i paesi che hanno privilegiato la resilienza, e cioè la conservazione della protezione dai vecchi rischi, senza muoversi, se non marginalmente, verso risposte ai nuovi, come i paesi del Sud Europa. Si tratta di paesi che però, negli anni dell’austerità, hanno fatto incursioni anche nel terreno del retrenchment, ad esempio aumentando la selettività dell’accesso alle prestazioni o riducendone l’ammontare. Dall’altro, paesi che hanno scelto la via di una “ricalibratura funzionale”, con trasferimento di risorse dai settori tradizionali a quelli dei nuovi rischi sociali, di cui un esempio è dato dai piani per la non autosufficienza (long term care) con cui si è cercato di meglio coordinare gli interventi di tipo sanitario e quelli di risposta ai bisogni della vita quotidiana (lavarsi, vestirsi, nutrirsi ecc.), molto spesso conseguendo anche una riduzione della spesa complessiva. Questi movimenti si sono avuti soprattutto nei paesi del modello corporativo, almeno fino all’inizio della crisi finanziaria del 2008.
Questa classificazione, come ogni altra, aiuta a individuare delle linee di tendenza, ma non è da sola in grado di dare conto della varietà delle trasformazioni in atto. È importante anche ricordare il dibattito che attorno ad esse si è sviluppato, e in particolare quello relativo all’approccio definito social investment, di rilievo anche nei documenti prodotti in ambito comunitario, che punta a privilegiare politiche di investimento in capitale umano, nel campo dell’istruzione, comprensiva della promozione dei servizi per la prima infanzia, della salute e delle politiche attive del lavoro, cui si assegna il compito di favorire l’attivazione degli individui, e che viene sostenuto anche in contrapposizione a politiche di mera compensazione/assistenzialismo/riparazione dei danni.
Si tratta di un approccio che può avere valenze interpretative, e quindi di applicazione, molto differenti. Da un lato viene criticato in quanto eccessivamente “produttivistico”, troppo finalizzato cioè all’attivazione economica e troppo poco attento alla necessaria protezione nei confronti dei rischi sociali. Rischi che derivano, come si è visto, anche dal funzionamento dei mercati, a cui si chiede invece agli individui, in un qualche modo, di adattarsi. Si paventa il pericolo che esso porti a discriminare la popolazione in base alle capacità o al “merito” o a giustificare tagli indiscriminati dei programmi di welfare tradizionali. D’altro lato, apre all’importante riflessione secondo cui il contrasto alle diseguaglianze deve essere ottenuto più con politiche che ne impediscano la formazione, cosiddette politiche predistributive, che con politiche di redistribuzione, compensative, che aggiustano ex post, ma senza eliminarli, i risultati differenziali che ciascun individuo ha conseguito. Politiche predistributive dovrebbero ovviamente coinvolgere però anche il funzionamento del mercato del lavoro, le politiche di sviluppo centrate sulla compressione dei salari, le politiche di trasmissione intergenerazionale della ricchezza che bloccano ab origine ogni possibilità di mobilità sociale, le politiche di infrastrutturazione sociale e di cittadinanza digitale e così via. È comunque indubbio che istruzione e sanità siano campi di intervento con una importantissima doppia valenza: sotto il profilo redistributivo, in quanto vengono resi accessibili servizi indispensabili per lo sviluppo umano a persone che non avrebbero mezzi autonomi per permetterseli, e sotto il profilo predistributivo, in quanto forniscono alle persone strumenti ulteriori per competere, ad armi un poco più pari, sui mercati e, come si è detto, per essere resilienti nei confronti delle grandi trasformazioni con cui ci si sta misurando in questi anni.
Il dibattito su questi temi non è stato però in grado di evitare, sul piano delle politiche concretamente attuate, che alla paziente costruzione di progetti strutturati e coerenti, si siano molto spesso preferite le scorciatoie del trasferimento monetario o, peggio, dell’agevolazione fiscale, più facili da implementare, che danno un riscontro immediato di consenso, ma che non costituiscono risposte adeguate né durature alle profonde diseguaglianze sociali che attraversano i paesi.


NUOVI RISCHI SOCIALI IN CERCA DI RAPPRESENTANZA
È certo che le politiche europee hanno interferito e potranno interferire con le traiettorie di sviluppo dei modelli di welfare state dei paesi membri. Basti ricordare il conflitto, di cui si è molto discusso, fra il pilastro economico, e in particolare le politiche di austerità degli anni della crisi finanziaria, e la costruzione di un pilastro sociale con la stessa dignità. O si pensi, in opposta direzione, alle risposte che le politiche comuni sono state in grado di dare durante il periodo del Coronavirus con la sospensione delle regole del Patto di stabilità, i vaccini, l’implementazione di SURE, lo Strumento europeo di sostegno temporaneo per attenuare i rischi di disoccupazione in emergenza.
Il problema è ora andare avanti, ad esempio trasformando SURE in uno strumento europeo di assicurazione contro la disoccupazione che possa svolgere una funzione anticiclica, ma soprattutto affrontando le debolezze principali del pilastro sociale, che non sono solo legate all’assenza di finanziamenti, ma anche al fatto che le sue prescrizioni non hanno la stessa cogenza delle regole economiche.
Affrontare questi argomenti esula dalle finalità di questo breve contributo. Va però sottolineato come sia importante che il pilastro sociale non sia solo un elemento simbolico, ma possa contribuire a costruire politiche, che ancora stentano a materializzarsi in modo diffuso e organico, di protezione nei confronti dei nuovi rischi sociali. Questi rischi soffrono infatti di un forte deficit di rappresentanza (si pensi agli immigrati o ai genitori soli con figli) e anche quando sono largamente diffusi (non autosufficienza, povertà) faticano ad organizzarsi o ad essere organizzati dalle forze sociali, che seguono ancora percorsi tradizionali di rappresentanza. Ai potenziali destinatari della protezione da questi rischi, che sono soggetti più deboli, meno presenti nelle leve del potere, meno in grado di fare pesare il proprio voto alle elezioni, una riposta è dovuta. Nel definire un nuovo progetto di Europa di loro bisognerà ricordarsi.