Due anni di pandemia tra sfide vinte ed errori da non ripetere

Written by Guido Rasi Thursday, 24 February 2022 17:23 Print
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Dopo due anni di pandemia ci eravamo illusi di avere individua­to le strategie e consolidato le metodologie di gestione della salute pubblica e le conseguenti ricadute sociali ed economiche. È stata sufficiente la comparsa di una nuova variante del virus (la Omicron), paradossalmente meno direttamente patogena e non completamente elusiva dell’immunità acquisita dalla vaccinazione, per rimettere tut­to in discussione in poche settimane.

In generale la gestione di una epidemia, causata da un nuovo virus trasmesso per aerosol da individuo a individuo, si basa inizialmente sul tentativo di fermare o rallentare la circolazione del virus mediante l’isolamento delle persone infette e il tracciamento dei contatti, per passare poi a bloccare la circolazione delle persone quando la rapidità della diffusione e la molteplicità degli infettati vanifica l’efficacia del tracciamento/isolamento. Misure complementari sono il distanzia­mento e l’uso di barriere fisiche (mascherine o schermi) mentre si potenziano e si adattano le strutture ospedaliere. Se si è fortunati si può disporre di farmaci e di un vaccino.

Le prime due misure hanno effetto immediato ma non possono pro­trarsi a lungo, i farmaci per un virus nuovo tipicamente non esistono e per l’uso dei vaccini si devono mettere in conto i tempi di sviluppo, la produzione di massa, la somministrazione e la latenza della rispo­sta immunitaria. A queste problematiche si è aggiunta da qualche anno una crescente diffidenza verso la scienza in generale e i vaccini in particolare. L’efficacia del vaccino, poi, non è scontata e si articola su tre livelli: la prevenzione dalla morte, la prevenzione dalla malattia grave e la prevenzione dall’infezione. Quest’ultima è la più difficile da realizzare date le caratteristiche di trasmissione del virus SARS-Cov-2, l’agente dell’attuale pandemia di Covid.
Le decisioni politiche, la capacità organizzativa delle istituzioni centrali e locali diventano quindi importanti tanto quanto i rimedi forniti dalla scienza. Di questi possono amplificarne o vanificarne l’efficacia.

L’Italia è stato il primo grande paese colpito dalla pandemia di un virus sconosciuto, le cui uniche certezze erano la modalità di tra­smissione e una patogenicità tale da poter inginocchiare anche un sistema sanitario sviluppato come quello italiano. Adottando l’unica misura possibile in emergenza (ossia il rallentamento della diffusione del virus tramite isolamento dei possibili contagi), l’Italia ha reagito perentoriamente alla pandemia con un lockdown severo ed efficace. Fissando uno standard attuato poi a livello mondiale.

Superata la “prima ondata”, l’atteggiamento, direi globale, di governi e autorità locali è stato quello di temporeggiare, inseguendo l’evolu­zione della pandemia, forse nella convinzione della imminente fine e forse nella confidenza dell’arrivo salvifico del vaccino, ritenuto un’ar­ma capace da sola di porre termine alla circolazione del virus.

Abbiamo tutti capito quanto sia complessa la gestione di una cam­pagna vaccinale e possiamo dire che il nostro paese, dopo un inizio disastroso, ha saputo condurre una delle migliori campagne vaccina­li del mondo. Risultato di una combinazione di grande capacità logistica (militare) e di misure normative, più o meno controverse e creative, ma alla fine efficaci.

Si può disquisire all’infinito se l’uso strumenta­le del Green Pass sia stata la migliore scelta, se questa abbia stemperato tensioni sociali rispetto a un obbligo secco fin dall’inizio o se le abbia acuite trascinandoci tutti in un dibattitto infi­nito, ma i risultati sono innegabili. Fatto sta che siamo tra i popoli più vaccinati al mondo, che tanti altri paesi piano piano hanno seguito le nostre decisioni e che le tensioni sociali sono state pari o inferiori rispetto a paesi che avevano assunto un atteggia­mento più tollerante o semplicemente più passivo. Risultato ancora più sorprendente visto il cinismo dei media nel dare eccessivo spazio a personaggi destituiti di ogni credibilità e in assenza di una narrativa coerente e organizzata da parte delle istituzioni. Sulla efficacia dei vaccini sviluppati per combattere il Covid oramai non vi sono più dubbi. Probabilmente se tutti si fossero vaccinati in tempi brevissimi ora sarebbe difficile convincere gli scettici con calcoli, algoritmi e statistiche che il bilancio in termini di morti e ricoveri senza la vac­cinazione sarebbe stato enormemente più severo. Paradossalmente la controprova ce la offrono proprio le persone non vaccinate che fun­gono da involontario gruppo di paragone, il tradizionale “controllo negativo” degli studi clinici che non prende il farmaco, e nel quale i decessi e i ricoveri in eccesso sono drammatici. Il dato brutale è che i non vaccinati hanno 20 volte più probabilità di morire rispetto ai vaccinati (ultimo aggiornamento dell’Istituto superiore di sanità).

Potremmo anche concludere qui che tutto sommato il nostro paese ha gestito sufficientemente bene la situazione. Sicuramente lo ha fat­to in termini comparativi con gran parte del globo.

Tuttavia gli effetti di due anni di pandemia (che non è ancora ter­minata) ci accompagneranno per parecchio tempo in campo econo­mico, sociale e sanitario. Limitandoci a quest’ultimo, il solo impatto devastante sulle mancate cure e diagnosi aprirà una stagione di dibat­titi e polemiche ma anche di analisi retrospettive su milioni di dati, auspicabilmente da utilizzare per un complessivo miglioramento strutturale del sistema e una adeguata protezione da calamità future. Sarà comunque difficile evitare polemiche strumentali e facili criti­che sterili tipiche del senno del poi. Anche la mortalità complessiva in Italia sarà prima (speriamo) o poi oggetto di analisi.

La mortalità da Covid in Italia rimane costantemente più alta rispet­to ad altri paesi comparabili. Le spiegazioni proposte per la prima ondata – quali l’assenza di farmaci specifici, l’inesperienza di fronte a un quadro clinico inconsueto, l’età avanzata dei pazienti colpiti estensivamente nelle RSA – anche se un po’ semplicistiche potevano essere valide essendo anche il primo paese colpito. Il perdurare di una prevalenza di tassi di letalità più elevati (i peggiori dell’Europa occi­dentale insieme al Belgio), richiede analisi più approfondite anche in relazione al fatto che siamo una delle popolazioni meglio immuniz­zate al mondo e l’efficacia della vaccinazione rispetto alla mortalità, come abbiamo visto, non è in discussione. Sappiamo, inoltre, che la distribuzione della mortalità è molto eterogenea per territorio e per strutture.

La prima necessità, quindi, è quella di capire quali condizioni o fat­tori sottendano a esiti differenti. Vi sono diversi tempi di latenza tra insorgenza dei sintomi e richiesta di ricovero? Sono omogenei i criteri di valutazione dei sintomi di aggravamento? Vi sono differenti trattamenti iniziali tra i pazienti con esiti migliori? Nelle terapie in­tensive i protocolli sono standardizzati? Questi sono alcuni esempi delle variabili da considerare per valutare quale approccio ottenga i risultati migliori e farne di questi le best practice da diffondere e aggiornare in tempo reale, con una formazione obbligatoria (oggi possibile da remoto con un dispendio di tempo e di risorse negli­gibile). Questa azione ovviamente non è per il futuro, deve essere immediata per il trattamento del Covid e continuativa per tutto il resto. Passata l’emergenza l’analisi delle disomogeneità dovrà andare ben oltre, ragionando sulla riorganizzazione del territorio e sulla for­mazione (continua e verificata) di tutti gli operatori sanitari inclusa la dirigenza amministrativo-gestionale.

La variante Omicron, come dicevamo, ha messo in difficoltà la strategia in atto e uno dei cardini della gestione è la diagnostica. Il tampone, diventato sempre più diffuso e accessibile nella sua ver­sione antigenica, ha perso progressivamente di affidabilità, sia per l’eterogeneità dei prodotti disponibili e mai validati ufficialmente o standardizzati, sia per il numero enorme di operatori addestrati som­mariamente. Con la variante Omicron l’efficienza è scesa a meno del 50%, causando una notevole perdita di efficacia del Green Pass ba­sato su questi test ed evidenziando l’assoluta necessità di identificare esattamente da quale variante (Delta o Omicron) siano affetti i rico­verati in terapia intensiva, nei reparti ordinari e i soggetti sintomatici in genere. Informazione che si ottiene solo dal test molecolare e dal successivo sequenziamento. Questo consentirebbe di determinare esattamente l’impatto di Omicron e di prendere decisioni informate rispetto, ad esempio, alla durata del periodo di isolamento degli in­fettati, dei contatti e degli asintomatici, al fine di favorire la maggiore “normalità” possibile al minor rischio.

Una prima rete di laboratori (circa un centinaio) in grado di eseguire il sequenziamento è stata attivata solo a fine estate, coordinata dall’I­stituto superiore di sanità e finanziata dalla Struttura commissariale. Questa è sufficiente solo a rilevare la presenza di una nuova variante quando la prevalenza sul territorio nazionale è di circa l’1,5% e a fornire, con l’ausilio di un ente privato e con uno scarto di più di dieci giorni, l’andamento della diffusione nelle varie Regioni. Pur co­ stituendo un miglioramento importante, la sua utilità risulta molto limitata e praticamente nulla rispetto alla pianificazione dei ricoveri e delle terapie. Le due varianti attualmente in circolazione hanno un impatto molto diverso sulle strutture sanitarie, i farmaci disponibili non hanno uguale efficacia sulle diverse varianti e anche la risposta immunitaria ai vaccini varia considerevolmente.

È necessario, quindi, stabilire una rete capillare, ben connessa, di laboratori di diagnostica, inclusa la microbiologia, in grado di sup­portare scelte terapeutiche precise localmente e provvedimenti rapidi di salute pubblica centralmente. L’attuale variante Omicron non è garantito che sarà l’ultima, l’epidemia di batteri resistenti agli anti­biotici è già iniziata e una prossima pandemia è estremamente proba­bile. Un centinaio di laboratori in rete con dati elaborati da un ente esterno non è compatibile con un sistema sanitario evoluto per 60 milioni di abitanti.

Anche un virus trasmesso direttamente da individuo a individuo in determinate condizioni può permanere sufficientemente a lungo in un ambiente e renderlo “contagioso”. La Omicron può esacerbare si­gnificativamente questo fenomeno vanificando le misure di semplice distanziamento in virtù della sua incrementata velocità di contagio. Altra caratteristica di questa variante è quella di sfuggire più facil­mente al sistema immunitario per quanto riguarda la prevenzione dell’infezione (il terzo livello illustrato precedentemente) in maniera progressiva rispetto al momento dell’ultima dose di vaccino ricevu­ta. La combinazione di una difficoltà di diagnosticare la presenza di questa variante con le caratteristiche ora descritte evidenzia la ne­cessità di adeguare le attuali misure in atto. Come prevedibile non vi è una misura singola in grado di risolvere il problema, ognuna ha un peso relativo e solo la combinazione di vari interventi può dare risultati apprezzabili e compatibili con la vita reale.

Quindi, oltre all’ovvio completamento dell’immunizzazione e all’u­tilizzo degli attuali test diagnostici commisurato ai loro limiti, do­vrebbero essere adottate tutte quelle misure che vanno sotto il co­mune nome di “interventi non farmacologici”. Questi spaziano dalla progettazione a lungo termine di infrastrutture a prova di epidemia (riorganizzazione dei trasporti, edifici con canalizzazione dei flussi, implementazione di attività per via telematica ecc.) a quelle più sem­plici come l’installazione di impianti per il ricambio e la sanificazione dell’aria, la regolamentazione dei flussi nelle situazioni di assembra­mento con personale addetto (fatto però in maniera pianificata e sistematica con personale addestrato, secondo regole oramai ben codificate). Molte di queste misure hanno già accumulato sufficiente eviden­za di efficacia nel ridurre significativamente il numero dei contagi, una per tutti l’introduzio­ne della ventilazione meccanica controllata nelle scuole. Tuttavia l’atteggiamento (globale e non solo nazionale) sembra quello di puntare tutto su interventi farmacologici e comunque prende­re iniziative solo per arginare l’evoluzione epide­mica senza tentare di anticipare gli eventi.

Abbiamo avuto sorprendentemente a disposizio­ne in pochi mesi dei vaccini straordinari a una velocità, efficacia e sicurezza senza precedenti, ma il risultato complessivo in termini di salute pubblica e impatto sociale è stato molto inferiore al potenziale. Non dimentichiamo che il colera è stato sconfitto dall’introduzione del sistema fognario e non dagli antibiotici.

Infine un commento sulla comunicazione. Concetti quali il rapporto beneficio-rischio, i tre livelli di protezione potenziale di un vaccino e le diverse percentuali di ciascuno di questi, la decadenza nel tempo della risposta immunitaria, la differenza tra infezione e malattia, non sono semplicissimi da comunicare e spiegare. Ora sono sufficiente­mente noti alla maggior parte della popolazione, che li ha recepiti attraverso interminabili dibattiti spesso contraddittori e polemici e quindi ciascuno con la propria interpretazione. Questi concetti sono stati alla base di tutte le decisioni prese da governi e autorità. Decisio­ni sempre sostanzialmente corrette tenuto conto delle informazioni disponibili al momento, delle restrizioni infrastrutturali preesistenti e dell’imprevedibile livello di implementazione sul territorio dovuta alla tradizionale disomogenea qualità del management pubblico ita­liano. Una comunicazione puntuale, coordinata e istituzionale, anti­cipando le decisioni e motivandole, avrebbe probabilmente facilitato il loro stesso lavoro. Per il futuro anche una riflessione sui percorsi scolastici che sviluppino una cultura del metodo scientifico potrebbe essere utile.
Riassumendo, il mero elenco delle azioni di correzione del nostro sistema finalizzata alla gestione delle emergenze sanitarie, al netto delle regole già scritte a livello internazionale e di riforme strutturali, potrebbe essere questo: a) una rete diagnostica capillare integrata; b) la standardizzazione dei metodi e delle procedure diagnostiche e terapeutiche; c) la formazione degli operatori sanitari in tempo reale; d) la trasformazione dei “dati” in “informazione” in un tempo utile per le decisioni di salute pubblica; e) l’integrazione dei sistemi infor­matici; f ) lo sviluppo delle misure non farmacologiche.

Molti di questi correttivi sono necessari anche al di fuori dell’emer­genza e ci si può lavorare senza necessariamente avere all’orizzonte un’altra pandemia (o semplicemente la prossima variante) e senza attendere il prossimo, improbabile, Piano nazionale di ripresa e re­silienza.