Il ruolo strategico della comunicazione della scienza

Written by Antonella Viola Thursday, 24 February 2022 17:23 Print
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Esistono appuntamenti con la storia che non si possono mancare. Per la scienza, la pandemia da Covid-19 è uno di questi.

Viviamo in un paese che ha sempre mostrato scarso interesse verso la ricerca scientifica e i suoi metodi. Gli scarsissimi finanziamenti in ricerca e innovazione si riflettono in un basso numero di ricercatori in rapporto alla forza lavoro e in un preoccupante invecchiamento del settore. Ma il problema è ben più ampio e nasce da una storica di­stanza della cultura italiana dalla scienza. Siamo uno dei paesi europei con il più basso tasso di laureati e dottorati in materie scientifiche. Non solo: nonostante una tendenza verso un costante miglioramen­to, la nostra popolazione mostra un tasso di analfabetismo scientifico ancora molto elevato. Uno studio del 2016, effettuato dall’Osserva­torio Scienza Tecnologia e Società di Observa, fotografava un paese in cui circa il 40% degli italiani non sa che gli antibiotici sono effica­ci solo contro i batteri e che il Sole non è un pianeta ma una stella. Se poi ci prendessimo la briga di domandare ai nostri amici o agli amici dei nostri figli quali siano stati i grandi scienziati italiani del passato, difficilmente andremmo oltre Galilei e Volta, mentre sicuramente la lista sarebbe molto più estesa e completa se li interrogassimo su poesia, letteratura o arte. La cultura italiana è fortemente sbilanciata verso le discipline umanistiche perché la nostra scuola è ancora im­postata sul modello del liceo classico, identificato dalla riforma Gen­tile come la scuola dell’élite. Da Croce a Gentile, in Italia la cultura scientifica è stata sminuita o ritenuta comunque inadatta a formare la classe dirigente del paese. Ancora oggi l’élite culturale italiana e la classe dirigente sono prevalentemente di formazione umanistica.

Fino a due anni fa, prima che un microscopico virus che fatichiamo a definire “essere vivente” entrasse nella comunità umana e la stravol­gesse, era quasi impensabile immaginare la presenza di biologi, fisici o matematici in trasmissioni televisive che non fossero tecniche. I salotti televisivi dove si discute davanti a milioni di italiani di politi­ca, attualità, scuola o lavoro erano frequentati, oltre che da politici e da giornalisti – non scientifici, nonostante questi unicorni esistano e siano spesso bravi e preparati – da filosofi, scrittori, storici dell’arte, economisti e giuristi. Gli scienziati, considerati appunto dei tecnici superspecializzati, incapaci di guardare oltre i loro laboratori, erano invisibili. E se gli scienziati non parlano al paese è la scienza che è muta. Ecco che si spiegano l’impreparazione del sistema sanitario a gestire una pandemia attesa da molti anni così come il rapido prolife­rare di notizie false e incredibili, dal ruolo del 5G nella propagazione del virus alla presenza di microchip nei vaccini.

La pandemia ha però cambiato notevolmente questo scenario, dan­do voce alla scienza e puntando i riflettori su medici e ricercatori che, nella maggior parte dei casi, non erano preparati a parlare al paese. Mentre alcuni si occupavano di divulgazione scientifica da tempi non sospetti e, nel giro di poche settimane, sono riusciti a trovare la giusta chiave per accompagnare i cittadini nella tempesta sanitaria e mediatica che stiamo vivendo, altri hanno commesso molti errori di comunicazione, lasciandosi prendere la mano dai personalismi o dalle proprie personali convinzioni. La comunità scientifica è una comunità fatta da singoli individui, con le loro sensibilità e contrad­dizioni, con competenze e capacità di visione estremamente diverse. Queste sfumature di pensiero e modus operandi a livello comunicativo sono state da un lato una manna dal cielo per i talk show televisivi e i giornali alla costante ricerca della contrapposizione; dall’altro, hanno causato stupore e dubbi nei cittadini. Già di per sé la scienza durante la fase attiva di una pandemia non può che essere incerta e basata sul dubbio: ci trovavamo di fronte a un virus e una patologia nuovi, avevamo bisogno di capire, studiare, verificare i dati senza però avere il tempo per farlo, tutto davanti a telecamere e con il peso dei morti a complicare ogni parola. In più, molti di noi si sono trovati costretti a smentire le affermazioni bizzarre di un collega, cadendo quindi nella trappola del mondo della post-verità. Comunicare la scienza durante una pandemia significa offrire ai cittadini una spiegazione razionale e comprensibile di quello che stanno subendo, responsabilizzarli nel loro ruolo attivo di possibili portatori del contagio, ricordando però che ad ascoltarci ci sono anche persone anziane, sole, spaventate, de­presse. Significa soprattutto essere umili, saper accogliere l’incertezza e saperla comunicare senza che questa venga percepita come caos. Per farlo è necessario avere i piedi ben saldi sul metodo scientifico e gli occhi puntati verso i dati e non la propria pancia.

Guardando ai risultati della campagna vaccina­le mi sento di dire che la comunicazione della scienza è stata buona ma non perfetta. Uno dei problemi maggiori che ho riscontrato nel ruolo a cui sono stata chiamata è il mancato utilizzo di giornalisti scientifici nelle redazioni o tra gli autori dei programmi. Non considerando la ma­lafede di chi ha inseguito il pubblico cercando sempre polemiche e scontri, la scarsa preparazio­ne dei conduttori televisivi in ambito scientifi­co non ha aiutato gli scienziati a comunicare al meglio. Siamo stati tutti catalogati da subito come “virologi”, nono­stante avessimo competenze estremamente differenti. Chiedere a un fisico come reagisce il sistema immunitario in risposta alla malattia o alla vaccinazione è come chiedere a un microbiologo come intubare un paziente o a un medico di reparto dettagli sulla natura evolutiva del virus: i più preparati avranno un’idea generale delle risposte ma non le competenze per dare informazioni ineccepibili. Un maggior coinvolgimento dei giornalisti scientifici avrebbe permesso di evitare errori grossolani e avrebbe assicurato che le domande fossero sempre rivolte ai veri esperti.

Tuttavia, al netto degli errori di noi scienziati e del giornalismo, que­sto nuovo rapporto diretto tra scienza, politica e cittadini è impor­tantissimo e andrà preservato nel futuro, se vorremo essere pronti ad affrontare le emergenze alle porte e per procedere verso quella democratizzazione della scienza che è fondamentale per il consenso politico.

Mai come in questi giorni abbiamo toccato con mano l’importanza di coinvolgere i cittadini su temi ritenuti prettamente scientifici e tipicamente destinati a essere discussi solo tra addetti ai lavori. Se i cittadini non avessero accettato le misure di restrizione, l’uso delle mascherine e la vaccinazione noi oggi saremmo in una situazione così drammatica da essere quasi inimmaginabile. In democrazia, il consenso della popolazione è quindi essenziale anche per la scien­za; non per validare o meno una nuova dimostrazione matematica, ma per trasformare in innovazione, sicurezza e benessere la ricerca scientifica, per portarla nelle nostre vite e migliorarle. Dai vaccini all’energia, dagli antibiotici agli OGM, dal trasporto alla digitalizza­zione, le scelte politiche devono incontrare il consenso popolare per essere efficaci. E chi potrebbe spiegare agli italiani questi temi così complessi se non uno scienziato, credibile perché esperto e privo di conflitti d’interesse?

Il processo di contaminazione tra scienza, politica e comunicazione vissuto negli ultimi due anni non sarà solo strumentale ai governi democratici e ai cittadini consapevoli: anche la ricerca scientifica ne trarrà un enorme beneficio. Prima di tutto il coinvolgimento della popolazione nel processo di scoperta, nelle sue sfide, potrà facilita­re il finanziamento alla ricerca attraverso donazioni e investimenti. Inoltre, l’abitudine a confrontarsi su temi di ampio respiro, come, ad esempio, l’economia o i diritti, aiuterà il mondo scientifico ad allargare la propria visione e costringerà gli scienziati a cambiare lin­guaggio e a riavvicinarsi alla cultura umanistica.

La scienza del domani è fortemente sfidante non solo sul piano tec­nologico ma anche filosofico, giuridico, economico. Pensiamo all’in­telligenza artificiale, ad esempio, o alle piattaforme di comunicazio­ne: rappresentano un terreno dove tutto il sapere umano si misura e si ricrea, dove non è pensabile immaginare confini tra scienza e umanesimo. Sarà necessario però un cambio di mentalità, non solo nell’opinione pubblica ma anche, e forse soprattutto, tra i ricercatori, che da troppo tempo si sono adagiati nell’angolo dei laboratori in cui sono stati relegati. Dovremo avere il coraggio di lanciarci nella mi­schia del dibattito pubblico, mantenendo quell’oggettività, pacatezza e umiltà che il nostro mestiere ci deve aver insegnato, se siamo stati dei buoni allievi. Ma non dovremo più stupirci se un fisico parla di diritti umani o un biologo di economia, come non ci siamo stupiti finora ascoltando umanisti e letterati parlare di scienza e tecnologia. Chiudersi significherebbe ammettere che gli studi scientifici sono li­mitanti e che aveva ragione Gentile quando, nella sua riforma, decise che dal liceo classico si potesse accedere a tutte le facoltà universitarie mentre dal liceo scientifico la scelta fosse ristretta alle facoltà di set­tore. Questo è il retaggio che ancora ci condiziona e che ci fa alzare il sopracciglio di fronte a un “virologo” in televisione. Ma si tratta di un retaggio culturale che deve essere rapidamente superato, se vo­gliamo davvero far crescere il paese e renderlo capace di affrontare democraticamente le sfide del futuro.