Stiamo vivendo un tempo senza precedenti. La più grave emergenza sanitaria della nostra storia, con il suo carico di sofferenze e lutti, ha sconvolto le nostre esistenze e aperto le porte a una stagione di profondi cambiamenti non solo nell’ambito sanitario.
Tutto è in movimento. Sembravano “intoccabili” e invece sono rimessi in discussione: le regole comunitarie di gestione del debito pubblico, i tetti di spesa italiani, la quantità di risorse da destinare agli investimenti. Barcollano vecchie “certezze” nazionaliste e parole come solidarietà e cooperazione internazionale tornano di stringente attualità. Si è infine riaperta una concreta opportunità di rendere più forte l’Unione europea.
Comprendere la genesi di questo autentico “terremoto” è la premessa indispensabile per rileggere in modo non decontestualizzato le scelte che abbiamo compiuto in questi due anni e mettersi nelle migliori condizioni per decidere cosa fare nelle prossime settimane, mesi e anni facendo tesoro delle dure “lezioni” del Covid. Perché – questa è la domanda da cui partire – mentre cresce nel mondo l’aspettativa di vita, migliorano le cure per patologie che sembravano invincibili, nel tempo della genomica e di innovazioni tecnologiche senza precedenti nell’ambito sanitario un semplice coronavirus mette in ginocchio non solo i paesi più poveri ma anche le grandi potenze mondiali?
La risposta della comunità scientifica è molto chiara: stiamo fronteggiando un virus con caratteristiche senza precedenti. SARS-Cov-2, questo è il punto di fondo, è un virus del tutto nuovo, particolarmente aggressivo, con specificità molto diverse non solo dai virus influenzali stagionali, ma anche da quelli che in passato si erano manifestati con un “salto di specie” dagli animali agli uomini. In una drammatica lotta contro il tempo gli scienziati di tutto il mondo hanno progressivamente scoperto che questo maledetto virus si sviluppa, frequentemente, con casi asintomatici o paucisintomatici. Un virus con queste caratteristiche, in assenza del vaccino che è arrivato solo alla fine del 2020, non si poteva arginare “solo” con una efficace gestione clinica. Senza ridurre drasticamente e tempestivamente i movimenti delle persone, le attività socioeconomiche, i grandi eventi, senza mascherine e adeguato distanziamento interpersonale, il contagio non si sarebbe fermato. Ecco perché abbiamo dovuto assumere decisioni drammatiche e inedite a partire dal febbraio 2020, spingendoci oltre “colonne” che in passato non era mai state superate. Il coraggio e la determinazione con cui, in Italia, abbiamo deciso lockdown, zone rosse, il blocco delle attività che non era possibile svolgere in sicurezza, la limitazione dei movimenti non necessari, ci hanno permesso di salvare migliaia di vite umane e di “guadagnare” tempo prezioso per giungere alla partenza della campagna vaccinale. Credo che tutta l’Italia, dentro un quadro complesso, in cui ci sono stati anche limiti, debba essere consapevole di essere stata in Occidente la nazione che, colpita per prima, ha fatto da apripista e indicato al mondo intero la strada da seguire per arginare la circolazione di questo nuovo e terribile virus. Scelte analogamente innovative le abbiamo compiute con l’utilizzo del Green pass e con la decisione dell’obbligo vaccinale per tutti i cittadini italiani che hanno compiuto i 50 anni.
I riconoscimenti che l’Italia ha ricevuto in questi mesi per il modo in cui, tra mille difficoltà, ha gestito questa terribile emergenza sanitaria sono importanti, innanzitutto, per i nostri cittadini, che sono stati davvero straordinari, e rappresentano un giusto riconoscimento per il prezioso lavoro degli uomini e delle donne del nostro Servizio sanitario nazionale. Ma, purtroppo, non è ancora il tempo dei bilanci, la battaglia contro il Covid non è vinta e richiede ancora grande attenzione.
Ci sono due verità, apparentemente antitetiche, che spiegano la situazione nella quale siamo attualmente. È vero: in soli dodici mesi l’Italia ha superato il numero di cento milioni di dosi somministrate: un risultato veramente straordinario che ci porta al traguardo (che sembrava un miraggio) del 90% di vaccinati nel nostro paese. Ma è altrettanto vero che oltre 4 milioni di non vaccinati, sopra i 12 anni, rappresentano un numero piccolo in percentuale ma significativo in termini assoluti per le ricadute sulle ospedalizzazioni. Infatti i non vaccinati rappresentano i due terzi degli ingressi in terapia intensiva e il 50% di quelli in area medica. Non c’è altra strada, dobbiamo continuare a vaccinare, vaccinare, vaccinare.
Una emergenza sanitaria senza precedenti ha reso ancora più evidente quanto siano indispensabili istituzioni forti e iniziative sovranazionali. Non mi sono mai stancato di ripetere, nel corso di questi mesi, che il virus non conosce confini e di fronte alla pandemia nessuno Stato, anche il più forte, è in grado di salvarsi da solo. È per questo motivo che nel giugno 2020 insieme a Germania, Francia e Olanda sono stato tra i promotori della “alleanza per il vaccino”. Ed è per le stesse ragioni che lavoriamo oggi attivamente per una “Unione europea della Salute”. Con il Patto di Roma siglato in occasione del G20 Salute, che ho avuto l’onore di presiedere, e con il G20 congiunto Salute e Finanze si sono fatti importanti passi avanti nella giusta direzione.
È del tutto evidente che non saremo mai definitivamente al sicuro sino a quando il vaccino non sarà disponibile per tutti. Aiutare concretamente i paesi in difficoltà a rafforzare i loro servizi sanitari, fornirgli tutte le dosi necessarie, non è soltanto profondamente giusto. È indispensabile per tutelare la nostra salute. Perché solo riducendo la circolazione mondiale del virus si diminuisce il rischio che nascano e si affermino nuove varianti.
Più in generale questa emergenza sanitaria ha reso evidenti due elementari verità che per troppi anni hanno faticato ad affermarsi. Innanzitutto che i soldi spesi per tutelare la salute delle persone non rappresentano una “spesa corrente” ma il più importante investimento per la coesione sociale, la crescita del paese e il benessere delle persone. E conseguentemente che la tutela della salute, uno dei beni comuni fondamentali, la si garantisce in primis con un forte servizio sanitario pubblico e universalistico. Per non sprecare la dura lezione del Covid, anche nel nostro paese, è indispensabile rinnovare e rafforzare il Servizio sanitario nazionale, per superare limiti e difficoltà, antecedenti alla pandemia, che il Covid ha messo in risalto. Sono apparse evidenti, dentro la tempesta che attraversiamo, la lentezza e l’insufficienza con la quale il SSN si è adeguato a un contesto demografico ed epidemiologico che negli anni è radicalmente cambiato. L’Italia ha un’aspettativa di vita molto alta (82,4 anni), un numero sempre più elevato di malati cronici e una rete territoriale troppo debole per fronteggiare questa “onda” crescente nella domanda di assistenza e cura.
In secondo luogo si è palesato in tutta la sua gravità il ritardo digitale della sanità italiana. La gestione della pandemia ha messo a nudo, con ancora maggiore forza, il tema delle diseguaglianze nel garantire a tutte le persone il diritto fondamentale alla salute. È un problema che riguarda il Mezzogiorno, le nostre periferie urbane, le aree interne, le zone montane. È una grande questione sociale che si intreccia con i livelli di istruzione, reddito e la diseguaglianza di genere.
È per le Regioni sinteticamente esposte che il nostro lavoro ruota attorno a tre parole chiave: prossimità, innovazione, uguaglianza. Grazie a finanziamenti senza precedenti è possibile perseguire questi obiettivi tenendo finalmente insieme riforme e investimenti. Alle risorse previste dal PNRR e dal fondo complementare (circa 20 miliardi) si aggiunge l’aumento, senza precedenti, del FSN. Quando sono diventato ministro, poco più di due anni fa, esso ammontava a 114 miliardi di euro, investendo circa 1 miliardo in più all’anno. Con la ultima legge di bilancio siamo arrivati a 124 miliardi, con l’impegno a crescere ancora. Per troppi anni sono state le tabelle Excel dei nostri uffici di bilancio a decidere quanto diritto alla salute si poteva tutelare. Adesso, con le scelte fatte, la stagione dei tagli alla sanità è finalmente terminata.
A queste risorse nei prossimi mesi, grazie a una preziosa collaborazione con il ministero della Coesione, se ne aggiungeranno altre sempre di matrice europea. L’Italia per la prima volta avrà finanziato un Piano operativo nazionale salute con una forte dimensione sociale che ci consentirà di mettere in campo ulteriori interventi su medicina di genere, salute mentale, povertà sanitaria, screening oncologici. Una sanità di prossimità per ricostruire una trama di forte connessione tra le persone e il SSN, a partire dai territori, il luogo fisico dove i bisogni di salute si manifestano, è la nostra prima scelta. Solo con una forte rete territoriale è possibile gestire efficacemente le cronicità che in un paese che invecchia sono destinate a continuare a crescere.
L’idea sulla quale lavoriamo è quella di una “sanità circolare”: un Servizio sanitario nazionale costruito intorno alla persona e alla comunità secondo i principi di prevenzione, prossimità e proattività, che valorizza l’integrazione ospedale-territorio, socio-sanitaria, interdisciplinare e multiprofessionale. Il concetto di base è semplice: il cittadino non deve “inseguire” i servizi, ma sono i servizi che devono raggiungere il cittadino e prenderlo in carico dal primo istante di vita all’ultimo. Lo faremo assumendo la casa come primo luogo di cura, portando l’assistenza domiciliare integrata al 10% per gli over 65 (in Italia eravamo solo al 4% di copertura, con una media OCSE al 6%, e Germania e Svezia al 9%). Realizzando le prime 1350 case della comunità HUB, 400 ospedali di comunità, dotati di circa 20.000 posti letto (per le brevi degenze a carattere fondamentalmente infermieristico), 602 centrali operative territoriali per coordinare le attività, rafforzando e implementando la “farmacia dei servizi”. Un lavoro tanto necessario quanto urgente è in corso sul versante della innovazione tecnologica e della transizione digitale: stiamo investendo 1 miliardo in telemedicina e tele assistenza, circa 800 milioni per progredire nel completamento del Fascicolo elettronico e ulteriori risorse per lo sviluppo di sistemi predittivi, di intelligenza artificiale e reti di monitoraggio. Ancora: sostituiremo tutto il parco delle grandi apparecchiature sanitarie vetuste (con anzianità maggiore di 5 anni) e verranno digitalizzati tutti processi clinico-assistenziali ospedalieri delle strutture sede di DEA (Dipartimenti di emergenza).
Nel lavoro in corso stiamo portando avanti altre due importanti innovazioni. La prima attiene all’ecosistema della ricerca e la seconda a una più forte integrazione tra le politiche di tutela della salute e quelle ambientali secondo un approccio One Health, con una visione unitaria del sistema relazionale: uomo, animali e ambiente.
L’insieme di questi investimenti, sta camminando di pari passo con l’avanzamento di cinque importanti riforme: modelli e standard per lo sviluppo dell’assistenza territoriale nel SSN, riforma degli IRCCS (Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico) per potenziare la ricerca scientifica, istituzione del Sistema nazionale salute ambiente e clima come nuovo assetto di prevenzione collettiva e sanità pubblica, transizione digitale, riforma della medicina generale.
Gli investimenti e le riforme hanno però bisogno di una svolta radicale sul tema decisivo del personale. Nei giorni più drammatici di questa emergenza, abbiamo acquistato mascherine, respiratori, ca mici sul mercato internazionale. Un medico o un infermiere non si possono “comprare”. Ecco perché in soli due anni abbiamo azzerato l’imbuto formativo (borse insufficienti rispetto al numero di laureati in medicina). Siamo arrivati a 13.400 borse nel 2019-20 e poi 17.400 borse nel 2020-21. Sono il doppio di quelle di due anni fa e quasi il triplo di quelle stanziate negli anni precedenti. Si tratta di un risultato straordinario, reso possibile anche grazie alle risorse del PNRR, che accresce le opportunità per tanti giovani medici laureati e pone le fondamenta per il SSN del futuro. Nei prossimi anni saranno stabilmente 12.000, più quelle altrettanto importanti per la medicina generale. Questo imponente lavoro dovrà essere accompagnato da un grande “Patto paese” tra tutti i soggetti dell’ecosistema salute, le istituzioni, gli ordini, i sindacati, le imprese e le associazioni.
È questa, io credo, la via maestra per trasformare una drammatica emergenza in una opportunità di rafforzamento e rilancio della sanità pubblica nel nostro paese.