Il 1989, anno della caduta del Muro di Berlino, viene ormai ricordato come si rammenta il 1789 di due secoli prima. Con il 1789 si fa coincidere la Rivoluzione francese, nonostante essa si sia dipanata negli anni successivi. Con il 1989 si fa coincidere la fine del comunismo, sebbene esso a Mosca sia invece sopravvissuto per alcuni anni e, con il volto più umano di Gorbaciov, sia stato anzi determinante nel rendere possibili la caduta del Muro e l’avvento dei primi governi non comunisti nei paesi dell’Est europeo.
La crisi finanziaria globale ha rappresentato un paradosso crudele. Molti sono convinti però che essa abbia offerto alla socialdemocrazia europea una preziosa opportunità di rinnovamento politico. Dopotutto, non è la socialdemocrazia che ha sempre sostenuto la necessità di un intervento pubblico per contrastare i guasti del mercato? E non abbiamo da poco fatto esperienza dei peggiori guasti del mercato dai tempi della grande recessione? Eppure l’elettorato europeo stenta a trarre le giuste conclusioni dalla congiuntura presente, almeno agli occhi dei socialdemocratici.
Dopo la débacle elettorale del settembre 2009, la socialdemocrazia tedesca sta attraversando un periodo di grave crisi. Condizione necessaria per una ripresa della SPD sembra essere, dopo la necessaria e attenta riflessione sulle cause che hanno condotto a tale battuta d’arresto, la capacità di recuperare gli obiettivi tradizionali dei socialdemocratici e di trasmettere all’elettorato un’immagine moderna e con vincente di equità sociale.
La Germania si apre a una fase di governo segnata dalla collaborazione tra cristianodemocratici e liberali, che avrà come primo compito quello di temperare il rapporto tra sfera pubblica ed economia. A sinistra, intanto, il partito Die Linke raccoglie un numero sempre maggiore di consensi, ma la prospettiva di un fronte comune con i socialdemocratici resta lontana. In questi nuovi equilibri, nel rapporto con le istituzioni europee, con la Russia e con gli Stati Uniti di Obama, la Germania si gioca il volto che assumerà nel l’immediato futuro.
Il Partito socialista francese, che ha perso le elezioni presidenziali per tre tornate consecutive, appare in crisi, benché mantenga una posizione dominante a livello locale. Condizione indispensabile per la ripresa appare essere l’individuazione di un leader capace di trascinare la sinistra e il centro sulla base di un programma riformista, fondato in primo luogo sulla lotta contro le disuguaglianze.
Il nuovo corso socialista spagnolo ha assecondato e cavalcato le trasformazioni sociali e di mentalità che, germinate negli anni Sessanta, erano giunte a maturazione dopo la morte di Francisco Franco. Zapatero ha raccolto e rilanciato sul piano dei diritti ciò che l’euforia democratica aveva seminato durante la Transizione e che il vento gelido del “desencanto” non era riuscito a sradicare. La crisi economica ha però evidenziato le carenze strutturali dell’economia spagnola e messo a nudo anche i limiti del nuovo corso socialista.
La vittoria del PASOK nella tornata elettorale svoltasi in Grecia lo scorso 4 ottobre e la concomitante caduta dei partiti conservatori e delle formazioni più estreme enfatizzano il malcontento degli elettori nei confronti del precedente governo di centrodestra. Tuttavia, tale vittoria va ascritta anche alla capacità dei socialdemocratici di riproporre gli ideali che da sempre ne hanno caratterizzato la storia e la tradizione pur accogliendo le sfide che il contesto locale e la situazione di crisi mondiale hanno portato di recente al l’attenzione.
Il contributo intende fornire un’analisi di lungo periodo del comportamento delle socialdemocrazie europee di fronte alle sfide poste dalla globalizzazione a partire dagli anni Settanta del secolo passato. Il saggio indaga nel contempo le cause della crisi di consenso in cui le socialdemocrazie attualmente versano avanzando l’ipotesi che derivino da un deficit di iniziativa nella guida dell’unificazione politica dell’Europa.
Se nell’ultimo decennio i rappresentanti politici della UE di ogni schieramento sembrano aver raggiunto un sostanziale accordo in materia climatica, un simile consenso non è stato ancora raggiunto negli USA. L’Ammistrazione Obama, tuttavia, rappresenta una nuova opportunità per gli Stati Uniti di diventare una forza attiva negli sforzi globali per la salvaguardia del pianeta, soprattutto in vista del pros simo summit di Copenaghen.
Gli obiettivi e le politiche dell’Unione europea e dei suoi Stati membri nella lotta contro il cambiamento climatico hanno alla base gli impegni presi nell’ambito del Protocollo di Kyoto. L’analisi delle prospettive future in questo settore mette in luce le difficoltà che l’UE e la maggior parte dei paesi incontreranno nell’ottemperare a tali impegni e obblighi, soprattutto in funzione dello scenario ancora più ambizioso come quello delineato dagli orizzonti del 2020 e del 2050, sia nell’ambito del sistema di scambio europeo delle quote di emissione (ETS) sia per le attività “non ETS”.
La prossima conferenza di Copenaghen, che coinvolgerà circa 200 paesi, ha come obiettivo la stipula di un accordo globale per la lotta contro i cambiamenti climatici. Tra gli strumenti a disposizione, in primo piano si collocano senza dubbio il coinvolgimento consapevole dei paesi emergenti, l’individuazione delle quote di riduzione delle emissioni e la definizione di validi meccanismi di controllo e governance, indispensabili per ricercare soluzioni condivise e strategiche per lo sviluppo futuro del pianeta.
A oltre un decennio dal Protocollo di Kyoto le principali questioni relative al cambiamento climatico rimangono aperte, a testimonianza della debolezza intrinseca dell’accordo del 1997. Prevedere l’esito della prossima Conferenza di Copenaghen sul clima è piuttosto arduo. Molto, in definitiva, sembra dipendere dalla possibilità che gli Stati Uniti siano disponibili alla sottoscrizione di un accordo legalmente te vincolante.
L’Italia si trova tra i paesi in prima fila nella lotta ai cambiamenti climatici e tuttavia sembra presentarsi alla vigilia del-l’appuntamento di Copenaghen ancora priva di una strategia complessiva entro cui si inquadrino singoli provvedimenti e iniziative. Altri paesi europei, come ad esempio la Germania, affronteranno invece in maniera più consapevole obiettivi e impegni globali e specifici per la propria co munità nazionale.
Il tema dei cambiamenti climatici è una questione scottante sui tavoli dei decisori politici che cercano, con diverse vi sioni, di raggiungere a Copenaghen un possibile nuovo accordo climatico da attuare dopo il 2012, alla fine del primo periodo individuato dal Protocollo di Kyoto.
I negoziati sul clima vivono un momento di stallo, che il prossimo summit di Copenaghen dovrà cercare di smuovere, pena una pericolosa recrudescenza dello scenario del riscaldamento planetario. Tra le vie percorribili per il raggiungimento di un accordo globale, particolare rilevanza è rivestita dai meccanismi di flessibilità (la possibilità per i paesi industrializzati di ottenere permessi di emissione su un mercato più ampio) e dal trasferimento tecnologico di metodologie estrattive alternative dai paesi ricchi ai paesi in via di sviluppo.
Cina e Italia rappresentano due realtà politiche, economiche e sociali con storie profondamente differenti. Entrambe le nazioni, tuttavia, sembrano percorrere traiettorie di evoluzione e involuzione che convergono in diversi punti, in particolare per ciò che attiene alle dinamiche relative allo sviluppo economico. Nonostante permangano elementi di notevole divergenza, ad una analisi approfondita le due nazioni appaiono oggi più vicine di quanto venga percepito.
Nonostante la crisi mondiale, la Cina sembra puntare al traguardo della crescita del PIL all’8% per il 2009. Questo sta accadendo grazie all’imponente pacchetto di stimoli all’economia varato dal governo e finalizzato, tra l’altro, alla costruzione di un sistema di welfare sociale che dovrebbe contribuire ad alleggerire le preoccupazioni della popolazione e a dirottare risorse sui consumi, instaurando così un circolo virtuoso che, a sua volta, favorirebbe la ripresa e la diversificazione della produzione industriale destinata al mercato interno.
Partendo dalla constatazione del processo di modernizzazione del sistema giuridico in atto negli ultimi decenni nella Cina popolare e dell’intensa opera di codificazione che sta accompagnando le più note riforme economiche, vengono evidenziate alcune delle caratteristiche fondamentali di tale trasformazione e l’eco che stanno trovando nella società civile; più in generale, l’attenzione si concentra sul possibile impatto positivo che le riforme del diritto potrebbero avere sul sistema istituzionale cinese e sul-l’avvio di un processo di democratizzazione.
Il declino relativo della potenza americana non è un fenomeno recente e ad esso si accompagna, come movimento parallelo, la progressiva emersione economica del gigante cinese. Divisi tra una politica di contenimento e di impegno verso il competitor cinese, gli Stati Uniti, in particolare dopo l’insediamento di Obama, puntano tuttavia a una partnership speciale con la Cina, un G2 che miri alla realizzazione di una global governance e che trova nel Dialogo strategico sull’economia uno dei pilastri più solidi.
Il processo storico che sta portando allo sviluppo di una vera e propria società civile nella Repubblica Popolare Cinese è segnato, da un lato, dall’attivismo di organizzazioni e associazioni e, dall’altro, dall’impiego del web: strumenti entrambi in grado di stimolare l’opinione pubblica e di rappresentare potenti mezzi di denuncia dei soprusi commessi dal potere centrale. L’analisi di questo processo e della sua evoluzione evidenzia, d’altro canto, la complessità della dialettica attualmente in atto tra Stato e società civile, la quale continua ad operare, nonostante le recenti aperture, all’interno di un sistema fondamentalmente autoritario.
All’indomani del d.d.l. del ministro Gelmini che annuncia la riforma complessiva dell’università, riemerge il dibattito sul fallimento del processo riformatore che da anni accompagna la vita dell’istituzione italiana. La riflessione suggerita coinvolge piani diversi da quelli meramente legislativi, che attengono la necessità di ripensare la funzione universitaria e la sua identità a partire non solo dalle misure concrete come la razionalizzazione degli insegnamenti e dei meccanismi di reclutamento, ma anche dal recupero della centralità dei valori della conoscenza.
Il tema della riforma universitaria appare centrale non solo per l’importanza strategica che il sistema universitario riveste per il paese, ma anche per gli innumerevoli interessi trasversali che esso muove. Ripensare e ridisegnare l’università italiana è dunque un processo complesso, che il governo sta affrontando con provvedimenti volti soprattutto a razionalizzare la spesa e a riorganizzare il meccanismo di reclutamento del personale. Tra gli elementi di debolezza del disegno di legge spicca l’assenza di nuovi investimenti in ricerca e sviluppo, centrali per la ripresa dell’economia di qualunque paese.
Per molte ragioni, a vent’anni dagli eventi che nel 1989 mutarono definitivamente il volto dell’Europa, è possibile affermare che le due superpotenze di allora, USA e URSS, abbiano reagito a quegli eventi piuttosto che averli governati e che, quindi, i principali protagonisti delle rivoluzioni del 1989 furono in primo luogo gli europei dell’Est.
Il modo in cui il Partito Comunista Italiano ha vissuto il periodo successivo al crollo del Muro di Berlino costituisce un caso di grande interesse analitico, anche per alcune analogie rintracciabili con quanto avvenuto nei sistemi politici dell’Europa orientale. Un’analisi approfondita mostra tuttavia che una reale comprensione di come il PCI abbia interpretato la svolta del 1989 non sia possibile senza considerare l’originalità dell’esperienza storico-politica italiana.
Nell’esaminare le politiche di semplificazione procedimentale in atto, si intendono porre in risalto i pericoli insiti in un processo riformatore che, sul piano organizzativo, precarizza la dirigenza rendendola meno idonea ad assicurare imparzialità e capacità di comparare gli interessi coinvolti e che, sul piano funzionale, rende facoltativa l’adozione di un provvedimento espresso e motivato.
Parola, fenomeno, concetto, il populismo va e viene, scompare di tanto in tanto dalla scena della storia per ricomparire dove e quando non te l’aspetti. Sarà che è un termometro, un grezzo strumento lessicale che misura la temperatura della democrazia e suole indicarne l’allarmante ascesa. Di tale infermità è a sua volta causa, ma è perlopiù e dapprima sintomo.