Slanci e cautele alla Federal Reserve

Written by Carlo Pinzani Thursday, 16 January 2014 18:30 Print

Se alla Federal Reserve si sta aprendo una fase nuova non è tanto per la successione, avvenuta nel segno della piena continuità, di Yanet Yellen a Ben Bernanke, ma per le scelte di politica monetaria e le azioni che questa metterà in atto nei prossimi mesi, a cominciare dalla progressiva riduzione degli acquisti di titoli del Tesoro e di titoli a garanzia dei mutui immobiliari ormai inesigibili. Sarà tutto ciò sufficiente a far ripartire la dinamica del mercato finanziario americano e globale?


Nelle ultime settimane, e specialmente a partire dalla riunione del Federal Open Market Committee (FOMC) della Federal Reserve del 17 e 18 dicembre scorsi, l’universo mediatico ha preso a diffondere previsioni più o meno confortanti circa il prossimo avvio di un’uscita da una crisi economica e finanziaria globale, che sta entrando nel suo sesto anno. Il fenomeno non è nuovo e si è ripetuto più volte in passato, secondo alcuni con una sorta di periodicità che alimenta le speranze soprattutto in primavera. In realtà, quest’idea, spuntata in inverno, sembra derivare più da una sostanziale incomprensione della natura della crisi che da un corretto apprezzamento dei dati positivi: in fondo si tratta di cattiva congiuntura più grave delle altre e, come le altre, dovrà avere una fine anticipata da segnali positivi, come quelli che oggi si manifestano e che, in condizioni normali, autorizzerebbero a vedere la luce in fondo al tunnel.

Questa volta, però, oltre al wishful thinking (chi può non desiderare la fine della crisi?), l’ottimismo sembra avere motivi precisi, legati alla politica della Federal Reserve americana. A richiamare l’attenzione sulla FED non è certo la successione di Yanet Yellen a Ben Bernanke – che diverrà operativa a fine gennaio e che è già stata metabolizzata dall’opinione e dalla politica nei mesi scorsi con polemiche e dibattiti, sproporzionati in ampiezza e vivacità rispetto alla portata reale dell’evento visto che, sin qui, tra presidente della FED e la sua vicepresidente v’è stata piena sintonia. Quel che interessa veramente è invece la decisione del FOMC di dare avvio, a partire da gennaio, al cosiddetto tapering, vale a dire alla progressiva riduzione degli acquisti sia di titoli emessi dalle imprese pubbliche preposte alla promozione della proprietà immobiliare (le famose – o famigerate – Fanny Mae e Freddie Mac) a garanzia di mutui immobiliari ormai inesigibili e ora nei portafogli bancari, sia di buoni del tesoro americani. La decisione era stata annunciata a maggio e subito aveva innescato reazioni inquietanti: poiché sembrava prefigurare un’inversione anche nella politica monetaria, l’annuncio aveva dato luogo a un flusso di capitali dai paesi emergenti agli Stati Uniti in previsione di un aumento dei tassi d’interesse in misura tale da incidere sul mercato dei cambi ai danni, ad esempio, della rupia indiana e del real brasiliano. Una risposta brusca ed eccessiva che solo l’ipertrofia e l’instabilità dell’attuale sistema finanziario possono spiegare.

Che i mercati fossero estremamente sensibili alla inversione di tendenza nell’andamento dei tassi era noto da tempo, tanto più che a scadenza più o meno lontana il fatto dovrà verificarsi, magari dopo una ultradecennale stagnazione di tipo nipponico. Ed è anche opinione comune che quel momento avrà un valore decisivo per il successo o il fallimento della politica monetaria seguita dalle banche centrali delle principali economie: un’inversione troppo precoce potrebbe annullare troppo presto una possibile, incipiente ripresa, mentre una decisione tardiva determinerebbe un ulteriore prolungamento (e quindi un aggravamento) delle condizioni di deflazione da debito nelle quali si trova l’economia globale. La Federal Reserve e i suoi dirigenti hanno mostrato di avere ben viva la consapevolezza di quanto delicata, e anzi fondamentale, sia la tempestività della decisione sui tassi d’interesse. Da questo punto di vista, una conferma definitiva viene dalla lettura delle minutes dell’ultima riunione del FOMC. Tanto nelle considerazioni della tecnostruttura quanto in quelle dei partecipanti è evidente un continuo alternarsi di ottimismo sull’incipiente ripresa dell’economia (fondato sui dati più recenti relativi alla disoccupazione e sull’assenza di segni d’inflazione) con ammonizioni e inviti alla prudenza circa la reale portata degli indizi positivi. Si tratta, in buona sostanza, di un vero e proprio ibis redibis.

Ma, accanto a tutta questa prudenza (o incertezza) due elementi di chiarezza sono evidenti. Il primo è addirittura un fatto concludente: per quanto limitata a 5 miliardi di dollari di titoli garantiti da mutui ipotecari e a un pari importo di Treasuries la riduzione degli acquisti da parte della FED è un fatto acquisito, il cui significato è quello di avviare la riduzione della terza versione del quantitative easing. Il senso questa politica innovativa adottata dalla Federal Reserve era anzitutto quello di favorire il sistema bancario, dal momento che l’acquisto dei titoli sovrani fornisce alle banche liquidità con la quale ricercare rendimenti maggiori e quello dei titoli con garanzia ipotecaria trasferisce dai bilanci delle banche a quello della FED crediti ormai inesigibili. La riduzione di 10 miliardi, diminuendo l’importo complessivo degli acquisti mensili da 85 a 75 miliardi, è molto limitata sul piano quantitativo e, proprio per questo, sembra lecito definirne ambiguo il significato. Questo tipo di operazione è del tutto coerente con la politica seguita dalle autorità americane fin dall’inizio della crisi: sostenere il sistema bancario e finanziario in generale, evitando di affrontare il problema della risoluzione del debito e contribuendo così in misura decisiva alla dilatazione della crisi nel tempo. L’attuale riduzione degli acquisti sembra invece andare nella direzione opposta, quella cioè di chiudere – seppure in minima parte – delle partite aperte, prendendo atto dell’inesigibilità dei crediti legati ai titoli acquistati. Se questa mossa fosse seguita da altre – di dimensioni incomparabilmente più vaste – che andassero nello stesso senso si potrebbe accelerare realmente l’uscita dalla crisi attraverso un risanamento, necessariamente parziale, del sistema finanziario. Questa strada potrebbe essere imboccata senza essere necessariamente votata all’insuccesso, dopo che alla fine dello scorso anno le diverse autorità di regolazione americane hanno messo a punto buona parte del complesso normativo che può consentire l’avvio concreto dell’attività regolatoria qual è stata impostata ben quattro anni orsono con il Dodd Frank Act, sul quale, dopo quella mediatica dell’ultimo triennio, si aprirà ora la guerra giudiziaria che certamente il mondo della finanza scatenerà.

Il secondo elemento di chiarezza è dato dalla reiterata, decisa affermazione contenuta nelle minutes che la politica monetaria della Federal Reserve resterà ancora a lungo accomodante e che i tassi di interesse manterranno il loro bassissimo livello attuale per almeno un altro biennio, affermazione subito secondata dalla Banca centrale europea. La decisione con la quale è affermato questo impegno basta a spezzare ogni collegamento tra la riduzione degli acquisti e la politica monetaria. Ed è questo aspetto che maggiormente interessava i mercati, pronti sempre a cercare indizi per anticipare il futuro alla continua ricerca di occasioni d’investimento più redditizie di quelle offerte dagli strumenti ordinari, anche indipendentemente dal livello di rischio che si deve affrontare per ottenere rendimenti più alti. Questa propensione ormai generalizzata ha contribuito al rinnovamento della strategia comunicativa delle banche centrali che sono passate dalla riservatezza più totale alla periodica rivelazione dei loro intendimenti per il futuro in modo da orientare il comportamento dei partecipanti al mercato, realizzando la cosiddetta forward guidance, l’orientamento preventivo, al fine di evitare il ripetersi di colossali abbagli del tipo di quello verificatosi negli anni precedenti lo scoppio della crisi, quando furono soltanto pochissimi (e inascoltati) a far presente che l’aumento dei valori immobiliari non sarebbe durato all’infinito. Sicuramente, un’innovazione positiva e non soltanto nelle intenzioni; resta il dubbio, a proposito di questa strategia, se a guidare siano le banche centrali o le aspettative dei mercati.

In queste condizioni è veramente arduo ritenere che sia possibile vedere la luce in fondo al tunnel. La motivazione principale di questa affermazione non va ricercata né nell’andamento dei dati sulla disoccupazione o degli indici azionari, né nella ripresa della produzione industriale. Elementi tutti presi in considerazione nei resoconti del FOMC e accompagnati dalle caute e talvolta problematiche valutazioni di cui s’è detto. In realtà, la conclusione più corretta da trarre da questa annunciata volontà di mantenere a lungo una politica di tassi vicini a zero è quella della prosecuzione della situazione attuale per un periodo esteso, quella che di recente Lawrence Summers ha definito come “deflazione secolare” e che proietta a livello globale la vicenda dell’economia nipponica degli anni Novanta e che la Banca centrale di Tokyo sta ancora cercando di superare con l’appoggio e la spinta del governo nazionalista di Abe nell’intento di favorire una ripresa dell’inflazione.

Il fatto è che voler vedere a tutti i costi la luce in fondo al tunnel significa dimostrare che ancora sfugge la reale portata della crisi. Questa, volendo mantenere la metafora ferroviaria, assomiglia a un tunnel la cui lunghezza supera di almeno un ordine di grandezza quelli percorsi nel passato, con l’eccezione della Grande Depressione, ove la luce in fondo al tunnel fu soprattutto quella delle esplosioni nucleari dell’agosto del 1945 in Giappone.

Oggi si devono fare i conti con un mercato capitalistico mondiale realmente esistente nel quale – grazie alla globalizzazione e all’abbandono delle esperienze socialiste – esistono enormi riserve di capacità produttive, di lavoro e di capitale. Tali capacità non riescono a essere mobilitate neppure con la straordinaria, attuale abbondanza di liquidità sia perché questa non può essere utilizzata a livello globale in modo realmente coordinato sia perché non si riescono a superare le radicate diffidenze verso il diretto intervento pubblico nell’economia, la sola strada che non risulta sbarrata dalle macerie che ancora ingombrano il settore finanziario e creditizio e gli impediscono di svolgere la sua funzione primaria di allocazione delle risorse nel modo più redditizio e lo costringono a operare soltanto al proprio interno, ponendo così nuove premesse per nuove bolle speculative.

È tuttavia comprensibile che la Federal Reserve, seppur con grande cautela, lasci intendere d’inclinare all’ottimismo proprio perché la sua politica passata e presente è orientata a un contesto prevalentemente nazionale (ovviamente contemperato con la prospettiva globale oggi indispensabile), nel quale è utile stimolare le energie. Molto meno si comprende che l’ottimismo sia utilizzato in Italia per finalità funzionali a disegni politici del tutto separati dalla realtà della crisi che – vale la pena ripeterlo – non ha le caratteristiche di un evento congiunturale pur grave, con scadenze più o meno ravvicinate alle quali legare vicende governative o elettorali che nel breve periodo sembrano scollegate. Le logiche che guidano la finanza e la speculazione, e che negli anni passati hanno pesantemente condizionato la politica italiana, seguono oggi percorsi e obiettivi diversi dal recente passato, anche se non si può escluderne un pur improbabile ritorno. Insomma, non c’è proprio nessun motivo per ritenere che l’Italia, l’Europa e il mondo escano dal tunnel nel 2015, una scadenza che, in queste settimane, viene diffusamente assunta come decisiva per le sorti del paese e che, invece, serve soprattutto a rinviare decisioni che da troppi anni non sono state prese e la cui urgenza è indiscutibile anche a prescindere dalla crisi e che, magari, sarebbero facilitate da un quadro politico diverso da quello attuale.

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