L'illusione delle primarie

Di Stefano Passigli Martedì 01 Aprile 2003 02:00 Stampa

La crescente richiesta di introdurre, nel nostro sistema politico, l’istituto delle primarie – da taluni presentato quasi quale antidoto salvifico alla crisi dei partiti – rischia di essere acriticamente accolta. Essa merita invece alcune considerazioni relativamente a presupposti, ambito d’applicazione e conseguenze di tale istituto. Le primarie si sviluppano negli Stati Uniti in risposta all’esigenza di contrastare la machine politics – il predominio cioè degli apparati di partito sulla selezione delle candidature – o sostituendosi ai caucus, a una selezione cioè affidata alla concertazione tra i notabili dell’establishment partitico. Come tali, le primarie sono tipiche di una specifica fase di sviluppo della politica: mentre il caucus è tipico dei piccoli numeri, le primarie funzionano in presenza di una grande domanda di partecipazione politica e di un sistema partitico forte e strutturato rispetto al quale le primarie rappresentano un opportuno contrappeso.

 

La crescente richiesta di introdurre, nel nostro sistema politico, l’istituto delle primarie – da taluni presentato quasi quale antidoto salvifico alla crisi dei partiti – rischia di essere acriticamente accolta. Essa merita invece alcune considerazioni relativamente a presupposti, ambito d’applicazione e conseguenze di tale istituto.

Le primarie si sviluppano negli Stati Uniti in risposta all’esigenza di contrastare la machine politics – il predominio cioè degli apparati di partito sulla selezione delle candidature – o sostituendosi ai caucus, a una selezione cioè affidata alla concertazione tra i notabili dell’establishment partitico. Come tali, le primarie sono tipiche di una specifica fase di sviluppo della politica: mentre il caucus è tipico dei piccoli numeri, le primarie funzionano in presenza di una grande domanda di partecipazione politica e di un sistema partitico forte e strutturato rispetto al quale le primarie rappresentano un opportuno contrappeso. Se invece il sistema partitico è debole e non strutturato, e non è in grado di esprimere autorevolmente i candidati alternativi da sottoporre al giudizio dell’elettorato, le primarie possono divenire uno strumento dominato da chi detiene posizioni di potere economico, ed essere fortemente influenzate – data la bassa partecipazione che esse sempre raccolgono rispetto alle elezioni vere e proprie – da piccoli gruppi di attivisti localmente impegnati. Si aggiunga che quando esse non sono regolate per legge ad esse non si applicano le norme e i limiti, restrittivamente definiti nel tempo, che si applicano alle campagne elettorali; spesso le primarie avvengono, così, al di fuori di qualsiasi regola di par condicio o di tetto di spesa, aggravando i rischi di manipolazione testé ricordati. A prescindere da queste considerazioni di carattere generale, le primarie presentano non pochi problemi «tecnici». Occorre innanzitutto distinguere tra primarie «aperte» e primarie «chiuse». Nelle prime può votare qualsiasi elettore; nelle seconde solo quanti si siano registrati come elettori del partito o della coalizione che ha indetto le primarie. Gli inconvenienti della prima soluzione sono ovvii: come rischiare che la selezione dei candidati di una forza politica lasci spazio all’intervento manipolativo di altre forte politiche, o di forti gruppi organizzati – in certe situazioni anche di natura criminale – presenti nella società? Meno ovvii, ma comunque gravi, gli inconvenienti della seconda soluzione: se si limita il voto nelle primarie a chi si sia preventivamente registrato come elettore di quella area politica, si rischia di ridurre molto fortemente la partecipazione dei cittadini, riconsegnando la selezione dei candidati agli apparati di partito o a piccoli gruppi politicamente attivizzati, tradendo così l’obiettivo stesso delle primarie. Inoltre, esse determinano forti tensioni all’interno del partito o della coalizione che deve esprimere il candidato, tensioni che ne possono indebolire la coesione necessaria alla vittoria in sede di elezioni vere e proprie. È appena il caso di aggiungere che le primarie sono uno strumento di reductio ad unum di una pluralità di candidati tipico dei sistemi elettorali uninominali (non necessariamente maggioritari), ove ogni schieramento propone all’elettore un solo candidato; nel caso di sistemi elettorali a scrutinio di lista le primarie sarebbero auspicabili solo nel caso di liste chiuse, restando il voto di preferenza lo strumento tipico in caso di liste aperte.

Da quanto affermato, consegue che le primarie sono uno strumento valido soprattutto nel caso di cariche monocratiche (sindaco, presidente di regione, premier), anche se non è possibile nascondersi la difficoltà di utilizzare le primarie nel caso di coalizioni egemonizzate da un partito dominante, che potrebbe facilmente aggiudicarsi tutte le candidature. Anche nel caso di coalizioni più equilibrate, un metodo concertativo tra tutti gli attori politici interessati appare preferibile rispetto alle lacerazioni inevitabilmente prodotte da primarie ove si affrontino candidati espressione di partiti o movimenti in concorrenza, ma obbligati a collaborare nel successivo momento elettorale (in proposito, è opportuno ricordare che in Italia i fautori ad oltranza delle primarie sono spesso gli stessi che si sono battuti per l’abolizione della quota proporzionale presente nella legge Mattarella sulla base dell’argomentazione che i partiti che devono collaborare nei collegi uninominali non possono essere obbligati a scontrarsi nella quota proporzionale: è singolare che essi non colgano che la stessa logica si applica alle primarie). Se anche nel caso di cariche monocratiche le primarie incontrano l’ostacolo della logica di coalizione, a maggior ragione tale ostacolo appare insormontabile nel caso della contemporanea aggiudicazione con regole maggioritarie di una molteplicità di seggi elettivi. È, infatti, evidente che nel maggioritario a turno unico anche i più piccoli partiti conservino un notevole potere di contrattazione, e che ad essi non si possa rinunciare pena la sconfitta della coalizione. Ne consegue che essi andranno remunerati con un congruo numero di seggi e che i relativi candidati non possano essere identificati tramite delle primarie di coalizione, soggette al predominio delle forze maggiori o di movimenti guidati da minoranze agguerrite. Forse solo delle primarie di coalizione a doppio turno potrebbero garantire, attraverso possibili alleanze, una qualche rappresentazione delle forze minori, ma sia la possibilità che gli esiti di una simile procedura sarebbero assai dubbi oltre che estremamente macchinosi, e tali da scoraggiare una reale partecipazione dei cittadini. Resta solo da aggiungere che se le primarie fossero limitate ad una consultazione all’interno di ogni singolo partito la loro utilità sarebbe ugualmente assai dubbia: esse non consentirebbero la partecipazione di non iscritti al partito, vanificando gli stessi obiettivi di quanti le propongono, e darebbero una spinta inarrestabile a una crescente frantumazione correntizia di partiti già deboli e progressivamente destrutturati.

In conclusione, l’attuale tendenza italiana a richiedere e a valorizzare le primarie a) trae ispirazione da esperienze storiche di altri sistemi che non trovano riscontro nelle presenti condizioni del nostro sistema partitico; b) risponde ad obiettivi che possono essere meglio serviti da una rinnovata concertazione tra i dirigenti degli attori politici istituzionalizzati; c) è particolarmente inadatta a situazioni di competizione politica incentrata sul confronto tra coalizioni disomogenee e ad alto grado di frammentazione interna; d) presenta difficoltà nel caso di elezioni a cariche monocratiche, ed è del tutto inapplicabile al caso di assemblee elettive. È inevitabile concludere che la loro attuale «popolarità», e l’insistenza con cui vengono proposte, sono semplicemente dovute al loro essere un efficace strumento di lotta politica contro le attuali dirigenze. Nate per dare voce ai singoli cittadini, nell’attuale contesto italiano le primarie rischierebbero insomma di produrre effetti del tutto opposti, massimizzando oltre misura il peso di minoranze organizzate esterne al sistema dei partiti.