Religioni e fondamentalismi

Di Agostino Giovagnoli Lunedì 01 Aprile 2002 02:00 Stampa

Dopo l’11 settembre 2001, l’opinione pubblica internazionale ha guardato con maggiore attenzione al mondo delle religioni. Le religioni, sebbene talvolta attraverso semplificazioni non rispondenti alla realtà, sono state messe sul banco degli accusati o almeno chiamate a pronunciarsi in modo chiaro sui problemi posti dal fondamentalismo e dal terrorismo. Ne è seguito un significativo dibattito sulla funzione che le religioni possono svolgere nella società contemporanea. Nell’immediato, un riferimento forte ai principi di laicità e di democrazia ha accompagnato la denuncia del pericolo rappresentato dalle religioni e in particolare dall’Islam per la sopravvivenza degli Stati Uniti.

 

Dopo l’11 settembre 2001, l’opinione pubblica internazionale ha guardato con maggiore attenzione al mondo delle religioni. Le religioni, sebbene talvolta attraverso semplificazioni non rispondenti alla realtà, sono state messe sul banco degli accusati o almeno chiamate a pronunciarsi in modo chiaro sui problemi posti dal fondamentalismo e dal terrorismo. Ne è seguito un significativo dibattito sulla funzione che le religioni possono svolgere nella società contemporanea. Nell’immediato, un riferimento forte ai principi di laicità e di democrazia ha accompagnato la denuncia del pericolo rappresentato dalle religioni e in particolare dall’Islam per la sopravvivenza degli Stati Uniti. Fin dall’inizio, in realtà, è emersa anche una certa attenzione a non incoraggiare né una nuova guerra di religione tra cristianità ed Islam né contrapposizioni apocalittiche tra civiltà che invece hanno avuto una certa fortuna altrove, come mostra il successo in Italia del libro di Oriana Fallaci, praticamente ignorato dagli americani. In questa prima fase, tuttavia, l’accento è stato posto sulla natura laica della solidarietà americana, in quanto basata non sulla condivisione della stessa religione ma sul mutuo rispetto e sui principi democratici.

Successivamente, invece, si è sviluppato negli Stati Uniti il tentativo di coinvolgere in modo più pieno e diretto il mondo delle religioni nella mobilitazione contro il terrorismo. Indubbiamente sarebbe stato pericoloso continuare ad insistere sulla contrapposizione tra laicità e religione: tale contrapposizione, infatti, avrebbe reso sempre più difficile a uomini e donne di religione identificarsi con le ragioni della democrazia e della lotta contro il terrorismo. Probabilmente, però, un peso ancora maggiore ha avuto la consapevolezza che tale contrapposizione non sarebbe stata solo pericolosa ma anche sbagliata: la democrazia americana ha, infatti, una radice profondamente religiosa, come mostra la storia di questo paese, molto diversa da quella degli Stati europei. Il 7 ottobre, in coincidenza con l’inizio delle azioni militari in Afghanistan, Andrew Sullivan pubblicava sul «New York Times» un lungo articolo sostenendo che quella appena iniziata era «una guerra religiosa: ma non dell’Islam contro cristiani ed ebrei. Piuttosto, è una guerra del fondamentalismo contro fedi di tutti i generi che sono in pace con la libertà e la modernità». Secondo Sullivan, al «Grande Inquisitore» evocato da Dostoevskij, a cui si ispiravano ieri nazisti e comunisti, si ispirano oggi i talebani: dopo aver vinto il fondamentalismo laico occorre combattere quello religioso, respingendo analoghe logiche inquisitoriali che sono anche profondamente antireligiose. Particolare importanza, nel ragionamento di Sullivan, riveste il duplice passaggio rappresentato dall’allargamento del problema dal solo Islam a tutte le religioni e dalla mobilitazione contro il «nemico esterno» all’autocritica contro il «nemico interno». Da tempo, egli spiega, è in corso negli Stati Uniti una battaglia tra nuove e più virulente forme di fondamentalismo cristiano e le principali correnti del protestantesimo e del  attolicesimo. In un certo senso, il fondamentalismo è la questione centrale da cui sono nati gli Stati Uniti: la più profonda garanzia contro i «talebani» è già nella Costituzione americana.

Lungo questa strada, si è chiarito sempre meglio che l’incompatibilità non riguarda religioni e democrazia, ma fondamentalismo e democrazia. Ciò implica, almeno potenzialmente, anche un contrasto tra religioni e fondamentalismo, una questione che ha progressivamente attratto l’attenzione degli osservatori. Un contributo interessante è venuto dall’intervento del premio Pulitzer Thomas Friedman, anch’egli decisamente convinto che il fondamentalismo può essere sconfitto solo con l’aiuto di imam, rabbini e preti. Friedman sostiene che il futuro del mondo sarà deciso da una battaglia contro il fondamentalismo, condotta anche attraverso una reinterpretazione dei testi sacri e della storia delle religioni. Per costruire un futuro vivibile nel mondo globalizzato, infatti, le religioni devono riconoscere che Dio «parla molti diversi linguaggi religiosi», senza che ciò significhi però rinunciare alle «passioni» che vengono dalla fede in una verità assoluta. Friedman distingue così tra questa fede – irrinunciabile per i credenti delle grandi religioni monoteiste – e imposizione delle proprie convinzioni con i metodi violenti del «Grande Inquisitore»: la violenza, cioè, non è insita necessariamente nei monoteismi in quanto tali, ma deriva da scelte sbagliate di una parte dei loro fedeli. Ne scaturisce una prospettiva diversa da quella di una convivenza pluralista fondata sul comune riconoscimento del relativismo della verità, prospettiva a cui le grandi religioni monoteistiche restano inevitabilmente estranee e che finisce per accreditare un senso di incompatibilità tra fede e tolleranza.

Dopo l’11 settembre, insomma, molti hanno invocato il contributo delle religioni nella mobilitazione contro il fondamentalismo, anche a condizione di dover ripensare tradizionali posizioni laiche. Ma le religioni, come hanno risposto a questi appelli? Particolare importanza riveste in questo senso l’incontro di Assisi del 24 gennaio scorso, tra leader di differenti religioni, promosso da Giovanni Paolo II. Seppure con diversità di accenti, in quest’occasione, molti rappresentanti delle più importanti religioni mondiali – tra cui figure di grande prestigio come il patriarca di Costantinopoli, Bartolomeos I – hanno dissociato pubblicamente le loro tradizioni religiose dall’uso della violenza, condannando la guerra e il terrorismo, auspicando la pace e la tolleranza. La giornata del 24 gennaio ad Assisi ha rappresentato la più solenne ed esplicita presa di posizione delle religioni contro il fondamentalismo. Quest’incontro si inserisce in un percorso iniziato nel 1986 da Giovanni Paolo II. Allora, sempre ad Assisi, leader di tutte le religioni del mondo accolsero il suo invito per una giornata di preghiera per la pace, che, suscitando sorprese e resistenze sia all’interno sia all’esterno del mondo delle religioni, segnò una svolta storica. In seguito, i rapporti tra questi leader non si sono più interrotti e, proprio alla vigilia dell’attacco alle Twin Towers, inaugurando a Barcellona il XVI Incontro internazionale fra le religioni, organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio il 2 settembre 2001, Andrea Riccardi ha affermato: «La condizione umana sta diventando il convivere. Convivere è la realtà di molti popoli, di molte religioni, di tanti gruppi. Non sempre è facile (…). Donne e uomini spaesati (…) chiedono alle religioni di proteggere la loro paura (…). Ne nascono fondamentalismi di generi diversi (…). Crescono anche fondamentalismi di carattere etnico o nazionalista, che giungono sino al terrorismo. I fondamentalismi sono semplificazioni che possono affascinare giovani, disperati, gente spaesata per cui questo mondo è troppo complesso, inospitale, ma che possono interessare politici spregiudicati alla ricerca di scorciatoie per il potere. E i fondamentalismi hanno il marchio dell’odio, se non della lotta al diverso religiosamente o etnicamente».

Uomini e donne di religione diversa si confrontano oggi sempre meno con mondi a loro totalmente omogenei. È l’esperienza dell’Europa di fronte all’immigrazione, ma anche di una nuova comunanza tra Est e Ovest. È la sfida del mondo africano dove, specie in questa stagione difficile, ci si confronta con le fragilità degli Stati nazionali che le differenze etniche, religiose o d’altro genere possono mettere in discussione. È anche la sfida del «mondo virtuale», in cui si entra sempre più a contatto con tutti. Forse, in passato, i diversi mondi religiosi si potevano ignorare reciprocamente: in un orizzonte di grandi distanze e di reazioni lente, ignorarsi era – forse – non meno dannoso ma più facile. Oggi, alcuni responsabili religiosi, che vivono in una condizione di isolamento, esprimono orizzonti localisti o nazionalisti. Ma gli uomini di religione sono chiamati sempre più a coltivare orizzonti di universalità, radicati nel profondo delle diverse tradizioni religiose, ma che si liberano solo nel contatto e nel dialogo.

Nello spirito di Assisi, le comunità religiose si sono impegnate a prendere le distanze dalle utopie di una società perfetta che ispirano logiche totalitarie e da disegni di omogeneità che conducono a forme di pulizia etnica. Le religioni, che vivono tra una comunità particolare, locale o nazionale, e la tensione verso l’universalità possono essere una scuola di convivenza e di pace: da tradizioni religiose capaci di dialogo emerge, infatti, l’arte del convivere così necessaria in una società sempre più plurale come quella contemporanea. Le religioni hanno in questo senso una responsabilità decisiva nella convivenza: il loro dialogo tesse una trama pacifica, respinge le tentazioni di lacerare il tessuto civile o di strumentalizzare le differenze religiose a fini politici.

L’esercizio di tale responsabilità può assumere l’aspetto di una nuova funzione pubblica delle religioni. Nel contesto attuale, in alcune regioni del mondo, le religioni appaiono effettivamente proiettate in uno spazio pubblico. Anche se potrebbe sembrare sorprendente che ciò sia avvenuto proprio negli ultimi decenni del secolo scorso, il più secolarizzato della storia, in cui si è addirittura teorizzata la scomparsa delle religioni, molti elementi sembrano confermare questa tendenza recente, legata talvolta alla «rinascita delle nazioni» o alle forme di revival etnico, altre volte connessa alla protesta degli esclusi, al confronto con i conflitti o al ridisegnarsi delle identità. In ogni caso, le religioni o, meglio, gli uomini e le donne di religione appaiono inseriti in una nuova «funzione pubblica » quando sono coinvolti nella grande questione del fondamentalismo, cruciale per lo sviluppo di forme stabili di convivenza democratica in tutto il mondo.

Ad Assisi, i leader religiosi non hanno cercato di costruire un fronte comune contro un mondo secolarizzato, ma di far maturare fra i credenti una sensibilità capace di confrontarsi con l’umanesimo laico della tradizione occidentale. È perciò importante che anche i laici comprendano l’importanza della collaborazione tra credenti e non credenti, contro i fondamentalismi e per affermare il pluralismo della convivenza, accettando che le religioni svolgano in questo senso una qualche «funzione pubblica», certo molto diversa da forme passate di supplenza politica o di ingerenza nella vita degli Stati.