Le luci nelle case degli italiani

Di Chiara Gamberale Lunedì 28 Marzo 2011 16:16 Stampa

Pubblichiamo il racconto di Chiara Gamberale apparso sulla rubrica "Rivisitare l’Italia nei suoi 150 anni" del numero 3/2011 di Italianieuropei, in edicola e in libreria a partire da giovedì 31 marzo. 

 

Vi siete mai incantati a guardarle? Le luci nelle case degli altri, intendo. Vi siete mai persi, passeggiando nella notte in una città sconosciuta (che ne so, Cesena, Modica o magari nella vostra – Roma, Pescara, Milano – che però all’improvviso vi è sembrata straniera), a fissare quella finestra accesa, quell’altra ancora e a riflettere quanto la vita vissuta da dentro sembri un’impresa colossale, ma da fuori possa apparire facile, leggera, bellissima?

Siamo sempre lì: la questione è come si faccia a volersi bene senza farsi troppo del male. Come si faccia a vivere sotto lo stesso tetto (accendere le stesse luci…) e continuare a desiderare di stare lì e in nessun altro luogo nel mondo.

Perché il tempo, quando passa, maledizione, rischia di rovinare tutto. Perché mi guardo intorno e vedo persone correre, come mosche impazzite, alla ricerca di un posto da chiamare casa: ma perché contemporaneamente vedo persone che quel posto da chiamare casa ce l’hanno e, inconsapevolmente o meno, fanno di tutto per distruggerlo.

Perché ormai dovremmo averlo imparato che “tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo”: ma qualcosa, dentro di noi, anche nel 2011, forse anche fra duemilaundici anni, non vuole rinunciare alla possibilità di essere felice e per di più a lungo e in una maniera originale.

È questo che ci piace credere, di fronte alle stanze accese di persone che non conosciamo e molto probabilmente non conosceremo mai: che quelle persone ce l’abbiano fatta. Che abbiano la soluzione, sappiano il segreto. Che abbiano scoperto come si fa a tenere insieme il bisogno di famiglia e la passione, senza che l’uno ammazzi l’altra.

«Lei è così innocente, che non può immaginare cosa succede a una coppia quando si cominciano a lasciare le porte dei bagni aperte! È terribile: terribile » sospira il mio amico M., messo alle strette sulla questione convivenza dalla sua nuova, sensuale fidanzata. M. ha trentanove anni, e un matrimonio finito male alle spalle. Lei di anni ne ha ventitré e da quattro abita con altre due studentesse fuorisede. «Convivere è divertentissimo!» non fa che ripetere a M. «Dobbiamo farlo assolutamente: altrimenti che senso ha la nostra relazione?».

Ma M. sa, per esperienza, che proprio per continuare a garantire un senso a una relazione, due persone dovrebbero rimanere a una certa distanza di sicurezza.

Il problema per lui non ha niente di personale: si annida proprio nei gangli dello stare insieme.

«A essere onesti» si sfoga «com’è possibile? Come fa l’erotismo fra due persone a rimanere identico a se stesso, travolto dallo tsunami delle dichiarazioni dei redditi, delle recite scolastiche dei figli, delle bollette, delle comunioni, delle multe, delle varicelle, della spazzatura da portare giù?».

«Tutta colpa del Sessantotto» conclude lui, ma ormai lo sanno pure i muri (che, quando le luci a un certo punto si spengono, nelle camere da letto assistono, attoniti, alla progressiva trasformazione delle notti dei loro padroni di casa): chi ci pensava, prima di quegli anni lì, a mettere in conto l’intesa sessuale, nello scegliere la persona da avere al proprio fianco? Finché: liberi tutti! Alla passione sono state aperte le frontiere della vita coniugale.

Sposare la propria ossessione sessuale è diventato un diritto.

Continuare a ossessionarsi sessualmente per quella stessa persona, però, a questo punto è un dovere.

Lo scomodo paradosso, stando a M., è questo. Dal momento in cui chiamo mamma e papà i tuoi genitori, se ti vado a comprare la crema depilatoria che nella lista della spesa hai inserito fra “anticalcare” e “prugne (2 kg)”, che mi rimane da sapere di te, a quale rivelazione posso aspirare, attraverso il tuo corpo?

L’erotismo è per sua stessa natura legato al mistero. Da cui per sua stessa natura il quotidiano, con le rassicuranti abitudini che lo imploriamo di assicurarci, protegge.

Bisognerebbe accorgersene un attimo prima, dunque.

Non cedere alla lusinga di voler condividere con l’altro proprio tutto, tutto tutto quello che ci riguarda.

«Così il rapporto diventa ipocrita!» controbatte la fidanzata di M. La salvi chi può, pensa M. Che però sa, come tutti, che la coppia è sì un animale delicato, però la solitudine è una bestia orrenda: e alla fine sono certa che deciderà di convivere.

Lei però non dovrà offendersi se, quando lui le consegnerà il mazzo di chiavi del loro appartamento, terrà quella del suo bagno solo per sé.

«Ma che discorsi sono» scuoterebbe la testa mia nonna Lidia, se fosse ancora in vita. Aveva quindici anni quando ha conosciuto mio nonno Giovanni: a diciotto l’ha sposato, a diciannove è rimasta incinta la prima di tre volte, sono rimasti insieme cinquantasei anni, finché lui se n’è andato per l’unico motivo per cui non basta volerlo per poterlo evitare, e dopo nemmeno un mese lei l’ha seguito.

«Che discorsi sono» sbufferebbe, infastidita. «Un marito deve stare con sua moglie e una moglie deve stare con suo marito, punto e basta. Fare l’amore per tutta la vita? Ma fai dei figli piuttosto». Così, più o meno.

Il Sessantotto: eccolo di nuovo che esce dalla porta (del bagno) e rientra dalla finestra (delle case degli altri e delle nostre).

«Ma per Sessantotto, in Italia, oggi che cosa intendiamo?» si e mi domanda F., intensa e inquieta, che da quando è finita la sua unica grande storia d’amore colleziona primi appuntamenti e non passa mai al secondo. «Una data simbolica, ok. Ma che corrisponde a qualcosa che ci ha liberato o ci ha condannato all’infelicità per sempre? Perché un tempo forse era tutto poco romantico, ma facile, porca miseria. Ama chi non sposi e sposa chi non ami, era il motto dei nostri nonni. Che però restavano uniti per tutta la vita».

«Eh no. I miei, di nonni, erano sposati e innamorati» rispondo io.

«Ma che ne sai di come si divertiva tuo nonno Giovanni, alle spalle di tua nonna?» mi provoca lei. E il discorso di solito finisce lì, perché non ci riesco nemmeno a pensarlo, mio nonno, che si diverte. Con una che non è mia nonna, poi: aiuto.

Eppure mi rendo conto che F., nel suo apparente cinismo, da qualche parte ha ragione. Può cambiare l’ordine degli addendi (che sono sempre quelli: desiderio di famiglia e quotidianità) ma il risultato rimane lo stesso: è la conquista più difficile del mondo, essere soddisfatti della propria vita.

«Capisci? Allora forse stavamo davvero meglio quando stavamo peggio. Nel senso che non c’erano troppe alternative: o si stava insieme o no. E se sceglievi di sì, a quel punto le cose dovevano andare bene per forza. Potevano esserci diversivi, sì, ma non scappatoie».

Mica come adesso, che avere tante scelte (mi sposo? divorzio? figli sì ma matrimonio no? matrimonio sì ma figli e convivenza no? e così via) può significare non averne nessuna, dalla confusione che generano le infinite libertà che possiamo prenderci, le infinite possibilità che abbiamo.

«Voi etero vi gingillate in questi inutili rovelli mentali solo perché date per scontato di potervi sposare e mettere su famiglia. Vi vorrei vedere, a non avere il diritto di farlo». Sull’argomento G., che abita sul mio pianerottolo, si scalda sempre. Lui e S. stanno insieme da nove anni, convivono da sette: che lo Stato italiano non riconosca la loro unione li mortifica ogni giorno. «Figurati se possiamo permetterci di preoccuparci quanto, se e come possa durare un matrimonio. Intanto lo vogliamo ottenere. Poi a farlo funzionare ci pensiamo noi».

Sta di fatto che mentre negli ultimi anni infiammano le manifestazioni dei movimenti omosessuali per rivendicare la tutela delle unioni di fatto, le statistiche parlano di un calo progressivo dei matrimoni e a fare da contrappunto al paradosso tuonano le voci di Giovanardi e di Sacconi alla Conferenza nazionale della famiglia dello scorso novembre: «Sostegni solo alla famiglia naturale, fondata sul matrimonio e orientata alla procreazione». E intanto impazza il bunga bunga. Insomma, che fare?

Il nostro modo d’intendere la famiglia è giusto? Ma allora perché quell’altro modo d’intenderla addita il nostro e lo dichiara sbagliato? È sbagliato quell’altro modo? Siamo sbagliati noi?

Ecco.

Forse l’unica risposta a interrogativi come questi è che smettano di esistere, prima di tutto dentro di noi. Perché la democrazia sentimentale in cui ci troviamo a vivere, nell’ansia che genera in M., nelle perplessità di F., nel biasimo di mia nonna, nella rabbia di G., ci offre comunque un’occasione straordinaria, mentre aspettiamo fiduciosi che i ministri ci risparmino dichiarazioni sulle famiglie di fatto e le proteggano con le leggi che meritano. Un’occasione straordinaria, sì: quella di comprendere chi siamo noi, per poi, di conseguenza, comprendere come (e con chi) abitare le nostre case.

Immaginate che incubo se fosse il contrario: se cioè fossimo costretti a delle scelte a cui non possiamo aderire se non forzando o mortificando lati della nostra personalità. È comunque impegnativo, vero: però guardate lì! È tardi, avete sonno, è stata una giornata impossibile, state finalmente per abbassare le serrande per andare a dormire e vi accorgete che c’è uno strano tipo, piantato sul marciapiede, con lo sguardo fisso alla vostra finestra. Siete certi di non conoscerlo e che lui non conosca voi: ma dal suo sguardo incantato capite che vi crede felici. Chissà: potrebbe avere ragione.