Europei

Di Marcello Verga Giovedì 08 Ottobre 2009 19:57 Stampa
Il dato della partecipazione popola­re alle ultime elezioni per il Parla­mento europeo – un po’ meno del 43% – è in gran parte da attribuire al deficit di democrazia delle istituzioni comunitarie. L’Unione è, e a ragione, avvertita come una istanza di faticosi compromessi dei governi nazionali.

Il dato della partecipazione popolare alle ultime elezioni per il Parlamento europeo – un po’ meno del 43% – è in gran parte da attribuire al deficit di democrazia delle istituzioni comunitarie. L’Unione è, e a ragione, avvertita come una istanza di faticosi compromessi dei governi nazionali. Ma il calo di partecipazione popolare alle elezioni è anche la spia di un certo appannamento di quello che possiamo definire, citando un documento comunitario del 2004, il sentimento di appartenenza delle donne e degli uomini che vivono nei paesi dell’Unione ad un pezzo di mondo caratterizzato da un insieme di valori culturali e politici, di morfologie sociali, di modi di vivere, di modelli di rapporti personali che, per quanto diversi nei singoli contesti nazionali, hanno comunque forti elementi comuni. E sono tali da giustificare un progetto di integrazione che vuole sfociare nella costituzione di un’area politicamente integrata: nella prospettiva, sembrerebbe di poter dire, di una federazione degli europei.
A questo sentimento di appartenenza fanno riferimento molti atti ufficiali che hanno caratterizzato fin dagli anni Cinquanta il difficile processo di integrazione che dalla Comunità economica europea ha portato all’attuale Unione: dai Trattati di Roma del 1957 al documento di Lisbona del dicembre 2007. Comune ai documenti costitutivi dell’attuale Unione è il riferimento insistito ad una comune eredità culturale, religiosa, umanistica, ad un comune patrimonio di civiltà che segnerebbe l’Europa e gli europei.
Chi sono gli europei? Cos’è la civiltà europea? C’è una comune identità europea? Sono, dunque, queste le domande alle quali le istituzioni europee sono obbligate a dare una risposta, se, come si è fatto finora, si vuole legittimare l’integrazione economica e politica di paesi la cui storia è storia di guerre, di divisioni profonde, di odi fortemente radicati nelle coscienze collettive. Perché è ovvio che senza gli europei non può esistere l’Europa così tenacemente voluta dai politici e da quei settori dell’opinione pubblica più impegnati e fiduciosi nel rafforzare il processo di integrazione politica. Così avevano ragionato i politici e intellettuali europei che, nel 1953, nell’ambito del Consiglio d’Europa, animarono un’importante tavola rotonda, svoltasi a Roma, e nella quale si discusse a lungo del «problema spirituale e culturale dell’Europa considerata nella sua unità storica, e dei mezzi per esprimere questa unità in termini
contemporanei». Per Arnold Toynbee, storico e direttore del Royal Institute of International Affairs, europei erano gli abitanti della penisola nordoccidentale del Vecchio mondo e delle isole adiacenti: un’Europa dai confini assai stretti, dunque. «La Russia non è Europa» sosteneva, infatti, Toynbee. Né molto diversi erano gli orientamenti della maggioranza dei partecipanti. Ma in quella occasione Alcide De Gasperi indicò nella presenza vivificante dell’illuminismo settecentesco una delle radici, insieme al cristianesimo, della civiltà europea. Il Consiglio affidò allora ad un comitato di esperti il compito di «dimostrare la fondamentale unità dell’Europa nella diversità». La storia d’Europa doveva essere intesa «come una storia comune degli Europei». È questo l’atto di nascita di quella retorica europeista che, nell’insistere sulla unità nella diversità, avrebbe ripreso – e ancor oggi riprende – gli schemi di storia europea tracciati a partire dal XVIII secolo e che avrebbe trovato nella magistrale lezione di François Guizot la formulazione più incisiva. Gli europei – vale a dire, secondo questo paradigma, i popoli latini e germanici dato che gli slavi non erano considerati europei – avrebbero avuto una storia comune (l’eredità romana, il cristianesimo, la centralità della società urbana e in seguito la formazione di grandi Stati territoriali) che avrebbe permesso la costruzione di una civiltà dai tratti largamente comuni, nonostante la varietà – è termine di Guizot – delle singole realtà nazionali.
“Europe and Europeans” – questo il titolo del volume che raccolse i lavori del comitato del Consiglio d’Europa – dette però una risposta per molti versi sfuggente alle indicazioni del Consiglio. Se proprio si voleva trovare un elemento di unità nella storia d’Europa tale da caratterizzare gli europei, questo andava cercato nella storia della cultura: conclusione “debole” per gli europeisti del Consiglio, che infatti fecero di tutto per far dimenticare l’opera, mentre continuarono a ribadire con molta enfasi la fiducia in una comune civiltà europea. Non sorprende, dunque, che la politica europea per la conservazione del patrimonio e dell’eredità culturale, dagli anni Sessanta ad oggi, abbia svolto le funzioni di una esplicita politica europea dell’identità: una sorta di supplenza nei confronti dell’incapacità o, comunque, delle difficoltà in cui si sono trovate le istituzioni europee nella promozione di un forte sentimento di appartenenza, come riconosce il rapporto di un comitato, presieduto da Dominique Strauss-Khan e promosso nel 2004 dalla Commissione europea.
La questione da discutere, più di quanto si faccia, è se abbia senso legittimare l’Unione sul valore di una comune civiltà europea. Insomma, chi sono gli europei, una volta fatta l’Unione, è problema che si pone urgentemente a coloro – intellettuali o politici – che ben sanno come l’uso e l’abuso della storia nelle politiche identitarie possa generare, e abbia generato, pericolosi mostri.