Eresia

Di Miguel Gotor Giovedì 02 Luglio 2009 18:12 Stampa
Il termine eresia deriva dalla parola greca αιρεσις, la quale, a sua volta, ha origine dal verbo αιρεω che significa prendere, afferrare, ma anche proporre e scegliere. Con il concetto di eresia si intende una dottrina che pretende di opporsi in maniera diretta, contraddittoria e immediata a una verità rivelata oggetto di dogma in una data comunità religiosa, ad esempio quella cattolica.

In modo più esteso, però, si può considerare come eresia un convincimento o un’affermazione contraria al comune sentire non solo sotto il profilo religioso, ma anche politico, filosofico e in senso lato ideale.
Nella Grecia classica il termine era utilizzato per esprimere la propria preferenza nei riguardi di una determinata dottrina politica, religiosa o filosofica, senza che ciò implicasse necessariamente un giudizio di riprovazione, che invece compare per la prima volta nel Nuovo Testamento. San Paolo respinse l’accusa di eresia pronunciata dai giudei contro i primi cristiani e utilizzò il concetto per spiegare ogni divisione in grado di spezzare l’unità della Chiesa. Ireneo impiegò il termine nel suo trattato Contra haeresis per descrivere le sue posizioni come ortodosse in contrapposizione con quelle dei propri avversari. Tertulliano fornì nel De praescriptione haereticorum una delle prime definizioni di eresia, giudicando eretici coloro i quali si proponevano di contrastare la tradizione introducendo nuove e personali opinioni in seno al cristianesimo. Secondo san Girolamo l’eresia era una perversione di carattere dottrinale e in questo senso si distingueva dallo scisma, ove invece prevaleva un dissenso disciplinare.
Sul piano teologico l’eresia è considerata una dottrina che contraddice una verità rivelata, proposta come tale dalla Chiesa cattolica. Si definisce, invece, sapiens haeresim un’espressione, di solito scritta, che ingenera sospetto di eresia, ad esempio nel caso della censura dei libri proibiti.
Sul piano morale l’eresia è considerata un peccato di infedeltà, compiuto da un cristiano. Si tratta di un errore volontario e pertinace, che può anche limitarsi all’espressione di un dubbio, commesso contro un dogma. L’eresia si considera pertinace quando il soggetto è consapevole del peccato commesso. I trattatisti, tuttavia, hanno compiuto nel corso dei secoli una serie di distinzioni attenuative: tra eretico interno ed esterno, nel caso in cui l’eretico manifesti o no i suoi convincimenti; tra eretico pubblico e occulto qualora renda partecipe delle proprie idee un numero elevato di persone oppure le diffonda fra pochi e in segreto; tra eretico formale e materiale, nel primo caso, quando l’eretico nega oppure mette in dubbio degli articoli di fede senza averne la consapevolezza, nel secondo, quando lo fa espressamente.
Nel diritto canonico l’eresia è giudicata un delitto suscettibile di specifiche sanzioni, ma alle pene ecclesiastiche, stabilite da appositi tribunali inquisitoriali, si sono aggiunti, nel corso dei secoli, anche provvedimenti civili come l’esilio, la confisca dei beni e la morte. Infatti, la Chiesa affidava allo Stato quanti giudicava eretici affinché fossero puniti: da questo passaggio e dall’esercizio discrezionale da parte del potere civile dello ius gladi ne consegue che il delitto di eresia ha quasi sempre anche una dimensione politica. Con l’alleanza politico-religiosa stretta nel corso del Medioevo tra il potere imperiale e l’istituzione ecclesiastica l’eresia teologica fu equiparata al crimine civile di lesa maestà e gli eretici pertinaci cominciarono a essere condannati alla pena capitale per l’avvenuta sovrapposizione del dissenso religioso con quello politico.
L’intolleranza religiosa che ha contraddistinto l’atteggiamento del cristianesimo contro gli eretici si fonda, da un punto di vista teologico-scritturale, sull’interpretazione del passo evangelico della parabola della zizzania, simbolo tradizionale dell’eresia (Mt, 13, 24-30). Il testo evangelico afferma che i mietitori non avrebbero dovuto raccogliere e bruciare subito la zizzania, ma attendere il giorno della fine del mondo per evitare di sradicare insieme anche il buon seme. Tuttavia, il passo in questione ha avuto una duplice interpretazione. Quella maggioritaria, utilizzata per giustificare a livello evangelico la pratica repressiva e intollerante dell’inquisizione contro gli eretici, ha ritenuto che la zizzania fosse una mala pianta da estirpare con ogni mezzo senza attendere il giudizio universale. Una seconda lettura, proposta da quanti hanno provato a osteggiare il rafforzamento del potere inquisitoriale nel corso del tempo, ha sostenuto che gli inquisitori-mietitori avessero contraddetto l’ordine del padrone, volendo da subito riunire la zizzania in fastelli e appiccarle il fuoco, invece di tollerarla, come prescritto dalla parabola evangelica. Ovviamente, la pur rilevante questione dell’autentica interpretazione del testo scritturale per gli studiosi di storia ha un valore secondario; interessa piuttosto constatare l’esistenza e il conflitto di una pluralità di posizioni esegetiche differenti, ma anche il fatto che abbia quasi sempre prevalso l’interpretazione intollerante su quella tollerante, ragion per cui tanti individui, in età medievale come nell’evo moderno, sono stati costretti all’esilio, alla prigione, alla tortura e alla morte a causa dei loro convincimenti religiosi.
In età moderna gli eretici sono stati a lungo perseguiti dalla legge penale non solo quando l’autorità ecclesiastica coincideva con quella civile, come nello Stato pontificio, ma anche nei casi in cui i due ambiti, pur restando formalmente autonomi, stringevano patti di mutua collaborazione e assistenza fra loro. Ciò avveniva con l’obiettivo di ottenere un reciproco rafforzamento politico e istituzionale fondato sull’obbedienza del suddito-fedele in base alla dottrina della ragion di Stato. Siamo davanti a una storia plurisecolare conclusasi soltanto nel 1789 con l’affermazione della libertà di coscienza e di culto avvenuta con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino e, nella penisola italiana, con l’unità nazionale nel 1861, dopo la perdita del potere temporale da parte dello Stato pontificio. Ma la Chiesa cattolica, con Giovanni XXIII e il Concilio vaticano II, seppe recuperare il terreno perduto. In effetti, quel pontefice con l’enciclica Pacem in terris del 1963 stabilì una fondamentale distinzione tra l’eresia come dottrina che la Chiesa non può accettare («l’errore») e l’eretico («l’errante»), che deve essere considerato «sempre e anzitutto un essere umano», il quale «conserva, in ogni caso, la sua dignità di persona». Comunque un uomo, da riconquistare alla vera fede non con la coercizione e la forza della legge, ma con gli strumenti della persuasione e del confronto. Si trattò di un passaggio storico epocale, in cui forse per la prima volta in seno alla Chiesa cattolica il valore del dialogo interreligioso sostituì quello della lotta all’eresia.