Se c’è una cosa che dovrebbe essere evidente, dopo otto strazianti mesi di presidenza, è che Donald Trump non cerca consensi fuori dalla sua base e che la sua modalità operativa è quella di coltivare la propria improbabile e fragile coalizione nutrendola di spacconate e mosse dal valore simbolico notevole, ma lontane da quella che dovrebbe essere la politica dell’Amministrazione della prima potenza mondiale.
Il perdono allo sceriffo Joe Arpaio, terrore degli ispanici nella Maricopa County, Arizona, famoso per averli detenuti in tende nel deserto e altre amenità illegali, è un simbolo plastico di questo modo di operare. Così come lo sono il tentativo di cancellare il Dream Act o tutte le scelte fatte direttamente dalla Casa Bianca: il ritiro dagli Accordi sul clima di Parigi, il muslim ban, i transgender fuori dall’esercito (o la minaccia di rescindere l’accordo commerciale con la Corea del Sud in piena crisi nucleare). Una campagna cominciata rilanciando le fantasie sul certificato di nascita di Obama è cresciuta sulle gambe di coloro che pensavano che il presidente nero fosse un musulmano travestito. Ed è in fondo proseguita così. Questa scelta o questo istinto hanno pagato in campagna elettorale e stanno pagando tuttora con la base trumpiana. Ma sono un danno per la democrazia americana. Agli inizi di settembre sono stati condotti sette sondaggi sul gradimento nei confronti del presidente, il più positivo gli assegnava il parere positivo del 40%, il più negativo del 35%. La media della distanza tra chi approva e chi disapprova è del 17,5%. Un disastro. Gallup, che conduce indagini settimanali sul job approval del presidente, alla fine di agosto segnalava i seguenti dati per gli ultimi quattro presidenti: Trump 37%, Obama 52%, Bush 55%, Clinton 44%. Ricordiamolo: Clinton aveva vinto solo grazie alla candidatura dell’indipendente Ross Perot che prese il 19%, Bush veniva eletto dopo il recount in Florida in un clima da crisi costituzionale, Obama nel mezzo di una crisi catastrofica di cui la gente sentiva i morsi (ed è nero). Trump, che ha potuto beneficiare di un clima economico dignitoso se non buono, ha ottenuto più o meno i consensi che aveva Bush junior a fine mandato, con la crisi dei subprime in corso e dopo due guerre disastrose. Molto per merito suo e molto per effetto di un clima politico che proprio durante queste quattro presidenze si è deteriorato, rendendo le divisioni politiche nel paese quasi incolmabili. Trump alimenta questo clima e ha vinto proprio grazie a esso. Più impopolare di lui c’è solo il Congresso, da sei anni a questa parte a maggioranza repubblicana in almeno una delle due Camere.
Un sondaggio di fine agosto del Public Religion Research Institute (PRRI) conferma alcuni elementi già noti: i bianchi sono la colonna portante del consenso al presidente, una caratteristica di ciascuna coalizione repubblicana dopo la presa del Sud in seguito alle leggi sui diritti civili volute da Lyndon Johnson, ma in maniera più clamorosa. I bianchi approvano Trump al 48% (dato basso) e se non hanno studiato lo approvano di più (54%) e ancora di più se sono maschi ed evangelici. L’approvazione per Trump tra i maschi, bianchi ed evangelici è al 76%. Non male per uno senza Dio, divorziato, peccatore.
Proprio questo ultimo numero è illuminante di dove e come stia cercando di sopravvivere Trump. A Washington c’è un certo numero di figure della Amministrazione in carica che lavora giorno e notte per rendere i processi decisionali credibili, per trovare soluzioni all’im passe in Congresso su ciascuna materia importante: la distruzione di Obamacare, la riforma fiscale, l’approvazione dell’aumento del tetto di deficit necessaria per non andare in default, l’Afghanistan e la Corea del Nord o l’Iran, persino il muro con il Messico, che qualcuno dovrà pur pagare. Ma i vari Tillerson, McMaster e Kelly – che ha probabilmente contribuito al licenziamento di Steve Bannon e a cui “Time” ha dedicato una copertina e che come militare ha l’obiettivo di portare a casa risultati e far funzionare la macchina – non si stanno rivelando efficaci. Il loro mestiere consiste nella riduzione e nel contenimento del danno, specie in politica estera. Per il resto, l’ipotesi di uno staff che renda presidenziale ed efficace Trump e contribuisca così a far avvicinare una base elettorale moderata e/o indipendente – i registrati al voto come indipendenti sono la parte crescente dell’elettorato, non necessariamente moderati – per ora non sta funzionando. Con i suoi tweet, i suoi comizi e le sue conferenze stampa a lancia in resta contro i media, Trump azzera il loro lavoro, lo rende più difficile e inefficace dal punto di vista dell’opinione pubblica. Ma grazie ai riferimenti alla “Nostra storia” quando parla di monumenti del generale Lee, alla condanna della violenza “da entrambe le parti”, agli attacchi ai media, ai senatori del suo partito che gli votano contro, ai democratici, a Obama e a Hillary Clinton, Trump offre al suo pubblico ciò che vuole. Non gli interessa altro.
Torniamo agli evangelici per un momento: che tra questo segmento dell’elettorato, cruciale in alcuni Stati decisivi (Ohio e Florida, per dirne due) e non sempre solerte nel recarsi alle urne, il consenso sia tanto alto è indicativo. Ci sono alcuni passaggi popolari che rispondono alle loro esigenze politico-culturali come la nomina del giudice Gorsuch alla Corte Suprema, il muslim ban, non in chiave antiterrorismo ma antimescolanza, o il tentativo di bandire dall’esercito le persone transgender. Tutte scelte simboliche. Ma oltre a queste c’è Trump come l’ancora a un passato in cui quel gruppo si sentiva il centro, il cuore, la cultura degli Stati Uniti d’America. Una percezione fuorviante persino negli anni Cinquanta. Ma è di quelli, secondo un altro sondaggio del PRRI, che gli elettori di Trump hanno nostalgia. Due terzi della white working class ritiene che dagli anni Cinquanta a oggi la cultura e la american way of life siano deteriorate, il 48% si sente uno straniero in patria, il 68% ritiene che si stia perdendo l’identità americana e il 68% pensa che occorra protezione dalle influenze straniere. Secondo questo sondaggio e molte analisi lo slogan coniato dallo stratega di Bill Clinton, James Carville, “It’s the economy, stupid”, non vale più. O meglio, non basta a spiegare le cose, ma certo la perdita di peso relativo della white working class passa anche per la perdita di centralità economica, le proprie condizioni di vita e delle loro comunità peggiorate, l’epidemia di eroina e anti-dolorifici.
Ecco dunque che l’assenza di un’agenda coerente, il fatto che le prio-
rità dell’Amministrazione Trump siano tutte e nessuna, agitate dai podi virtuali o reali a seconda del luogo o del momento (o del news cycle), aspetto cruciale per la maggioranza degli americani a cui il presidente non piace, non conta. I sostenitori del presidente se ne infischiano dell’equivalenza tra i neonazisti di Charlottesville e i gruppi convenuti nella città della Virginia per contestarli. Non perché siano necessariamente razzisti o filo confederali, ma perché tra estremisti di destra e Black Lives Matters non fanno differenza. Quel che vedono è un presidente che difende monumenti che “ci sono sempre stati”, che si frappone tra loro e la storia che avanza e che non gli piace, che rompe le regole di un sistema che non li protegge e li ha visti decadere senza muovere un dito e, anzi, promuovendo la globalizzazione che ne ha spazzato via le certezze, quell’american dream che il presidente promette di ricreare dal nulla.
Il problema, per gli Stati Uniti e per noi, è che questa porzione di opinione pubblica è una minoranza ma ha un potere elettorale non indifferente, come dimostrano i 77.000 voti che hanno determinato il risultato elettorale del 2016 in Stati dove la loro presenza è forte ma che sono tradizionalmente democratici. Non sono estremisti dal punto di vista di ciò in cui credono, ma lo sono in termini di disprezzo per l’America composita, liberal e senza certezze assolute di Obama. Vedono come fumo negli occhi la coalizione democratica e temono di venire spazzati via assieme alle loro case nei suburb, le loro grandi macchine e i loro barbecue dell’estate nel backyard della propria casa. Come se l’altra America, quella che temono non facesse spesso le stesse identiche cose e non avesse le me desime abitudini. Accanto a questo pezzo cruciale ci sono i segmenti di destra-destra. Una galassia anche quella, che va dai militanti di Alt-right, i nostalgici della Confederazione, i razzisti a vario titolo, che sono andati a votare in questa occasione più che mai, e che hanno contribuito in maniera marginale a una vittoria imprevista.
Perché è più importante il consenso che permane a Trump di quello che continua a perdere? Perché, per le caratteristiche del sistema elettorale degli Stati Uniti, per la sinistra quella è una parte di elettorato determinante. E perché per darle delle risposte serve un ripensamento generale delle strategie e delle proposte da fare (oppure contare sulla catastrofe in corso come soluzione dei mali). Una cosa molto difficile per una coalizione elettorale fatta di giovani urbani e minoranze che in parte disprezza i minatori della West Virginia e la loro rozzezza o insensibilità su temi come il riscaldamento climatico, i diritti dei gay, il comportamento della polizia nei confronti delle minoranze.
Quei bianchi sono uno specchio per la sinistra, per quanta diffidenza culturale, quanto razzismo atavico, quanta disillusione o fatica ci siano. Con Obama la sinistra è stata per molti aspetti un corridore veloce, che guarda avanti a un traguardo lontano e non si rende conto che una parte della sua squadra di staffetta è per terra e non ce la fa ad alzarsi. Il problema, per quella parte vincente di corridori, è che per vincere serve che al traguardo arrivi anche quella schiappa ignorante e sovrappeso.