Il costo della democrazia

Di Giuliano Amato Giovedì 03 Maggio 2012 11:38 Stampa



La democrazia americana sembra aver perso la bussola da quando la Corte Suprema ha consentito a chiunque, società commerciali e istituzioni finanziarie incluse, di finanziare senza limiti le campagne elettorali. Una legge del Congresso aveva saggiamente stabilito un tetto, per evitare o quanto meno limitare gli effetti di condizionamento insiti in contributi privati troppo elevati. Ma la maggioranza conservatrice della Corte ha voluto leggere in quel tetto un limite alla libertà di manifestare e far valere il proprio pensiero. È vero che negli Stati Uniti è sempre stato difficile capire se e quando gli eletti si rifanno alla volontà dei loro elettori o a quella dei principali finanziatori delle loro campagne, perché i meccanismi misti di finanziamento elettorale e il peso che in esso avevano anche prima poche centinaia di grandi società avevano di già creato una permanente zona grigia. Ma ora ogni equilibrio si è rotto e la democrazia è interamente affidata da un lato alla trasparenza e dall’altro alla capacità degli elettori di trarre le necessarie conseguenze da ciò che ne ricavano. Il cattivo esempio americano sembra essere lontanissimo dall’Italia, eppure la bussola la stiamo a nostra volta perdendo per la crescente ostilità nei confronti dei contributi pubblici ai partiti, con il rischio di arrivare al limite a esporli a una situazione analoga a quella d’oltreoceano. C’è però fra i due casi una profonda differenza: a mettere la politica americana nelle mani degli interessi forti è stata una decisione giudiziale francamente estrema, che potrebbe trovare per ciò stesso dei robusti antidoti nel corpo elettorale. Ad arrivare in Italia al punto a cui siamo arrivati in tema di finanziamento ai partiti ha contribuito una lunga storia, nel corso della quale la politica ha dato ben più di una mano alla crescita della sua più corrosiva antagonista, l’antipolitica, confermando la diagnosi che fa di questa non un nemico venuto da fuori, ma il viso deformato di una democrazia malata.

È inutile rifarla qui questa lunga storia. Conta essere consapevoli che la comprensione dell’opinione pubblica per un sistema di rimborsi delle spese elettorali intrinsecamente costruito come un aggiramento del referendum contro il finanziamento dei partiti (giacché i rimborsi superano di gran lunga quelle spese e intendono in realtà coprire le spese di funzionamento degli stessi partiti) era destinata a esaurirsi col sopraggiungere di una fase difficilissima della vita del paese, nella quale ogni sacrificio imposto ai cittadini è confrontato da loro con le spese a cui i loro soldi possono risultare destinati.

La ragione della spending review, della riduzione dei costi della politica, dei contributi di solidarietà sulle pensioni più alte è in primo luogo qui, e innanzitutto si lega al soddisfacimento di una primordiale e irrinunciabile esigenza di giustizia distributiva. Occorre dar ragione plausibile di ciò che si spende, e occorre farlo prima che l’onda dell’antipolitica sommerga tutto e tolga spazio alle ragioni plausibili.

Il tempo è poco e va utilizzato, con umiltà, ma anche con fermezza, per difendere con argomenti difendibili le ragioni della democrazia e per mettere in luce con la forza che meritano i rischi a cui si va incontro se si rinuncia all’indipendenza di coloro che ti rappresentano a beneficio inevitabile di coloro che non ti rappresentano. Il tutto senza il timore di ammettere gli errori commessi, con la necessaria consapevolezza di dover ricostruire, al più presto, un rapporto di fiducia tra governati e governanti.

In questo contesto il finanziamento dei partiti va presentato per quello che è. Di sicuro ne va resa trasparente e trasparentemente controllata la gestione, ma ne va ridefinita la dimensione in termini che già di per sé lo sottraggano alle campagne del populismo. Ancor meglio se, in questa ridefinizione, c’è un equilibrato concorso fra pubblico e privato capace di dare un carattere anche volontario al costo della democrazia.

Ma se contano molto le tecniche e i limiti del finanziamento, è chiaro che qui sotto c’è anche un’altra questione, quella del complessivo rapporto fra i partiti e quei cittadini di cui essi dovrebbero essere lo strumento e che ciclicamente i cittadini finiscono per vedere invece come controparti, come maître della vita di palazzo. Guai se questo accade, come sta accadendo, in un tempo di crisi, perché nelle crisi cresce la rabbia e la rabbia è sempre una cattiva consigliera. Ma non la si placa se non se ne capiscono i motivi e non le si oppongono, insieme, le ragioni della ragione e le ragioni della giustizia.

È sgradevole allora quanto sta accadendo sul tema dei finanziamenti dei partiti, ma forse per loro è un’occasione unica per riconquistare la fiducia di cui c’è bisogno. Certo devono essere all’altezza di un compito tanto difficile e di sicuro non lo è chi pensa di assolverlo con atti vistosi di piccola demagogia. Lo sarebbe di più chi enunciasse, tra le spese della politica, quelle necessarie a far partecipare i cittadini alla elaborazione delle proprie posizioni e dei propri orientamenti. Vi si potrebbe leggere l’avvio di un ripensamento, la traccia dell’intento di far nuovamente percepire e vivere la politica come parte di un noi e non più come un mondo di altri.

Forse, seguendo alcune scelte chiare e trasparenti, saremmo sulla strada giusta, non solo per finanziare in modo più corretto i partiti, ma anche per guarire la nostra democrazia dalla malattia che induce a respingere con rabbia ogni forma di finanziamento.

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