Il finanziamento pubblico. Il bisogno di trasparenza La politica ha un costo. E soprattutto, ha un costo una democrazia in cui siano garantiti l’uguaglianza tra tutti i cittadini e il pluralismo delle idee politiche. Con quali risorse, allora, fare fronte a questi costi? E soprattutto, come garantirne un utilizzo trasparente?
Etica e politica La cronaca riferisce di un paese ancora una volta alle prese con una drammatica questione morale, che spinge ad invocare, ancora una volta, una migliore qualità etica della politica come elemento essenziale della vitalità di una democrazia.
Le inchieste della magistratura nei primi anni Novanta hanno fatto dimenticare le vicende di una stagione giudiziaria analoga, che venti anni prima ebbe un impatto simile sull’opinione pubblica ma non gli stessi effetti distruttivi sui partiti. Le ragioni del differente esito di questi due drammatici momenti della storia del paese vanno ricercati nel contesto internazionale: la fi ne della guerra fredda e la fi rma del Trattato di Maastricht furono infatti elementi determinanti nel consentire la disgregazione di un sistema politico già fragilissimo, ma a cui gli scandali degli anni Novanta hanno dato il colpo di grazia.
Caro finanziamento pubblico ai partiti, ti scrivo per rivolgerti la preghiera di aiutarci a liberarti dai tumori che ti deformano e a difendere la tua essenziale presenza in una democrazia paritaria e progressista. Certo, scriverti e scrivere di te di questi tempi e in Italia impone in primo luogo di stare lontani da un populismo stantio e putrescente non meno della partitocrazia. Anzi, l’uno e l’altra reciprocamente si alimentano, a volte persino si confondono in una miscela inquietante, come insegnano il triste epilogo della parabola leghista e l’intera storia degli ultimi vent’anni.
La necessaria esistenza di un finanziamento pubblico come garanzia minima di uguaglianza delle chances di partecipazione di tutti alla vita politica non può non vedere oggi un favore per un finanziamento privato della politica nel mercato delle idee. Questa scelta, comune a tutte le maggiori liberaldemocrazie, può trovare pieno senso, però, soltanto se, da un lato, si avrà il coraggio di dare una disciplina giuridica ai partiti politici e, dall’altro, sarà intensifi cato e molto migliorato il regime dei controlli al loro interno, incentivando del pari tutti gli strumenti e le politiche proprie di un’etica pubblica, nello spirito di una democrazia autenticamente aperta, trasparente e poliarchica.
Le notizie relative alle gravi irregolarità rilevate nell’utilizzo dei finanziamenti erogati dallo Stato ai partiti e la scoperta, negli stessi giorni, di gravi casi di corruzione hanno portato a confondere due fenomeni che sono distinti ma collegati fra loro, soprattutto per il danno che arrecano al rapporto di fiducia che è necessario si instauri fra i cittadini e i loro rappresentanti. Allo stesso modo andrebbero perseguiti contestualmente gli sforzi per individuare rimedi a ciascuno di questi problemi, nell’ambito di una comune strategia di ripristino dell’etica pubblica.
Nella visione cristiana, in cui la spiritualità non si astrae dalle vicende della storia, fra gli elementi del binomio etica e politica, si inserisce una terza realtà: la fede. Pur nella consapevolezza che essi non sono suffi cienti a esaurire la complessità del rapporto fra le componenti di questo trinomio, può essere utile riflettere su tre principi – il principio personalista, quello di autonomia e quello di solidarietà – che bene rappresentano il loro intrecciarsi.
Un intero ceto politico è oggi delegittimato dal sospetto che la politica tutta sia il terreno preferito di coltura di una pratica di abusi e ruberie, alfine soprattutto di un arricchimento personale o della propria famiglia. Debole e sfiduciato, esso si è quindi consegnato a un governo tecnico, condannato all’afasia politica e rassegnato all’incapacità di contrastare l’offensiva liberista.
La democrazia gode di buona salute se è animata da ambizioni storiche di giustizia sociale, di libertà individuale e di partecipazione collettiva. Se il ceto politico manca di tali ambizioni e si ripiega su interessi privatistici, personali e di partito, è segno che la democrazia sta degenerando.
Il paese è attanagliato da una questione morale dalle radici profonde e antiche. Essa non riguarda solo la classe politica ma tutte le élite, le classi dirigenti italiane affette da quella ipocrisia e vanità che sono le vere radici della dilagante mancanza di morale. In primo luogo ne sono affetti gli intellettuali, che hanno tradito il proprio compito fondamentale: trasmettere ai giovani, non solo attraverso l’indignazione, il valore della responsabilità personale e della coerenza tra ciò che si proclama e ciò che si fa in ogni ambito dell’agire.
Pur riconoscendo che spesso la pratica politica si traduce in una lotta per la conquista del potere non bisogna cedere all’idea che sia possibile e giusta una politica slegata dall’etica. Signifi cherebbe cadere nel cinismo, a cui le moderne società, complesse e multiculturali, possono opporsi attraverso l’introduzione di strumenti di controllo e informazione e l’attiva partecipazione dei cittadini.
Se l’etica è l’espressione di un immanentismo puro, o, ancor di più, di un edonismo diffuso impegnato ad adattarsi al mondo così com’è, senza costringerlo con la brutalità del progressismo occidentale, essa incarna l’essenza del vivere insieme della comunità nel presente, il senso del legame civico postmoderno.
È un’ingenuità pensare che, per la prima volta nella storia, nelle sommosse della Primavera araba ci sia stata una prevalenza degli strumenti della comunicazione, social network soprattutto, sulla politica. Al contrario siamo di fronte a una lunga estate salafita che ha trasformato il collasso violento di quei regimi in un paradossale pericolo per i cristiani.
La Primavera araba ha portato le forze politiche dei paesi interessati dalle rivolte a confrontarsi con la fondamentale questione del significato che può avere la democrazia in un contesto islamico e di come agire per favorire lo sviluppo delle dinamiche democratiche in quell’area. È uno scenario inedito per il mondo arabo, in cui, per la prima volta, sono i protagonisti dell’Islam politico a dover cercare l’equazione tra Islam e democrazia.
Le prime elezioni politiche dopo la caduta dei regimi autoritari di Tunisia ed Egitto hanno portato alla ribalta esponenti dell’Islam politico, quali Ennahda e il partito Libertà e giustizia, braccio politico dei Fratelli Musulmani. Queste formazioni sono state premiate per la loro costante opposizione alle dittature, per il loro impegno sociale e per la loro capacità di parlare trasversalmente a classi sociali diverse. La transizione democratica in corso sarà il banco di prova della loro volontà e capacità di coniugare Islam e democrazia.
L’ideale di uno Stato islamico, ritornato al centro del dibattito in seguito alle rivoluzioni della Primavera araba, si richiama a un concetto controverso, che non ha un fondamento reale nel pensiero politico classico e, soprattutto, non essendo storicamente esistito alcuno Stato islamico, nessun modello del passato a cui richiamarsi. Questa ambiguità lascia spazio a una certa flessibilità nella sua pratica realizzazione. Si tratta allora di vedere se e a quali condizioni sia sperimentabile una versione islamica della democrazia.
Un ruolo importante nelle rivoluzioni della Primavera araba è stato svolto dalle donne, che ora stanno lottando, nei Parlamenti nazionali, affi nché vengano riconosciuti, oltre al principio di parità di genere, i più ampi e fondamentali diritti civili degli individui. È quanto, ad esempio, sta avvenendo in Marocco.
Nei paesi interessati dalla Primavera araba è ora in atto un complesso processo di ridefinizione delle norme e delle consuetudini che ne regolamentano la vita sociale e politica. In un’area che è tradizionalmente crogiolo di confessioni diverse e in cui l’appartenenza religiosa è elemento caratterizzante di tutte le relazioni sociali, il dialogo interreligioso diventa strumento essenziale per la definizione di un concetto di cittadinanza condiviso da tutti.
In Iran si è verificata un’inedita fusione tra rivoluzione e religione. E ciò grazie allo sciismo, che è una religione per sua natura contestatrice e non necessariamente conservatrice. La forma che il regime ha assunto negli anni non può però essere definita pienamente teocratica, tanto meno essa può essere annoverata fra le democrazie, malgrado l’Iran presenti elementi di entrambi i modelli.
Con l’affermarsi, nei paesi coinvolti nella Primavera araba, di partiti di matrice islamista, da più parti si è indicato nella peculiare esperienza turca un valido modello di conciliazione di istituzioni e pratiche democratico-liberali con la partecipazione di forze legate al precetto religioso islamico. È, quella turca, un’esperienza che è possibile esportare anche altrove? O non è piuttosto il frutto della peculiare esperienza dell’AKP e della leadership di Erdogan?
Il movimento rivoluzionario siriano è composto da una galassia di gruppi e comitati che poco hanno a che fare con la tradizionale opposizione siriana. Le loro rivendicazioni nascono da un’esperienza quotidiana fatta di violazione dei diritti umani e civili, di mancanza di libertà e di oppressione poliziesca. Giovani, uomini e donne, esperti fruitori della rete, anche quando hanno alle spalle un background fortemente religioso, non hanno fatto dell’Islam politico la loro ideologia di riferimento.
La Siria di Assad non è un paese laico nel senso che in Occidente si dà a questo termine, in quanto la religione è sempre stata usata a benefi cio del governo. Quanto accadrà all’indomani della fi ne del regime non è facilmente prevedibile: uno sviluppo in senso islamista è improbabile, ma le tensioni fra i diversi gruppi etnici, sociali e religiosi potrebbero sfociare in confl itto. Questa prospettiva è tutt’altro che ineludibile. In fondo, i siriani per secoli hanno dimostrato di saper convivere pacifi camente.
Oggi come negli anni Trenta del secolo scorso, di fronte alla peggiore recessione mai conosciuta, ci si chiede se quella che stiamo vivendo sia la crisi fi nale del capitalismo. È probabile che, come già avvenuto allora, il capitalismo supererà questo momento diffi cile, ma non è affatto detto che esso sarà in grado, superata la tempesta, di garantire una fase di crescita e benessere diffuso come quella del secondo dopoguerra.
Farà forse sorridere qualcuno il risultato di un test elementare. Si prenda un catalogo bibliotecario italiano online e si digiti nel campo della ricerca per soggetti il termine “nepotismo”. Compariranno molti risultati, nella quasi totalità attinenti alla dimensione storica del fenomeno, in primo luogo legata alla vicenda del papato. Compiere la medesima operazione su un catalogo anglosassone rivela invece il contrario e un predominio dell’interesse per gli sviluppi della pratica nella contemporaneità. Perché questo avviene? Una diversa coscienza del passato… oppure del presente?