Domande ancora senza risposte

Di Alfredo Reichlin Venerdì 01 Febbraio 2002 02:00 Stampa

Col congresso di Pesaro abbiamo compiuto il primo passo di un lungo cammino. Siamo usciti dall’incertezza e dalla confusione. Abbiamo fissato alcuni punti fermi. Dobbiamo adesso affrontare le ragioni più di fondo di una situazione che vede troppo indebolita la nostra capacità di coalizzare il complesso mondo che si oppone alla destra. E ciò per tante ragioni (errori, divisioni: si può elencare) ma soprattutto per una che a me sembra fondamentale e sulla quale mi piacerebbe molto discutere. Noi non riusciamo ancora a collocare la sinistra di governo in un orizzonte storico (storico, non ideologico) tale per cui si cominci a vedere il profilo di un soggetto politico davvero nuovo, più largo, che ritrova capacità di guida e di unificazione non solo per la forza dei suoi programmi – cosa essenziale – ma del suo pensiero, del suo progetto di futuro. Un nuovo pensiero riformista paragonabile per la sua forza a quello che si espresse nell’invenzione dello Stato sociale.

 

Col congresso di Pesaro abbiamo compiuto il primo passo di un lungo cammino. Siamo usciti dall’incertezza e dalla confusione. Abbiamo fissato alcuni punti fermi. Dobbiamo adesso affrontare le ragioni più di fondo di una situazione che vede troppo indebolita la nostra capacità di coalizzare il complesso mondo che si oppone alla destra. E ciò per tante ragioni (errori, divisioni: si può elencare) ma soprattutto per una che a me sembra fondamentale e sulla quale mi piacerebbe molto discutere. Noi non riusciamo ancora a collocare la sinistra di governo in un orizzonte storico (storico, non ideologico) tale per cui si cominci a vedere il profilo di un soggetto politico davvero nuovo, più largo, che ritrova capacità di guida e di unificazione non solo per la forza dei suoi programmi – cosa essenziale – ma del suo pensiero, del suo progetto di futuro. Un nuovo pensiero riformista paragonabile per la sua forza a quello che si espresse nell’invenzione dello Stato sociale. Io questo non lo vedo ancora. Penso perciò che è tempo di ridefinire il riformismo come la risposta non solo a Berlusconi ma a ciò che ci chiedono le generazioni del Duemila. E che sono domande nuove, anche drammatiche, di libertà, di sicurezza, di giustizia. Domande di una dimensione della politica. Che succede se a queste domande non rispondiamo noi con un progetto di europeizzazione dell’Italia essendo questo il solo modo per difendere il suo potenziale umano e il suo patrimonio civile ed economico? Succede quello che già vediamo. Che risponde la destra con un modello autoritario in cui populismo e nazionalismo beceri («Dio stramaledica gli inglesi!») si associano alla difesa corporativa di un capitalismo straccione.

Guardiamo bene in faccia la realtà e chiediamoci perché non riusciamo ad incidere più di tanto sui processi reali. Le risposte sono tante ma la verità, al fondo, è che questi processi sono sempre più determinati da quel fenomeno grandioso che chiamiamo globalizzazione. In conseguenza del quale non solo cambiano i poteri, i bisogni, e le aspettative, ma sono venuti meno (e non da oggi) i vecchi strumenti dell’agire politico della sinistra: la moneta nazionale, le funzioni redistributive dello Stato, l’economia pubblica, quel confine nazionale che solo, finora, ha garantito al cittadino la rappresentanza politica e il sistema dei doveri e dei diritti. Ricordo queste ovvietà anche nella speranza che si ponga fine a questo continuo pentirsi, flagellarsi, chiedere scusa, per poi cambiare quasi niente. Perché se l’opposizione non è ancora abbastanza forte e incisiva contano certamente i nostri errori e le nostre divisioni, ma non si tratta solo di questo. La ragione ultima della nostra relativa perdita di centralità, sta nel fatto che non riusciamo ancora a prendere le misure di quella che è la forza vera della destra, che è – mi si perdoni la battuta – anche, se non soprattutto, la forza di un pensiero. Sì, non solo i soldi e gli «affari» del signor Berlusconi ma un pensiero a suo modo forte, il quale di fronte allo squilibrio crescente tra la potenza dell’economia, dell’informazione, della scienza che scavalca il potere degli Stati e della politica, e quindi il potere di far valere diritti uguali, equità sociale, interessi collettivi, dice una cosa semplicissima: la politica non serve, la società non esiste, ci sono solo gli individui, non resta che puntare sul successo individuale (che poi non è misurato da altro che non sia il denaro). E perciò fatevi governare da chi ci sa fare e chiede il consenso non per partecipare a un disegno comune ma per affermare la libertà come libertà dai lacci della statualità e dai vincoli dell’obbligazione sociale.

Se la sinistra non si mette in grado di collocare la sua azione al livello di questa che è la grande ingiustizia ma anche la grande contraddizione del nostro tempo: da un lato la potenza dell’economia che si mangia il potere della politica in quanto libertà uguale e interesse generale, ma dall’altro il fatto che la società non può essere ridotta a società di mercato senza creare problemi insolubili di governabilità ed effetti catastrofici anche morali, di perdita di identità; se – voglio dire – la sinistra non si pone su questo terreno, e non a chiacchiere (dibattiti, convegni), ma liberando forze, mobilitando interessi, mondi, bisogni, movimenti reali, essa si condanna a un ruolo subalterno: l’ospedale che cura nella misura del possibile gli eccessi di crudeltà della destra.

Vorrei ricordare a questo nostro mondo di partitini, che rappresentano ormai solo i frantumi di quella grande organizzazione autonoma dal potere dominante che fu la vecchia sinistra, quale enorme potere di condizionamento è insito nell’esplosione delle comunicazioni e nella loro pervasività. Si è scatenata una forza inaudita e quindi un potere tale che può ormai «colonizzare» i mondi vitali, le identità degli individui e dei luoghi che hanno fatto finora la diversità del mondo. Una forza che investe direttamente e quasi senza mediazioni l’esperienza della vita quotidiana. Ma che al tempo stesso trae alimento non dall’omino di Charlot costretto a ripetere sempre gli stessi gesti ma dalla creatività di un lavoro sempre più intelligente, nonché di nuovi mercati che si creano perché la gente chiede beni non solo materiali ma che diano senso e significato alle loro vite. Qui sta la forza della destra, disporre di un potere più grande e più pervasivo del vecchio potere padronale di impadronirsi del surplus prodotto dall’operaio nella singola fabbrica. Ma qui sta anche la sua debolezza, a condizione che una nuova grande forza riformista comprenda che questo è diventato il terreno fondamentale dello scontro tra progresso e reazione. E quindi, su questo terreno, si riorganizza. È vero, quindi, che essere pro o contro la mondializzazione e l’economia della conoscenza è una sciocchezza. Ma questo non significa che la sinistra può accontentarsi di assistere agli eventi, aspettando che si formi non so quale «governo mondiale». Significa invece che si vince o si perde se si riesce o meno ad impedire che la grande trasformazione in corso si avviti in una spirale di nuove ingiustizie e soprattutto in un impoverimento complessivo delle relazioni sociali, e quindi della democrazia. Ecco perché io sento la necessità vitale per la sinistra di tornare ad impegnarsi per la ricostruzione delle identità collettive. Perché questa è l’arma senza la quale è impossibile vincere questa nuova guerra per il controllo di una mutazione, qualcosa di più di una modernizzazione, la quale investe il mondo di tutti e la vita di ciascuno. Non si tratterà di rifare i partiti di prima ma certo di creare luoghi all’interno dei quali sia possibile mettere gli uomini in relazione tra loro, vincere l’esclusione, motivare la militanza e organizzare forme di mobilitazione sociale, dare senso e gambe ai progetti.

Il progetto di cui abbiamo bisogno è questo. Non un «dover essere» ma un pensiero, un linguaggio e al tempo stesso un soggetto politico organizzato capace di incarnare nel suo stesso modo di essere questo progetto. Mi permetto di ricordare – se vogliamo capirci meglio – che il grande disegno togliattiano (la «democrazia progressiva» come via per allargare le basi di massa dello Stato e cambiare le vecchie classi dirigenti, e una Costituzione scritta dalle grandi forze escluse dal Risorgimento: cattolici, socialisti, comunisti) fu realistico e mobilitante in quanto si materializzava in due cose: il «partito nuovo» cioè quel partito di popolo, quella «giraffa» mai vista prima, che di per sé realizzava una nuova integrazione sociale e la promozione dei proletari italiani da «sovversivi» a cittadini. E, in più, una nuova cultura (quella di Gramsci, De Sanctis, Labriola) che dava «senso» alla politica in quanto la collocava in una grande narrazione, in un’idea del problema nazionale, in una prospettiva storica autonoma rispetto a quella delle vecchie classi dirigenti. Chi scrive sa benissimo che quella esperienza appartiene al mondo di ieri e non è più proponibile. E tuttavia c’è di che riflettere se pensiamo alle vicende di questi anni. Non era obbligatorio che questi fossero gli anni in cui si è fatto di tutto per delegittimare i partiti e per ridurre la partecipazione democratica al «sì» o «no» a un quesito referendario. Non era inevitabile che le campagne elettorali si riducessero a una gara tra chi compra più spot pubblicitari. Non è stato solo colpa della destra se l’asse di governo si è spostato dal rapporto cittadini-Stato a quello gruppi di potere neo-individualismo rampante e presidenzialismo carismatico.

Ecco quindi la mia domanda, non impaziente, perché conosco l’estrema difficoltà dell’impresa, ma esigente. La sola analisi dei problemi e delle sfide del mondo nuovo non può più bastare. Ormai sono anni che ripetiamo tutti le stesse cose. Che cosa ci impedisce di ricavare da questa analisi un grande progetto? La mia risposta (o almeno il dubbio che sollevo) è che a Pesaro abbiamo fatto un passo avanti ma non abbiamo fatto ancora quella scelta che a me sembra cruciale e che consiste nello sforzo di dar vita a un soggetto politico nuovo. E nuovo perché la sua novità dovrebbe consistere essenzialmente nella capacità di darsi un pensiero autonomo rispetto a quello della destra, intendendo per destra – ripeto – non solo Berlusconi ma quell’insieme di forze reali e di culture (se è troppo dire «pensiero unico» diciamo lo spirito del tempo) che ha governato il mondo nell’ultimo decennio. A cominciare da quell’idea grandiosa secondo la quale il crollo del comunismo segnava una sorta di «fine della storia», cioè dei grandi conflitti e delle alternative pensabili. E che la missione dell’Occidente, concepita addirittura come missione di civiltà, diventava quella di creare un solo mercato globale in cui capitale, risorse naturali, paesi diversi, lavoro umano non sono nulla di più che fattori di produzione finalizzati alla conquista di una produttività e di un profitto sempre maggiori. Parlo, quindi, di una sinistra, la quale, forte anche del fatto che questo lungo ciclo sembra ormai al tramonto, sia capace di produrre una proposta nuova di governo della mondializzazione. Il che significa, certo, come diciamo tutti, nuove istituzioni. Ma non solo. Più che a improbabili governi mondiali io credo alla necessità di mettere in campo nuovi soggetti politici sovranazionali, nuove forme di statualità (una Europa unificata: ma come?) che però siano capaci di produrre anche nuovi modelli sociali ed economici. Il che è impossibile senza strutture politiche diverse: molto più aperte e articolate, più luoghi di incontro tra movimenti diversi, e sopratutto più strumenti di lotta, e di lotta per nuovi beni e nuovi bisogni di libertà e di giustizia.

Noi siamo questo? Basta guardare come è fatta la nostra organizzazione ed elencare le infinite e in gran parte inutili cose di cui ci occupiamo ogni giorno, per rispondere. Ma non serve a nulla fare prediche inutili e anche ingenerose. Il problema è smetterla di cercare la politica là dove non abita più. Cioè dove essa si è ridotta a forza subalterna di un sistema (chiamiamolo neo-liberista) all’interno del quale la politica diventa un sottosistema specializzato e funzionale al fatto che, poiché le grandi decisioni vengono prese altrove, da grandi potentati spesso sovranazionali che i cittadini non conoscono, occorre preoccuparsi di mantenere in vita una struttura la quale sia in grado di garantire almeno una identificazione simbolica. E ciò allo scopo di costruire quel minimo di integrazione sociale e politica che è necessario per ridurre i rischi di una vera e propria disintegrazione dello spazio sociale.

Eppure, qual è la novità? È che sono i fatti, i grandi fatti che cominciano a dirci un’altra cosa. Ci gridano (ma noi li ascoltiamo o parliamo solo di querce, ulivi e margherite?) che in un mondo policentrico e culturalmente politeista non basta la potenza dell’economia. Diventa assolutamente necessario far leva sul rinnovato valore del contesto sociale in cui si svolgono i processi storici e sull’esigenza di tornare a dare un ruolo centrale alla politica e alle istituzioni politiche. I governi non bastano. Ci vogliono nuovi partiti più «sociali», e al tempo stesso più politici, meno nomenclatura dell’economico-corporativo. È vero che siamo in presenza di società che sono molto più di prima società di individui, ma dal momento che il capitale che alimenta lo sviluppo non è più tanto costituito dalle risorse fisiche, è dall’insieme dei rapporti personali e dai modi di vita che dipende la capacità di creare i nuovi beni e di metabolizzare le innovazioni tecniche e scientifiche. Insomma la politicizzazione delle società non è diminuita, anzi è cresciuta se non altro per il fatto che sulla scena arrivano sempre nuovi problemi che riguardano il destino della collettività umana.

Ecco perché una nuova sinistra diventa essenziale nell’era globale. Si tratta di ridefinire i beni comuni e le linee di evoluzione della società a fronte di fatti enormi la cui novità consiste proprio nel rimettere in gioco ben altro che i governi: l’evoluzione stessa della società umana e il suo destino (l’uso delle biotecnologie, le risorse naturali, la nuova governance sovranazionale, il capitale fisso sociale). Si tratta quindi di ridefinire i principi etici sulla base dei quali stare insieme e le nuove responsabilità verso la comunità. Altrimenti su che basi pensiamo di costruire una nuova sinistra? Su un accordo tra spezzoni di ceto politico? Del resto ricordiamoci che il capolavoro, davvero storico, della vecchia sinistra fu che inventò una dimensione del tutto nuova della politica e della cittadinanza: l’irruzione delle masse sul terreno dello Stato, i partiti come potenze politiche relativamente autonome dal potere economico. Fece davvero una nuova Costituzione. Se non noi sinistra riformista chi può fare oggi qualcosa del genere? Questa è la domanda, una domanda che in Italia può diventare, anzi sta già diventando drammatica. Perché ha ragione Alain Touraine quando osserva che due sono i fenomeni fondamentali del nostro tempo. Il primo è la rinascita della politica, dopo dieci o vent’anni di silenzio. Il secondo è la mancanza di strutture di «accoglienza politica», in particolare da parte della sinistra. Il punto – egli dice – non è il potere assoluto delle grandi imprese: il punto cruciale è il silenzio della politica, intesa non soltanto come «pensiero politico» ma anche come organizzazioni e partiti politici. Questo – aggiunge – è molto grave perché quando affiora una «domanda politica» che non trova una «offerta politica» corrispondente quasi certamente compare la violenza. Stiamo quindi molto attenti perché al di là di questo Welfare che non serve più ai poveri e agli esclusi e di questa socialdemocrazia indebolita, potrebbero sorgere vasti movimenti populistici di destra. In Italia un pericolo di questo genere non si è già profilato?