Il tradimento dei numeri indiscussi

Di Massimo Mucchetti Lunedì 26 Settembre 2011 17:39 Stampa
Il tradimento dei numeri indiscussi Illustrazione: Marina Sagona

Il culto delle proiezioni numeriche e delle statistiche, diffuso in ambito economico e sociale negli ultimi trent’anni, è servito spesso a camuffare dietro un’aura di attendibilità scientifica una deliberata mistificazione delle fonti. Una mistificazione finalizzata a placare le tensioni che scuoterebbero l’opinione pubblica di fronte a una più realistica consapevolezza del contrasto di interessi tra le diverse fasce della popolazione e tra nazioni ricche e povere.

 

Con la Grande Crisi dell’Occidente si è scoperto il tradimento dei numeri indiscussi nella rappresentazione dell’economia e della società. Cifre assolute e percentuali erano dilagate dai mezzi di comunicazione a circolazione ristretta, come i saggi degli studiosi e i rapporti delle banche e delle autorità monetarie, ai mezzi a circolazione di massa, come radio, TV e giornali. E dilagando senza filtri critici, questi numeri hanno alimentato il Grande Inganno. Un amaro risveglio fa ora capire quanto fosse ottimistica la percezione della propria ricchezza, che l’Occidente traeva da tante statistiche, e quanto fosse pericolosa l’idea, coltivata per vent’anni anche dalla sinistra europea abbagliata dalle quantità senza qualità, che il secolare conflitto tra capitale e lavoro potesse finalmente esaurirsi nello sviluppo senza fine della produttività a beneficio di tutti, anziché richiedere forme sempre nuove di provvisoria composizione nelle aziende e nella società.

L’uso crescente dei numeri negli studi e nell’informazione ha per lungo tempo costituito la reazione sana e moderna di chi vuol parlare di economia e di società, avendone misurato i fenomeni in modo condiviso e verificabile, al pressapochismo pseudo umanistico di quanti – e in Italia sono stati a lungo troppi, specialmente tra i politici – parlano delle stesse materie senza fare la fatica einaudiana di conoscere per deliberare. I numeri non devono sempre essere esibiti. Talvolta possono restare sottintesi. La lunga lettera a Palmiro Togliatti, che nella primavera del 1947 Raffaele Mattioli scrisse con la collaborazione di Giovanni Malagodi, futuro leader del PLI, non porta cifre a conforto della raccomandazione al PCI di collaborare con i partiti moderati e l’imprenditoria migliore nel contrasto all’inflazione. E tuttavia a Togliatti non sfuggiva quanto fosse robusta l’analisi economica a sostegno di quell’amichevole consiglio. E pur non accogliendolo, fors’anche per il contemporaneo disfacimento dell’ultimo governo di unità nazionale, il leader comunista non cessò di frequentare il banchiere della COMIT che a sua volta, da liberale anarchico, non perse mai la speranza di influenzare l’insolito interlocutore. Ma negli ultimi trent’anni, al tempo dell’informazione economica di massa, l’utilizzo dei numeri, più o meno manipolati, diventa la forma contemporanea della retorica che conquista i tanti privi del tempo e del modo di discuterli.

A tal proposito verrebbe facile, in Italia, citare il cattivo esempio di Silvio Berlusconi, il politico che più di altri ha fatto carriera sparando cifre, non di rado false, per proporsi come “uomo del fare”. Oppure i cartelloni e le schermate di numeri chiave che affollano i talk show televisivi per riscattare a buon mercato l’incompetenza o la partigianeria di taluni celebri conduttori. Ma il Grande Inganno si nutre di manipolazioni numeriche assai più molecolari nell’esecuzione e mistificatorie nelle fonti.

Hanno libero corso nell’informazione, nell’argomentazione politica e perfino nella saggistica economica misurazioni ridicolmente inattendibili come quelle del World Economic Forum sull’efficienza e la correttezza dei sistemi paese o della Heritage Foundation sulla libertà economica, basate non sull’analisi di bilanci, situazioni regolatorie e produzione giuridica ma su questionari superficiali rivolti a campioni di intervistati ristretti e non verificabili. Per non andare lontano, ne risulta, per esempio, che l’Italia sarebbe più corrotta della Thailandia. Un dato palesemente falso ricavato da una statistica a suo modo vera. Perché è vero che gli intervistati italiani sostengono di avvertire il peso della corruzione più di quelli thailandesi: peccato che gli italiani, scelti in prevalenza nel settore privato e poco nazionalisti, non abbiano timore di dire la loro vivendo in democrazia, mentre i thailandesi, in gran parte legati all’economia statale, devono fare i conti con un regime monarchico condizionato dai generali. Risulta, inoltre, che in Italia la libertà economica sarebbe bassa, anzi bassissima, perché la cura della salute è affidata al Servizio sanitario nazionale e le pensioni all’INPS, invece che entrambe alle assicurazioni private, o perché i sindacati sono più diffusi che in altri paesi. Sarà un caso, ma quasi sempre si dimentica di ricordare come il Forum e la Foundation sono organizzazioni private, interpreti del Washington Consensus, e questa reticenza finisce per accreditare le loro sciocchezze di una terzietà che non hanno.

Ma anche le rilevazioni di organizzazioni pubbliche sovranazionali di ottima reputazione, come OCSE ed Eurostat, possono suscitare riserve. Due esempi tra i cento possibili: il prodotto interno lordo pro capite a parità di potere d’acquisto e l’incidenza della spesa pensionistica sul PIL. Senza disquisire delle metodologie, ricorderemo come, sulla base delle rilevazioni europee, pochi anni fa la Spagna aveva superato l’Italia e la Grecia stava per farlo. Chi non ricorda i dibattiti sul sorpasso che quei dati suscitarono tra gli economisti e i politici, nonostante l’incredulità dei viaggiatori che vedevano tutti e tre i paesi? La storia ha poi sancito che i turisti avevano gli occhi migliori, ma economisti e politici, e i giornalisti che facevano loro eco, sono sempre lì.

Nel mondo accademico e sui media – stampa, TV e internet, cambia poco – si dà per scontato che l’incidenza della spesa pensionistica italiana sul PIL sia quella rilevata da Eurostat. Sempre altissima, esagerata. Eppure, Eurostat non equalizza per complicate ragioni statistiche gli effetti fiscali sulle pensioni, che raffreddano i dati tedeschi e francesi, e conta a carico dell’Italia l’accantonamento al TFR, pur essendo il TFR salario differito e non contribuzione previdenziale. L’uso ignorante dei numeri – il Tesoro colloca il caso TFR soltanto in nota a una tabella, e solo da pochi anni – è strumentale alla polemica politica. Ma questo non lo redime dal peccato statistico e, peggio, inquina il confronto delle posizioni, favorendo gli interessi di assicurazioni e sindacati e dei loro fondi pensionistici integrativi.

D’altra parte, prima di scegliere tra governi liberisti o socialdemocratici, tra economia sociale di mercato e capitalismo anglosassone, sarebbe bene avere notizie complete e credibili. Esattamente quanto manca. Il debito pubblico elevato è un problema? Nessuno lo nega. Ma come lo si misura? Qual è la soglia oltre la quale prende corpo il rischio di insolvenza? E chi la stabilisce? Ancora di recente, un giornalista sofisticato come Bill Emmott, già direttore dell’“Economist”, scriveva di un debito pubblico degli Stati Uniti pari al 65% del PIL. È il dato che si legge in tante tabelle. Eppure questo è soltanto il debito del Tesoro federale allocato presso il pubblico. Il sito dello stesso Tesoro vi aggiunge gli intragovernamental debts. La Federal Reserve non considera questa seconda voce, ma nel Flow of Funds ne iscrive una terza, il debito degli Stati dell’Unione e degli altri emittenti pubblici locali. E noi, novelli San Tommaso, vorremmo mettere il dito nella piaga delle Government-Sponsored Enterprises, che finanziano l’edilizia per migliaia di miliardi di dollari: nell’Italia cattolica e permissiva, il risparmio raccolto dalle Poste e usato dalla Cassa depositi e prestiti rientra nel debito pubblico; negli Stati Uniti del rigore puritano, vengono contati nel debito pubblico solo gli scarsi versamenti del Tesoro in conto capitale a Fannie Mae, Freddie Mac e Ginnie Mae e quanto al loro enorme debito, pace.

E ancora: quanto pesa sul debito pubblico l’esposizione delle famiglie e delle imprese? Per trent’anni, non solo gli Stati Uniti ma anche l’Europa del Trattato di Maastricht hanno risposto in coro: non pesa nulla, i due debiti stanno in tasche diverse. La Grande Crisi ci ha ricordato che la giacca è la stessa e un peso troppo grande in una tasca, quale che sia, sforma comunque il capospalla. Nel calcolare il rischio implicito nel debito pubblico di un paese, si dovrebbero considerare anche le probabilità di dissesti nel settore privato poi bisognosi di interventi pubblici di salvataggio finanziati con nuovo debito pubblico. Ma di questo dettaglio le agenzie di rating non hanno mai tenuto conto fino a crisi inoltrata; solo ora cominciano, ma con un’infinita timidezza che li porta a lasciare la tripla A ai treasury bonds anche quando la Casa Bianca innalza il tetto posto dalla legge al debito pubblico americano. Ma per restare nel Vecchio Continente, come mai il debito pubblico spagnolo, basso ed eccellente per le agenzie, paga un premio di assicurazione contro il default maggiore di quello italiano, altissimo e di media qualità per le stesse agenzie?

Naturalmente, un’elevata ricchezza privata netta non costituisce una garanzia assoluta, come ha cercato invece di far credere il governo italiano pro domo sua. Se infatti un settore privato solido risolve da sé i propri problemi senza richiedere interventi a carico dello Stato (com’è invece accaduto in quasi tutti i paesi OCSE durante la Grande Crisi), la ricchezza privata non rimborsa il debito pubblico se non per modesti prelievi che si aggiungono alla tassazione dei redditi e dei consumi. Lo farebbe solo se i governi fossero disposti a varare imposte patrimoniali draconiane, tali da tagliare per decine di punti percentuali lo stock del debito pubblico. Ma questo, stando agli studi di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff sulla storia delle crisi, non è mai accaduto.

Del resto, anche i dati sulla spesa pubblica vengono usati in modo spesso mistificante. Anzitutto, secondo la saggezza convenzionale, una spesa pubblica abbondante rispetto al PIL frenerebbe lo sviluppo. Martin Wolf, sul “Financial Times”, ha dimostrato che non esiste una correlazione meccanica tra le due grandezze. Tutto dipende da come si spende e a quale fine. I paesi scandinavi hanno una spesa pubblica altissima, tassi di crescita del PIL elevati e un debito pubblico contenuto. Inutile. La saggezza convenzionale non si corregge. Ma poi la spesa pubblica andrebbe riconsiderata nel quadro degli impieghi generali della ricchezza generata dalla nazione di anno in anno. Prendiamo la spesa sanitaria. Sapere a quanto ammonta la spesa sanitaria pubblica in relazione al PIL e pro capite è certo interessante; il dato globale, comprensivo anche della spesa privata, lo è ancora di più. Questo dato esiste e ci svela che la spesa sanitaria globale americana è il doppio di quella italiana con una qualità media – sostiene il CERGAS della Bocconi citando l’Organizzazione mondiale della sanità – nettamente inferiore. Gli stessi conti andrebbero fatti per la previdenza e l’istruzione. E non si fanno. Insomma, l’incidenza della spesa pubblica sul PIL dice qualcosa, ma non abbastanza.

Ancor meno sappiamo della suddivisione della ricchezza. Per quanto si debba a un italiano, Corrado Gini, l’elaborazione del coefficiente della diseguaglianza usato in tutto il mondo, in Italia si approfondisce poco la materia, con la lodevole eccezione del Servizio studi della Banca d’Italia e, quanto alla ripartizione del valore aggiunto delle imprese principali, dell’Ufficio studi di Mediobanca. All’estero non va tanto meglio. I dati sono vecchi, incerti. Si vede lontano un miglio che non si investe in questo genere di ricerca. Ora, che a Goldman Sachs il tema non interessi va bene, ma perché le università europee non elaborano nulla di serio con tanti baroni di sinistra dentro e tanti governi socialdemocratici alle spalle? E perché leggi e principi contabili sono tali per cui i bilanci delle multinazionali dicono tutto del valore dell’azione e tanto nascondono sul lavoro? Eppure, sarebbe interessante rendere noto il costo medio diretto e indiretto di operai, impiegati e dirigenti paese per paese in assoluto e in relazione al fatturato, ai margini e agli investimenti relativi. Come verrebbe meglio il confronto tra FIAT e Volks - wagen! E quanto inciderebbe sulla qualità della lotta politica e sindacale!

Ma anche dentro il campo del capitale l’informazione è stata pesantemente distorta in questi anni a favore dell’uso e dell’abuso finanziario delle attività produttive. I principi contabili internazionali IAS-IFRS, con i quali si redigono i bilanci delle grandi corporation e delle banche, e gli schemi interpretativi degli analisti servono a facilitare l’aggiornamento continuo del prezzo dei titoli, magari con generosità, piuttosto che a mostrare il valore di fondo dell’impresa. Basterà ricordare le tre principali novità: a) l’abolizione dell’ammortamento degli avviamenti, il cui valore va invece ogni anno sottoposto a impairment tests fatti il più delle volte a uso e consumo degli amministratori; b) la contabilizzazione al fair value delle partecipazioni, che lega parti cospicue del bilancio alle oscillazioni delle borse; c) la disattenzione verso i debiti finanziari nell’informazione societaria e il corrispondente favore per la comunicazione della posizione finanziaria netta, che è la somma algebrica dei debiti e della liquidità più i crediti finanziari, dimenticando che i primi sono sempre certi e il resto no. Per ulteriori approfondimenti si rinvia al brillante saggio di Fulvio Coltorti sull’informazione finanziaria in Italia, pubblicato dall’Assonime in occasione del suo centenario.

L’abbiamo fatta lunga – e l’avremmo potuta fare lunghissima – ma in compenso la morale può essere breve: le stupidaggini del World Economic Forum e della Heritage Foundation, le difficoltà dell’OCSE e di Eurostat, l’imperialismo informativo americano sul proprio debito, le furbizie italiane sulla ricchezza privata, le amnesie generali sulla spesa globale, pubblica e privata, per i servizi alla persona, le reticenze sulla disuguaglianza dei redditi e i silenzi sul costo del lavoro e l’enfasi sull’informazione borsistica si spiegano con il timore delle tensioni sociali che deriverebbero da una più seria conoscenza del contrasto degli interessi tra poveri e ricchi dentro l’impresa e il territorio nazionale e tra le nazioni ricche e quelle che lo sono meno. Tradendo la loro naturale aura scientifica, i numeri prevalenti hanno dato l’illusione che il conflitto tra le classi e le grandi regioni del mondo avesse avuto fine con la caduta del Muro di Berlino. La Grande Crisi ha svelato il Grande Inganno.