Le mie scuole

Di Paola Mastrocola Martedì 24 Maggio 2011 17:23 Stampa
Le mie scuole Foto: sonobugiardo

C’erano i banchi di legno con il buco per l’inchiostro e la scanalatura per la penna. C’erano le penne col pennino, i pennini normali e quelli a forma di Tour Eiffel, beato chi li aveva. Se eri alto di statura andavi dietro perché i banchi dietro erano più alti, se no stavi davanti. | di Paola Mastrocola per la rubrica "Rivisitare l’Italia nei suoi 150 anni".


C’erano i banchi di legno con il buco per l’inchiostro e la scanalatura per la penna. C’erano le penne col pennino, i pennini normali e quelli a forma di Tour Eiffel, beato chi li aveva. Se eri alto di statura andavi dietro perché i banchi dietro erano più alti, se no stavi davanti. Io ero media, e stavo di solito al penultimo banco. Tra le mie compagne piccoline c’era Margheritina, che la maestra chiamava il ratìn, tanto era piccola. Infatti stava al primo banco. Ratìn in piemontese vuol dire topolino.

Il problema erano i grembiulini. Poteva anche sembrare tutto uguale, se non era per i grembiulini. Non è vero che le divise fanno da livella e rendono tutti pari. Non basta. C’è sempre quel qualcosa che fa la differenza. La stoffa, il modello, la spiegazzatura. Il modo di portarla, una divisa, non so. Il grembiulino era bianco per tutte, col fiocco blu. I maschietti, che entravano dall’altra porta del grande edificio, avevano i pantaloni corti grigi e la polo di lana blu con due ponpon al col - lo, anch’essi di lana blu. Ma noi femmine vestite di bianco non li vedevamo mai, i maschi, neanche in corridoio. C’era chi il grembiulino ce l’aveva arricciato in vita, chi dritto con due pieghe laterali. Io lo preferivo dritto perché snelliva, invece ce l’avevo arricciato. Margheritina aveva il grembiulino di un bianco sporco, grigiastro; e di una stoffina leggera che era sempre stropicciata. Poi, per di più, se lo macchiava d’inchiostro, sempre lì sul davanti come una medaglia enorme, di un blu che strideva e faceva voglia di guardare da un’altra parte. Evelina invece, che era la più bella della classe, aveva anche il grembiule più bello. Dritto, stirato che sembrava una tovaglia bianca delle feste dove ti vergognavi anche di appoggiarci un piatto. Bianchissimo. Non se lo macchiava mai.

Non sapevamo nulla di classi sociali, non capivamo niente di povertà e ricchezza. Avevamo sei anni… Eppure qualcosa passava. Qualcosa, stranamente, si percepiva. Evelina, ad esempio era bionda e aveva i capelli fini, soprattutto quelli sulla fronte, all’attaccatura, che erano più corti e sembravano delle piumette leggere che le facevano come un’aureola al viso. Margheritina invece aveva i capelli neri cortissimi, tagliati dritti al fondo come una scodella. Sempre unti che sembravano bagnati, una specie di cuffiotta nera pigiata sulla testa. Con la riga da una parte e una pinzetta di alluminio che glieli teneva tirati. Allora, il mistero era il seguente: come mai le macchie d’inchiostro sul grembiule se le faceva solo Margheritina, e mai Evelina? Più o meno inconsciamente m’ero fatta l’idea che chi è bello e biondo non si macchia mai, chi invece è già bruttino e ha il grembiule povero si fa le macchie blu orribili. Come se le macchie sapessero il ceto sociale e scegliessero loro dove andare, e fossero anche cattive perché andavano sempre da chi già era meno fortunato.

In realtà, non sapevo se Margheritina fosse povera. Ma ogni tanto, quando entrava la bidella a portare i quaderni del Patronato, li dava solo a Margheritina. Non sapevo cosa fosse il Patronato. Ma vedevo che quei quaderni non erano come i nostri: avevano la copertina molle e i fogli grigiastri come il grembiulino di Margheritina, e si scriveva male lì sopra, l’inchiostro sbavava. Cioè tu scrivevi giusto, normale, ma le letterine chissà come si allargavano, le linee che facevi si ispessivano, mettevano certi peletti intorno che non ci potevi far niente.

Meno male che io invece avevo i quaderni belli, dove si scriveva bene. A me piaceva tanto scrivere, mi piaceva il gesto, e mi piacevano i miei quaderni belli, anche se mi sentivo sempre in colpa. Avevo, scrivendo, un sottile pensiero grigio che mi attraversava come una nuvola, cercavo di scacciarlo via ma lui rimaneva sempre un po’. Scrivevo qualsiasi cosa ma, siccome non mi venivano ancora dei veri e propri pensieri, ricopiavo il sussidiario. Mi mettevo lì e ricopiavo sui miei quaderni lisci le pagine, una dopo l’altra (oggi direbbero di me: povera bambina, non ha fantasia! Ma la fantasia, secondo me, viene dopo, molto dopo…). Avevo anche i grembiulini belli, quasi come quelli di Evelina. Ma solo per il fatto che mia madre faceva la sarta ed era una bravissima sarta, e me li cuciva lei i grembiuli. Ecco perché li avevo belli.

Ho fatto le elementari dal 1962 al 1967. Ho avuto una sola maestra, per cinque anni. Aveva i capelli crespi che non le stavano da nessuna parte, grigio spento, una cartella di cuoio frusta, e due gonne e due maglie per stagione, che cambiava a turno ogni settimana. Per cinque anni. Aveva le sue cocche, e io non ero tra quelle. Non so quanti anni potesse avere, a me sembrava vecchissima, una specie di nonna che si regge per miracolo. Quando si metteva in piedi davanti alla cattedra e ci parlava per ore, avevo paura che di colpo cadesse, un tonfo sordo e noi che non sapevamo come rialzarla. Ci ha insegnato tutto quel che dovevamo sapere. Ad esempio com’è fatta una noce, e come si chiamano le varie sue parti. Ancora oggi, quando apro una noce, penso alla mia maestra vecchissima e dico piano tra me la parola “gheriglio”. Ci ha insegnato anche le foglie: a volte ce le portava in classe, di tanti alberi diversi, ce le faceva disegnare dal vero e ci diceva il nome delle piante. Ma, soprattutto, ci ha raccontato tutte le storie della Bibbia, ad esempio la minestra di lenticchie di Esaù, Mosè che quando passa si apre il mare, Giuseppe e il Faraone, le piaghe d’Egitto, Gesù nel deserto. A me piacevano soprattutto le storie di Giuseppe, mi sembrava un eroe e da grande volevo essere come lui. In prima media eravamo tutte ragazze.

Grembiule nero con il colletto bianco e calzettoni. Però io, come diceva mio padre, ero capitata male, in una sezione che era tra le ultime della scuola, la “H”, a metà dell’alfabeto... In 1aH la maggior parte delle ragazze portava già le calze di nylon, si laccava le unghie e in classe parlava di ragazzi e si pettinava con lo specchietto nascosto tra le gambe.

Io ero vicina di banco di una ragazza altissima, con i capelli lunghi biondo tinto e cotonati che sembravano una parrucca, e la bocca sempre col rossetto rosa lucido. Non mi piaceva tanto, era come avere per compagna una donna grande, una di quelle che vedevo al mercato a far la spesa. Parlava piemontese, e m’insegnò un sacco di parole piemontesi che non si potevano dire. Io le dicevo, e arrossivo senza capire cosa significavano, perché lei non mi spiegava mai niente, mi diceva solo di non dirle e che poi da grande avrei capito anche troppo.

In 1aH conobbi la professoressa migliore che ebbi mai. Insegnava lettere. Mi ricordo solo due cose di lei: che aveva un bellissimo paltò arancio di casentino, quella stoffa di lana spessa che fa i pìroli. E che era ironica. Credo di aver capito allora che cos’è l’ironia, e cosa vuol dire usare l’ironia. Era come se noi prima vedessimo le cose in un modo comune, poi invece entrava lei in classe e ce le rigirava dall’altra parte come un calzino frusto, o ci cambiava il panorama, o ci girava la testa all’inverso, non so. So che nulla era più come prima, se c’era lei in classe. Vedevamo il mondo in un altro modo, e a me piaceva quel modo perché mi sembrava di stare in alto e non più rasoterra insieme a tutti gli altri. Mi sembrava anche di essere solo io a capirla, e che tutte le altre invece continuavano a vedere le cose nello stesso modo perché a loro sfuggiva quella specie di segnale misterioso, quel lampeggio segreto tra una sua parola e l’altra che invece a me pareva chiarissimo e che era l’ironia. Era un po’ come se lei parlasse solo a me, e fu così che in un certo qual senso, se posso dire, me ne innamorai. Cominciai allora a scrivere, per innamoramento. A casa passavo il pomeriggio a scriverle lunghe lettere in cui le raccontavo tutti i pensieri che avevo e la ringraziavo perché mi cambiava così tanto la vita.

Passò l’estate e, quando tornai a scuola, lei non c’era più. Aveva chiesto il trasferimento. Fu il mio primo, grande dolore. D’altronde l’avrei persa comunque. Avevo infatti cambiato sezione perché la 1aH era stata dimezzata: le mie compagne, quelle che si truccavano in classe, erano state bocciate quasi tutte, e quindi noi sopravvissute fummo inglobate nella 2aC, che era una classe mista. Maschi e femmine insieme. I maschi erano vestiti come volevano, senza divisa. I più avevano il vestito da uomo, proprio come gli uomini adulti, giacca e pantaloni grigi o marroni o blu. Solo che i pantaloni erano tagliati al ginocchio. La sezione “C” era un’ottima sezione. La prof di francese era una signora anziana truccatissima, con un caschetto di capelli giallo polenta. Il cipiglio aggrottato. Severissima. Non volava una mosca, non arrivava una sufficienza. Faceva dettato in classe a sorpresa, interrogava chi voleva. Non ricordo abbia mai sorriso. Quando entrava in classe ci sentivamo gelare. Ci ha insegnato in tre anni (in tre anni!) un francese perfetto. Senza mai usare un registratore, un nastro, un video. Faceva solo, rigorosamente, grammatica. Dopo di lei, io sono stata in grado di leggere Proust, di vedere un film di Truffaut, di parlare con i francesi e di andare per negozi a Parigi. Il francese è stato, nella vita, la mia seconda lingua. E, decisamente, la mia felicità.

Di matematica avevamo un professore geniale e pazzo. Scontroso, scorbutico, aggrottato, sempre sporco di gesso, arruffato, spiegazzato, scuro in volto. Misantropo, credo. Sembrava perennemente arrabbiato con l’umanità intera, e quindi anche con noi. Non amavo la matematica, ci capivo poco e quando c’era compito in classe mi sentivo morire, toccavo con mano i limiti del mio intelletto. Eppure con lui sono arrivata ad avere 10 di matematica. Non so come, ricordo solo che aveva un metodo: ci istigava continuamente, facendo lezione, ad alzare la mano. Poneva un problema e ci diceva: adesso vediamo chi ci arriva. Ricordo sempre solo due mani alzate nella classe, sempre le stesse, ricordo la solitudine ammirevole di quelle due mani (erano dei due primi della classe, un maschio e una femmina), la gara tra di loro, il fatto che molto spesso ci arrivava solo uno dei due, il maschio. Era il più bravo, niente da fare. Scuro di pelle e di capelli, sardo, con gli occhiali spessi. Magro che sembrava spezzarsi in due quando si alzava dal posto. Ricordo che a volte, rare volte, mi accadeva di aggiungere la mia alle loro due mani alzate. Quando succedeva, mi sentivo un dio. Mi durava qualche giorno l’ebbrezza, pensavo di essere brava, e che era bellissimo essere brava, un regalo del cielo.

Infine c’era lui, il mio primo grande maestro: il prof di lettere che arrossiva spiegando Tasso e Leopardi e Dante. S’illuminava, si commuoveva leggendo poesie. Fuori, era il 1968. Con lui ho capito cosa avrei fatto nella vita: era una convinzione segreta, ma salda. Una cosa sempre saputa, che non c’era bisogno di dire. In quarta ginnasio solo alcune mantenevano il grembiule nero. Le più carine venivano in minigonna, jeans o hot pants con i collant. Dalla quinta ginnasio nessuna aveva più il grembiule, fine per sempre.

Al ginnasio la cattedra di lettere era di diciotto ore piene: cioè lo stesso insegnante ti faceva diciotto ore alla settimana, tra italiano, latino, greco, storia e geografia. Se ti andava bene, bene. Se no, era un inferno. Per me è stata una cosa media. Una professorina giovane e timida, con la vocina flebile, che arrossiva quando non sapeva una cosa. I miei compagni facevano apposta a farle domande per vedere che non sapeva. L’ora di “Promessi sposi” era lei che leggeva ad alta voce per un’ora di seguito. In compenso, avevamo una prof di francese straordinaria. Una donna affascinante, che ci parlava per ore (in francese) della letteratura francese: Baudelaire, Rimbaud, Balzac, Proust, Malraux, Gide, Sartre, Camus, Apollinaire… Ho letto allora solo autori francesi, per due anni secchi, di filato. Poi al triennio del liceo è successo questo: che su cinque insegnanti, ne funzionavano solo due. Cioè solo due insegnavano. Gli altri no, per varie ragioni. Ad esempio di storia e filosofia avevamo una vecchina piccolina, sarà stata alta un metro e quaranta, spiegava in piedi dietro la cattedra ed emergeva solo dal collo in su. Nessuno per tre anni la stette mai ad ascoltare, una pena! Sentivamo la radio in fondo, o giocavamo a carte o a battaglia navale, o pasticciavamo il diario di disegni e parlottavamo fitto tra di noi per due ore. Ogni anno andavamo in delegazione dal preside a chiedere che ce la cambiasse perché non sapeva insegnare. Non lo ottenemmo mai. Ci disse che era così da anni. E fu così anche anni dopo. Decenni e decenni in cui diverse generazioni di studenti andarono dal preside a chiedere la stessa cosa, invano. Ma soprattutto si faceva politica, allora. Erano gli anni Settanta, e alcuni prof al posto di far lezione ci parlavano di Mao e delle lotte operaie. Nessuno protestava, perché allora se non facevi politica ti facevano sentire un verme. Alla fine del trimestre questi insegnanti diciamo “politicizzati” facevano l’appello e a ognuno di noi chiedevano che voto si metteva in pagella. Io ero sempre incerta se sparare un 8, o stare sul 6 che faceva più “voto politico”. In genere dicevo 7, e mi tenevo la rabbia dentro, perché non mi pareva giusto che dovessi darmi il voto non avendo studiato niente. Così al liceo, per tre anni, per ragioni politiche e non, mi sono persa le seguenti materie: storia, filosofia, matematica, fisica, storia dell’arte. Sono cresciuta con questo buco di cultura che non mi pare indifferente. E non è vero che poi uno colma le lacune. Colma un corno! Le lacune te le tieni tutta la vita.

Invece di latino e greco avevamo una prof brava. Sapeva tutto. Ci ammazzava di voti bassi. Io prendevo perlopiù 4 o 5, raramente una sufficienza. Ma, siccome c’era chi prendeva sempre 2, non mi sentivo così incapace. E di italiano avevamo uno speciale, il mio maestro in assoluto. Ma di lui ho già parlato tanto altrove. Dirò solo questo: non ha mai fatto storia della letteratura, non ci ha mai detto neanche dov’era nato un autore e quali opere avesse scritto. Faceva una cosa sola: leggeva con noi, ad esempio Dante. E lo spiegava, da dio. Tutto qui.

Insomma, per tre materie su otto al liceo mi andò bene. Non so valutare se il bilancio possa dirsi positivo o no. Ho fatto l’università tra il 1975 e il 1980, Torino, facoltà di Lettere. Ho avuto molti maestri: Angelo e Stefano Jacomuzzi, Gian Luigi Beccaria, Giorgio Bàrberi Squarotti. Scrivevano grandi libri, erano dei letterati, alcuni di loro anche poeti.

Ma erano gli anni dei piani di studio liberi: voleva dire che potevi mettere gli esami che volevi, anche reiterare sempre gli stessi e altri non darli mai. Per me fu una festa: ogni anno ripetevo i miei unici amori: Letteratura italiana, Letteratura moderna e contemporanea, Teatro, Cinema, Storia della lingua, Storia dell’arte. Stop. Non ho studiato mai altro. Ho fatto un’università parziale e soggettiva. Sono stata felice per quattro anni, e ne sono uscita, nel 1980, decisamente ignorante.

La scuola italiana degli anni Sessanta e Settanta, ecco. Nel bene e nel male, queste sono state le mie scuole. Questi sono i miei fiumi, diceva Ungaretti…

Spesso, visto che ho scritto qualche libro sulla scuola, mi chiedono se ho fatto delle buone scuole. Molti credono di sì, lo danno per scontato perché, a partire da quel che scrivo, si sono erroneamente fatti l’idea che io sia un’inguaribile nostalgica, un laudator temporis acti. Naturalmente non è così. Non saprei proprio che cosa lodare delle mie scuole, né di cosa avere nostalgia se non delle persone, di quei due o tre “insegnanti magici” che nella vita ci è dato incontrare.

La verità è che non so mai cosa rispondere: non so se ho fatto delle buone scuole. Per questo le ho raccontate qui. Cercando di ricordare, più che di giudicare.

 

 


Foto di sonobugiardo