Con la separazione tra sapere e potere e il massiccio diffondersi della televisione, le democrazie odierne assomigliano sempre più a delle sondocrazie: tutto è lecito in nome del consenso, dell’“audience”, e l’unica verità che conta è quella dei sondaggi, del marketing. Tuttavia, nell’Italia berlusconiana e nell’Inghilterra di Murdoch si scorgono i primi segnali di un’inversione di rotta.
L’ingenuo ottimismo positivista che ha caratterizzato le prime esposizioni della seconda metà dell’Ottocento ha ceduto il passo ad un sentimento di sfiducia. L’expo non è più, quindi, sinonimo di progresso, ma piuttosto di ricerca di un rimedio a quegli eccessi che il progresso ha imposto come effetti secondari e di riflessione su un discorso complesso che non può esaurirsi nella semplice messa in mostra di una serie di oggetti. Per questi motivi l’idea stessa di expo ha bisogno di un profondo ripensamento.
Dalla nascita della televisione come servizio pubblico all’attuale epoca di integrazione dei media, il pubblico televisivo ha subito una trasformazione radicale, passando da mero fruitore ad artefice della programmazione, ad attore e autore delle trasmissioni. Si tratta di una rivoluzione che non ha travolto soltanto i mezzi di comunicazione ma la società intera. Come ha dimostrato la campagna elettorale di Obama, infatti, la generazione dei millennial non è disinteressata alla politica, come si crede comunemente, ma alle ormai anacronistiche modalità di partecipazione alla vita democratica.