Il campo ideologico della sinistra

Di Nadia Urbinati Venerdì 27 Novembre 2020 12:43 Stampa

 

In questo contributo vorrei cercare di delineare le coordinate del campo ideologico della sinistra nell’età del declino dell’ordine sociale e politi­co che ha accompagnato l’edificazione della democrazia costituzionale nel secondo dopoguerra e il protagonismo della sinistra. Per comodità di sintesi, denoto quell’ordine come “democrazia sociale”. Questa ha prodotto stabilità dinamica fino a quando è riuscita a tenere insieme l’eguaglianza sostanziale e l’eguaglianza politica, giustizia sociale e libertà. La sinistra del dopoguerra ha avuto centralità e consenso fino a quando è riuscita a imporre al regime economico proprietario di tollerare una relazione funzionale tra le due eguaglianze. L’esito è stato la promozio­ne di un benessere diffuso e l’effettiva partecipazione dei cittadini alla vita politica. Fino a quando non ci sono state disparità plurime e visibili tra le persone di capacità e di opportunità, queste due eguaglianze si sono intersecate, limitandosi e sostenendosi a vicenda. La democrazia sociale (elementi di socialismo nel regime proprietario) e la democrazia elettorale (divisione del lavoro tra partecipazione minima degli elettori e protagonismo degli eletti nelle istituzioni) hanno marciato insieme, rappresentate da due orientamenti ideologici (e partitici) che hanno de­finito i limiti del conflitto tra gli interessi e individuato compromessi ragionevoli, capaci cioè di mediare tra il benessere delle classi lavoratrici e gli interessi proprietari. Le due eguaglianze si sono limitate in corso d’opera in modo che nessuna delle due diventasse dominante: il riformi­smo socialdemocratico, con i programmi pubblici a sostegno dei diritti sociali, ha siglato il compromesso con il liberalismo dei diritti civili. La nostra condizione attuale non è più riconducibile a questo modello, né alla politica dei conflitti/compromessi che lo ha governato.

L’era presente è marcata dal divorzio tra le due eguaglianze. Un divorzio che compromette la funzione costruttiva e programmatica della politica, che consiste nel dar forma (istituzionalizzazione) alla materia (interessi e passioni). La politica, nell’età della fragilità dell’egemonia della narrativa ideologica della diseguaglianza moderata e tenuta sotto controllo costan­temente, si trova essa stessa sdoppiata; ritirata nella gestione delle istitu­zioni (classe politica) essa ha perso la capacità di coinvolgere i cittadini o, come si dice oggi, il popolo largo, i “molti”. A collegare rappresentanti e rappresentati vi è ora solo il momento del voto e la partecipazione elet­torale è l’unica espressione di volontà democratica, quella che accredita i decisori a svolgere il proprio “lavoro” delegato come in un qualunque altro settore. I cittadini firmano assegni in bianco e hanno poco potere di definire programmi elettorali, scegliere candidati e controllare o punire gli eletti che, tra l’altro, hanno in mano la gestione del sistema elettorale e dei loro emolumenti. La distanza tra rappresentanti e rappresentati non è più accorciata dall’appartenenza ideologica per la semplice ragione che quest’ultima è a tutti gli effetti niente altro che una sigla nel mercato dei voti, spesso una costruzione ad hoc da parte di individui che aspirano al potere. L’ideologia non unisce né divide perché non costruisce quel con­nettivo che fa sentire rappresentanti e rappresentati uniti in una visione comune e che genera quell’impalpabile fattore che si chiama rappresen­tatività. Si tratta di un sentire difficile da misurare (e che per questo non piace agli scienziati politici) e tuttavia orienta i nostri giudizi, attiva la nostra esigenza di conoscere e motiva il nostro partecipare prima e dopo il voto, con costruzioni rappresentative di rivendicazioni e di proposte.

Un esempio del divorzio nella politica tra “forma” e “materia” è il se­guente paradosso: il Ventunesimo secolo si è aperto con una serie inin­terrotta di dimostrazioni popolari di scontento (i girotondi, i vaffa days, le primavere arabe, Occupy Wall Street, gli indignados, i forconi, i gilet gialli, gli arancioni, le manifestazioni globali dei giovanissimi sul clima ecc.), eppure per designarle non si usa il termine conflitto; si parla invece di rabbia, odio, ribellione, sollevamento, rivolta. Il conflitto è il segno della capacità della politica di tenere insieme forma e materia. È infat­ti associato a contestazioni organizzate con una leadership riconosciuta (nei partiti o nei sindacati) e un andamento antagonistico/contrattuale finalizzato a ottenere un risultato: prove di forza calcolate, che pongo­no il problema di fronte all’opinione pubblica, incaricano una rappre­sentanza di portarlo all’attenzione delle istituzioni, provocano rotture ricomponibili o con nuove elezioni o con nuovi contratti di lavoro, op­pure con la cancellazione o la riforma di determinate leggi. Nella società democratica, il conflitto politico struttura sia la rappresentanza che la partecipazione; è come una strategia bellica che segnala all’avversario la forza potenziale di offesa o di resistenza, con l’intento di tenere aper­ta la possibilità di un accordo per ribilanciare le relazioni di potere tra due parti che, diversamente, sarebbero totalmente squilibrate e con scarsa, se non nulla, possibilità di dialogo. Chi nel regime proprietario ha più biso­gno della politica sono proprio i cittadini ordinari.

Scriveva Robert Michels più di un secolo fa che l’organizzazione è l’unica arma che i “molti” hanno nella loro lotta contro i “pochi”, i quali sono già organizzati strutturalmente (per interessi ma anche stili di vita e reciproco riconoscimento). Il parados­so è che l’organizzazione è anche lo stratagemma at­traverso il quale i “pochi” si appropriano della dire­zione della partecipazione dei molti, i quali hanno a questo punto due potenziali avversari: i “pochi” della parte avversa contro la quale si organizzano e i “pochi” dentro la loro stessa organizzazione, ovvero le élite che li dirigono sia assumendo la leadership del movimento sia educando le masse. Il XXI secolo si è inaugurato all’insegna della rivolta contro i “pochi” di entrambe le categorie: i ricchi e i potenti (l’oligar­chia) ma anche i leader di partito e, più in generale, i partiti stessi e gli intellettuali di riferimento (l’establishment). Le manifestazioni popolari di scontento sopra elencate sono tutte quante, benché per ragioni e con intenti diversi, forme di ribellione alla tradizionale funzione dirigente che i “pochi” sono riusciti per alcuni decenni a mantenere con il con­senso generale.

L’alleanza dei pochi e dei molti nello stesso campo ideologico (nel par­tito) ha coinciso con la funzione costruttiva della politica, il suo tenere insieme istituzionalizzazione e movimenti sociali, appunto forma e ma­teria. Il divorzio tra le due parti ha avuto effetti devastanti per la sinistra molto più che per lo schieramento moderato e conservatore. Infatti la sinistra non può proporsi come rappresentativa della sola eguaglianza formale (baluardo dei diritti civili) e nemmeno quindi di una conce­zione minima ed elettoralistica della democrazia (partecipazione come diritto di voto). Questo compito è meglio svolto dai partiti moderati o conservatori che non hanno bisogno di raccordare le due eguaglianze essendo i loro committenti cittadini liberi dal bisogno o benestanti. La sinistra non può svolgere solo il lavoro di gestione delle istituzioni. Non può coltivare solo la rincorsa al voto; deve essere in grado di organizzare la partecipazione e dare quindi motivazioni condivisibili, come appunto quella che consiste nel voler tenere insieme l’eguaglianza sostanziale e l’uguaglianza formale. Se lo Stato sociale universalista aveva consentito questo connubio nell’età della democrazia sociale, quale modello e cam­po ideologico spetta oggi alla sinistra delineare? Come tornare a dare alla politica la sua funzione dirigente del conflitto e delle istituzioni? Destino della sinistra e destino della politica stanno insieme.

Per sinistra intendo qui non tanto o solo un partito o dei partiti specifici, ma un campo ideologico, ovvero una concezione di società e di politica che fa perno sulla lotta alle diseguaglianze economiche e culturali, che sia in grado cioè di usare l’arma della politica per dare rappresentanza allo scontento sociale e per tradur­re le aspettative e i conflitti in proposte pragmati­che e decisioni. Il campo ideologico della sinistra deve tenere insieme conflitto e istituzionalizzazione come non ha fatto più da almeno tre decenni, dalla consunzione dell’ideologia classista. La sua credibi­lità o, per l’opposto, la sua perdita di legittimità si misurano in base a questa capacità.

A partire da questa premessa, la riflessione sulla pre­carietà del campo ideologico della sinistra attuale è una base di partenza. Tale precarietà si manifesta attraverso una catena di separazioni e di secessio­ni: tra dentro e fuori le istituzioni; tra benestanti e non; tra leadership politico-culturali e popolo; tra regioni del paese, tra luoghi territoriali e tra cittadini. Si manifesta in una semplificazione opposizionale, a trat­ti manichea, che genera a sua volta un linguaggio politico semplificato e vuoto di analisi, quello che dà ossigeno alle retoriche e alle strategie populiste di potere: il dualismo “pochi” e “molti” ha davanti a sé una prateria a causa del declino del campo ideologico della sinistra, della frat­tura tra le due eguaglianze e, come conseguenza visibile, dell’incapacità a considerare conflitto e istituzionalizzazione come due funzioni integrate, non alternative.

Il campo ideologico della sinistra ha il suo punto archimedeo nel­la lotta alla diseguaglianza, non tanto nella ricerca dell’eguaglianza. Come anche nella tradizione marxista, l’eguaglianza (mai livellatrice) è finalizzata sempre alla liberazione dal dominio e alla libertà come autogoverno dei processi sociali e politici. L’eguaglianza è dunque non tanto il nome di uno stato di cose quanto un termine che denuncia livelli insopportabili per lo Stato democratico di relazioni ineguali tra persone che sono uguali nei diritti e nella libertà di scelta; relazioni di diseguaglianza nella gestione del potere che ciascuno di noi dovrebbe avere di darsi obiettivi di vita e di partecipare ai processi decisionali. Ogni società genera diseguaglianza. E ogni società produce narrative per giustificarla e preservarla. Queste narrative sono l’ideologia. La trama della storia è raccontata dalle ideologie che genera. Istituzioni e ordini sociali, costituzioni e regimi sono tenuti insieme e in piedi dalle ideologie, scrive Thomas Piketty nel suo ultimo libro “Capitale e ideologia”. L’ideologia, nella tradizione althusseriana che riverbe­ra nel discorso di Piketty, è una narrativa che dà sistemazione alle relazioni sociali facilitandone la riproduzione nel tempo. I “regimi di diseguaglianza” durano fino a quando l’ideologia che li innerva circola nella società e come la moneta consente equivalenze e scambi tra beni altrimenti non comparabili. L’ideologia non è una menzo­gna né una strategia di nascondimento, ma la sostanza connettiva delle istituzioni politiche e sociali, le leggi e i linguaggi, le emozioni e le credenze. Non c’è una mente perversa dietro le cose e, secondo Piketty, neppure una struttura classista che guida le scelte dei soggetti a prescindere da quel che essi desiderano e vogliono. Semplicemente, ogni società umana deve giustificare le proprie diseguaglianze. La so­cietà genera sempre diseguaglianze, anche nell’ipotesi immaginifica che abbia avuto un’origine di perfetta eguaglianza. Lo aveva capito bene Jean-Jacques Rousseau, che non si illudeva che il contratto so­ciale, ovvero l’ordine politico legittimo, potesse durare senza inter­venti costanti e permanenti per raddrizzare le tendenze a tradurre le differenze individuali in diseguaglianze sociali e infine in privilegi politici. Non l’eguaglianza come identità è l’anima della ideologia della sinistra dunque, ma una forma di diseguaglianza controllata ca­pace di generare relazioni sociali e politiche improntate alla libertà di cittadinanza tra persone che sono diverse sotto molti aspetti. Questo è del resto il senso dell’articolo 3 della nostra Costituzione.

Ogni epoca produce ideologie contradditorie «finalizzate a giustifica­re la diseguaglianza, quale è o quale dovrebbe essere, e a descrivere le regole economiche, sociali e politiche che permettono di strutturare l’insieme».1 Sono coloro che più hanno da perdere e che più ricava­no soddisfazione dall’ordine della diseguaglianza che si impegnano nella costruzione dell’ideologia o degli argomenti giustificativi. Ad esempio, nel regime proprietario nell’età successiva allo Stato prov­videnza, la narrativa della diseguaglianza funzionale riposa su due pilastri: la libera scelta e la meritocrazia. In breve, la diseguaglianza che ne deriva è “giusta”, dice l’ideologia dominante, perchè non ba­sata su una struttura cetuale ma sull’intraprendenza individuale e l’uguale opportunità riconosciuta a ciascuno dalle carte di diritti. La diseguaglianza nascerebbe, dunque, dal libero gioco delle scelte co­sicché noi saremmo i soli responsabili dei nostri successi o fallimenti. Questa narrazione della giusta diseguaglianza è riuscita a compattare la società fino a quando la grande maggioranza dei cittadini poteva nel proprio ambito constatare che quella promessa di riuscita basata sull’impegno personale era realistica e comprovabile. Ha unito so­cietà composte di persone non uguali nelle condizioni economiche perché ha consentito un accesso largo e pubblico ai servizi sociali primari (abitazione e salute) e a un’istruzione di buona qualità per la formazione delle capacità funzionali a vivere con dignità, a tradurre l’impegno individuale in obiettivi di miglioramento delle condizioni lavorative e di avere una vita decente, capace di offrire altri beni oltre a quelli essenziali: soprattutto quello del riconoscimento sociale e del rispetto. Un riconoscimento che si conquistava con l’impegno ancor più che con il possesso. L’essere operai metallurgici era un veicolo di rispetto e di riconoscimento, non uno stigma. La considerazione sociale comprovava il sistema di diseguaglianza differenziata – non tutti potevano diventare ricchi come la minoranza alta della società, ma tutti potevano vivere con dignità e sapere di riuscirvi. Vivere nella tranquillità dei possessi e senza dover riverire nessuno per questo, si legge nei “Discorsi” di Machiavelli, è il segno di una società bene ordinata.

Come ci spiegano gli scienziati sociali, questo cemento ha comin­ciato a mostrate crepe sempre più profonde a partire dalla fine degli anni Settanta del Ventesimo secolo. Oggi quelle crepe si sono tra­dotte in divisioni verticali e, a volte, in secessioni delle parti tra loro – soprattutto dei “pochi” dalla società larga e dalle richieste fiscali che questa comporta –, secessioni che si manifestano anche con la richie­sta in Italia di federalismo differenziato che è in effetti una revisione del patto nazionale dal punto di vista della distribuzione degli oneri in rapporto ai meriti. A questo punto, l’ideologia della diseguaglian­za dell’ordine proprietario validata dalla libera scelta e dal merito non convince più i “molti”: la diseguaglianza per merito è come un re nudo, che non funziona nei fatti (avere un’istruzione non è più un passaporto certo di ascesa sociale) e quindi non è più largamente accettata.

Si potrebbe dire che l’ordine della democrazia sociale costruito nel secondo dopoguerra non è più egemonico. Antonio Gramsci non assegna­va all’ideologia il potere creativo che gli assegna Piketty; non rinunciava a vedere nelle relazioni socioeconomiche strutturali la regia del proces­so storico. Tuttavia, anche Gramsci analizzò la fenomenologia del consenso (quello che Piket­ty chiama “regimi di diseguaglianza”) come co­struzione egemonica che si articola tra e unifica le istituzioni, civili e sociali, le idee e i concetti morali e politici, infine i linguaggi. La costruzione ideologica ha una funzione epistemica che ci consente di dare un senso a quel che fac­ciamo: nel caso che ci riguarda, ci consente di giustificare le nostre vittorie e sconfitte. Tutto questo funziona fino a quando le politiche sociali attutiscono l’impatto delle diseguaglianze economiche. La cri­si del “regime di diseguaglianza” si mostra dal fatto che se prima la sua narrativa era operativa come una seconda natura, ora è sentita come una finzione artificiosa, falsa e insopportabile – le diseguaglianze di potere sociale e di riconoscimento sono sentite come un giogo, l’esito del dominio dei pochi sulla larga maggioranza. Con la conseguenza di far apparire la stessa costituzione democratica, con la dichiara­zione degli eguali diritti, una finzione. La conseguenza finale è che i conflitti fuoriescono dai canali istituzionali della contrattazione tra forze rappresentative, e diventano ribellioni spontanee, manifestazio­ni di forze emotive che fanno saltare la sottile crosta dell’apparente stabilità sociale.

Riportare l’eguaglianza sostanziale e l’eguaglianza formale in relazio­ne tra loro e al centro del campo ideologico della sinistra è urgente non soltanto per la sinistra, dunque, ma anche per la democrazia. Contenere le diseguaglianze che si sono accumulate tra le generazioni in forma esorbitante è una condizione irrinunciabile per avvicinare i “molti” alla leadership della sinistra e per consentire loro di trovare conveniente riattivare l’arma deterrente del conflitto. Gli obiettivi di vita lavorativa, educativa, sociale devono trovare posto nel campo ideologico della sinistra e ispirare politiche conseguenti, fiscali e pro­grammatiche. Questo può essere fatto a patto che vengano bloccate le ambizioni secessionistiche di chi sta bene dal corpo della società larga. Non ci sono molte alternative allo scenario di violente rivolte fuori da ogni programma emancipatore se non riportando i desideri traditi dei molti al centro del campo ideologico della sinistra.


[1] T. Piketty, Capitale e ideologia, La Nave di Teseo, Milano 2020, p. 13.