La sconfitta del salario e del welfare

Di Paolo Borioni Martedì 03 Dicembre 2019 11:49 Stampa


Nel 1984 Olof Palme alla trasmissione radiofonica “Godmorgon världen” si espresse nettamente contro la possibilità di introdurre meccanismi di mercato nel sistema educativo svedese. Con carat­teristica icasticità, disse che non avrebbe mai voluto dei “Kentucky fried children”,1 ovvero un’americanizzazione commercializzante di questo ramo del welfare, accostabile al fast food Kentucky Fried Chicken. Tuttavia, al contrario, dagli anni Novanta del Novecento proprio in Svezia si è introdotto un sistema di voucher liberamente spendibili fra scuole di diverso tipo, anche private e autorizzate a fare profitti. Peraltro, come mostrano alcune ricerche, i risultati sono peggiorati in modo nettissimo.2

Proporrei di spiegare simili dinamiche, ovvero la storia del welfa­re dopo il 1989, cogliendo i processi materiali e ridimensionando invece una convinzione su cui esiste una convergenza (purtroppo e non casualmente non la sola) fra neoliberali ed ex comunisti. Essa so­stiene che la forza riformatrice della socialdemocrazia nel Ventesimo secolo fu dovuta a un potere “ottriato”, ovvero concesso al socialismo democratico dal capitalismo per paura dell’URSS. Per questo oggi la socialdemocrazia e il welfare (dopo la fine dell’URSS) sarebbero in arretramento. Ciò priva della loro forza oggettiva e soggettiva alcu­ni processi materiali di quel secolo, di cui liberali come Roosevelt, Keynes e Beveridge si resero conto molto prima della guerra fred­da. Per citare indirettamente Polanyi, cioè, il capitalismo possedeva grande forza distruttiva mostrata (producendo fascismi e quasi mai comunismo) negli anni Trenta. Il modo in cui il dopoguerra è stato costruito dipende dalla precedente affermazione di questa consape­volezza, altrimenti il duello con l’URSS sarebbe stato sostenuto sullabase di diverse dottrine. Non a caso, Reagan e Thatcher lo condus­sero in modo del tutto opposto ai rooseveltiani e al socialismo de­mocratico.

Se si accetta questo quadro più valido, si scopre che la forza, reale e non ottriata, della socialdemocrazia risolve molti problemi esplicati­vi: è stata la forte critica del capitalismo che derivava dalla storia a fornire al socialismo democratico una durevole ragione egemonica.3 Da cui un welfare costruito non più per “mantenere in vita i poveri” e/o come “controllo sociale” ma, con approccio socialista, per raffor­zare il lavoro nel confronto (democratico) con il capitale, il che ha prodotto a sua volta ulteriore e reale egemonia. La sua forza oggi arretra e il capitalismo non ri­formato polarizza nuovamente le società, scardi­na i sistemi politico-partitici, blocca la mobilità sociale alimentando il risentimento verso classi dirigenti accusate di essere “casta”. Il potenziale distruttivo del capitalismo si conferma di nuovo e, a contrario, si confermano quelle che furono le doti egemoniche della “socialdemocrazia del welfare”.

Preferire a questo schema complesso quello sem­plice della “socialdemocrazia rafforzata dalla mi­naccia sovietica” è una trappola (oltre che storiografica e concettuale) anche politica, poiché autorizza oggi una forma di “pessimismo sto­ricista” (abbiamo ascoltato ministri del PD in carica farsene scudo), col bel risultato di giustificare la “inevitabile” ripetizione di scelte appalesatesi nefaste già da decenni.

Peraltro, lo schema “semplice”, privando la socialdemocrazia di forte soggettività storica la priva anche, di conseguenza, di responsabilità attuali, impedendo di comprendere i limiti di questa cultura politica, e vieppiù occultando ogni possibile soluzione. Così accade che Quos vult Iupiter perdere dementat prius.

Con alcune rapide osservazioni sulla recente storia del welfare cer­chiamo invece di comprendere i processi reali, e come mai la social­democrazia vi si sia nocivamente adattata.

Le socialdemocrazie avevano costruito il welfare con il fine di eli­minare gradualmente lo sfruttamento come opzione, offrendo in­vece l’investimento innovativo socialmente sostenibile come unica opzione alternativa. Mentre il capitalismo confermava la riemergente tendenza a liberarsi di compromessi regolativi anche virtuosi (la glo­balizzazione finanziaria per come viene attuata e la UE ordoliberale hanno accresciuto questa possibilità) il limite della socialdemocrazia è stato perpetuare la convinzione di avere definitivamente umanizza­to il capitalismo (troppo Bernstein, troppo poco Kautsky). Si è così pensato che, inserendo alcune novità, il welfare sarebbe riuscito raf­forzato nei confronti dei propri critici. Queste novità, semplificando moltissimo, sono state fra le altre: i “segnali di mercato” mediante il New Public Management (NPM), maggiore libertà di scelta dei cittadini, maggiori stimoli a “fare mercato nel welfare”. Ne sono sor­titi risultati positivi modesti e una polarizzazione sociale, viceversa, amplissima. Vediamo perché.4

Partiamo dalla riforma dei redditi di disoccupazione di Macron. Cir­ca il 50% di chi perde il lavoro rischia ora di perdere, in tutto o in parte, il proprio diritto a un reddito. Secondo gli esili ma combattivi sindacati francesi ciò ridurrà in povertà altre centinaia di migliaia di lavoratori, mentre per Macron stimolerà a trovare un lavoro, raf­forzando la tendenza che ha ridotto all’8,5% la disoccupazione, il minimo da un paio di lustri. Particolarmente peggiorativo è che ora per avere diritto al reddito occorre avere lavorato almeno sei mesi nei precedenti due anni, mentre prima bastavano quattro mesi nei pre­cedenti ventotto. Con questi requisiti si ottiene un reddito per due anni (tre se in età avanzata) ma con le nuove regole diviene pressoché impossibile prolungare il periodo se la disoccupazione permane. I giovani, come da noi più esposti a disoccupazione e crescente preca­rizzazione, saranno particolarmente colpiti. Prosegue, insomma, la deriva verso un welfare liberale, posto “ai margini” del mercato del lavoro, non per rafforzare i lavoratori e chi li rappresenta nel com­promesso riguardo a come si costruiscono la produzione, l’innova­zione e la competitività, ergo la domanda di lavoro.

A rivelare tutto ciò proprio gli argomenti che Macron adduce a pro­pria difesa: ad esempio, da oggi sarà possibile ricevere un trasferi­mento monetario anche se si interrompe volontariamente il rapporto di lavoro. Questo però solo a patto di avere lavorato almeno cinque anni nella stessa azienda, nonché presentando un progetto di lavo­ro la cui realizzabilità sarà valutata da una commissione apposita. Sarebbero i criteri di una “flessibilità buona”, che allarga il diritto a piccoli e medi imprenditori la cui azienda sia fallita. Discutibile però che circa 800 euro per non più di sei mesi possano davvero fungere da incentivo: proprio questo particolare rivela un’ideologia “offer­tista” fideistica. In questo quadro di stagnazione secolare europea, le piccole attività che vediamo fiorire rappresentano sempre più il residuo spazio risultante da lavori dipendenti sempre più inaffidabili e insoddisfacenti, non già progetti innovativi verso cui stimolare cit­tadini intorpiditi da troppe garanzie.5 Ciò accade quando si ignora la costruzione politica del compromesso per un migliore mercato del lavoro. Naturalmente valgono anche le più banali motivazioni legate al risparmio di bilan­cio, mentre si svuota del tutto la capacità delle organizzazioni democratiche (partiti e sindaca­ti) di offrire un compromesso forte e innovativo alla controparte. Se sfugge questa relazione fra welfare, cittadinanza e politica quasi certamente sfuggirà anche la ragione per cui la democrazia e i partiti raccolgono sempre più massicciamente disillusione e disprezzo.

Per tornare al 1989, tutto ciò è molto correlato a una svolta negativa avvenuta un decennio prima: la sconfitta del sala­rio forte quale fattore delle economie a egemonia socialdemocratica. Come bene descrive Warlouzet, nella sinistra europea degli anni Set­tanta colpiti dalla stagflazione avvenne un lungo dibattito sulla natu­ra dell’inflazione.6 I socialisti dei paesi con più tendenza a un’elevata domanda interna (Labour britannico e Francia) spingevano per al­leggerire le colpe del salario, riconoscendo che l’inflazione da petro­lio era decisiva, mentre Schmidt, cancelliere della SPD tedesca, era restio a persuadersene, attribuendo molta importanza alla capacità rivendicativa dei ceti salariati. Ciò consolidava la tendenza tedesca a non lasciar espandere la propria economia (ovvero la propria doman­da interna) proporzionalmente al potenziale, mediante incrementi retributivi consistenti. Schmidt si lasciò convincere solo tra il 1978 e il 1979, ma esplose subito la seconda crisi dei prezzi petroliferi. Così, l’effetto combinato di questi due incrementi provocò una fiammata inflazionistica più che sufficiente a far ricredere Schmidt, impedendo così alla Germania di mutare la propria tendenza storica, e di eserci­tare il ruolo di “locomotiva” per il resto di Europa. Nella fattispecie, si trattò di un avvenimento cruciale per il socialismo europeo poiché indebolì le capacità di rilancio espansivo delle socialdemocrazie al potere (come il Labour, che lo avrebbe perso subito) o presto al go­verno (come il PS francese, che tra il 1981 e il 1983 dovette ritirare le proprie misure molto espansive per mancanza di collaborazione dell’esecutivo tedesco, nel frattempo passata non a caso da Schmidt a Kohl). Ecco dunque la sconfitta del salario come strumento demo­cratico di riforma del capitalismo, che un’interpretazione più equili­brata di quali fossero state le cause dell’inflazione avrebbe evitato. Da allora, come si vede nella prevalente ossessione anti-inflattiva della UE ordoliberale, ciò (elettoralmente) ha molto limitato la capacità socialdemocratica di fare leva sulla organizzazione della classe lavo­ratrice per trasformare il capitalismo, il quale ha ripreso, come è sua tendenza storica, a produrre polarizzazione sociale. Riforme come quella di Macron (o come quelle di Schröder, di Renzi e tante altre in ogni paese) indicano la volontà di limitare la funzione del welfare come fattore “demercificante”, poiché permetterebbe al salario/lavo­ro di non accettare la vendita della propria forza-lavoro alle condi­zioni dettate dal capitale. Per questo (e altri motivi di dinamica più strettamente economica o fiscale) welfare e salario avanzano insieme e arretrano insieme. Siccome per giunta l’Unione europea demonizza la domanda interna, viene loro imposto di arretrare.

Dato questo contesto storico-sociale, si comprende come le socialde­mocrazie e i loro alleati abbiano cominciato ad accettare che le risor­se del welfare andassero limitate, in assoluto o almeno relativamente ai crescenti bisogni.

Si è così aperta la strada a ideologie e politiche funzionali a questo. Una è la critica di Foucault. Convincentemente, un filone di ricerca ci spiega che sebbene abbia criticato il neoliberalismo, tuttavia egli per molti versi oggettivamente ha sfavorito l’egemonia fino ad allora indisturbata del welfare. Foucault infatti fornisce una critica radica­le (e molto contestabile) del welfare come strumento di controllo e potere biopolitico.7 La socialdemocrazia, premuta così sia dal lato sessantottino sia da quello neoliberale, ha insomma ceduto a molte critiche relative alla autoreferenzialità del welfare (fare gli interessi delle burocrazie anziché quelli dei cittadini) a sua volta capace di spingere i costi oltre il logico e il lecito.8 Come suggerito nel no­stro incipit, ciò spiega la ragione per cui modelli di welfare anche lontani come quello svedese e quello britannico abbiano registrato convergenze nelle soluzioni adottate: la “socialdemocratica” Svezia e più recentemente il liberal-conservatore o (fa lo stesso) blairiano Re­gno Unito hanno ambedue introdotto schemi competitivi di scelta nella sanità e di contrattualizzazione esternalizzante nell’assistenza agli anziani. Le tipologie di “mercato” introdotte nel welfare possono divergere per morfologia e scopi, ed è vero che le sinistre hanno mag­giormente puntato sul New Public Management e sulla libera scelta (dotazioni di cittadinanza finanziate dal pubblico ma utilizzabili fra produttori di servizi pubblici e privati) più che sulla pura riduzione e privatizzazione.9

Tuttavia, ciò che è comune è l’idea che, declinando la base materia­le dell’intreccio fra salario (come importante motore democratico di crescita e innovazione) e welfare (nel senso molteplice indicato sopra) si debba o tagliare per fare più spazio al mercato (più i liberal-conservatori, ma non solo) oppure “efficientare” per far sì che, con meno risorse, si possa sperare in un livello non troppo declinante di trasferimenti/servizi (perlopiù il centrosinistra). Ciò ha procurato vari guai alla rappresentanza sociale che il socialismo democratico otteneva mediante il welfare. Quanto detto sull’indebolimento del lavoro nel confronto democratico con il capitale (ancora utile su ciò la Power resource theory)10 ha significato anche un affievolirsi della alleanza fra classi medie e operaie, prima garantita da un welfare ege­mone. Quest’ultimo infatti fornì alle classi medie qualcosa (lavoro e servizi sanitari ed educativi a facile ed economico accesso) che per la prima volta aveva stabilizzato lo status dei ceti di mezzo. Ora tutto ciò si è volatilizzato o è in discussione, e anche da questo dipende la nuova polarizzazione, ovvero classi medie in difficoltà.

Inoltre, meccanismi come il New Public Management, che im­pongono segnali di mercato mediante l’esecuzione di rigidi e for­malizzati protocolli imposti al personale, in realtà sono dettati da pochissimi “esperti” centralmente al sistema, frustrando la pro­fessionalità di molti altri. Perciò, quando meccanismi simili sono applicati da governi socialdemocratici, ciò comporta il dissenso di ceti un tempo saldamente nella loro area di consenso. Riguardo poi alla “libertà di scelta” consentita ai cittadini (ad esempio mediante voucher) varie esperienze hanno mostrato al­meno tre problemi di fondo: a) l’incentivo di operatori privati a partecipare è costituito da guadagni estratti dal sistema di welfare. Nel caso svedese si è calcolato che con questi profitti si potrebbero assumere molte migliaia di addet­ti; b) se il salario (ovvero la distribuzione pri­maria) declina come fattore sia economico sia politico, poi la re-distribuzione (ovvero un wel­fare perlopiù declinante) riesce sempre meno a rimarginare le diseguaglianze determinatesi;

c) acuendosi così le diseguaglianze, diviene più difficile utilizzare le potenzialità introdotte dai meccanismi “di scelta” (ad esempio voucher forniti dallo Stato): i ceti sfavoriti, per varie ragioni (costi di trasporto, informazione, reti di contatti) hanno difficoltà a spostarsi verso scuole/servizi “migliori”.11 Da cui un ulteriore fattore di po­larizzazione sociale. Anche se le riforme dei partiti di sinistra hanno cercato di mirare alla produttività (cioè come detto: difendere il welfare impiegandovi meno risorse) mentre i neoliberali e ordolibe­rali hanno mirato a quelle che ritengono essere migliori condizioni di investimento (ridurre spesa e tassazione, ritiro dello Stato dalla società) gli effetti sociali sono negativi, e quelli politici, come mo­strano le gravi difficoltà anche dei sistemi politici più saldi, sono di declino per le famiglie politiche tradizionali. La riforma del welfare avvenuta negli ultimi decenni conferma che le sue criticità (sia sociali, sia politiche, sia economiche) si sono accu­mulate in modo cronologicamente disperso e funzionalmente com­plesso. La data del 1989 e la scomparsa del comunismo sovietico, dunque, possono essere ritenuti solo indirettamente determinanti.

 


 

[1] D. Suhonen, Partiledaren som klev in i kylan, Leopard forlag, Stoccolma 2014, pp. 146-47. L’espressione è divenuta paradigmatica, tanto che il think tank neoliberale Timbro ha pubblicato con questo titolo un volume sul progresso della “libera scelta”: K. Svanborg-Sjövall, Kentucky fried children? Om den svenska valfrihetens rötter – och dess fiender, Timbro, Stoccolma 2013.

[2] Me ne sono occupato in P. Borioni, Paesi nordici: campi, processi ed effetti delle privatiz­zazioni in corso, in “Rivista delle politiche sociali”, 2/2011.

[3] Mirabile nella descrizione di questo snodo P. Kettunen, Conflicts and compromise in the Nordic pattern of social regulation, in P. Kettunen, S. Kuhnle, Y. Ren, Reshaping welfare institutions in China and the Nordic countries, NordWel, Helsinki 2014.

[4] C. Hood, R. Dixon, A Government That Worked Better and Cost Less? Evaluating Three Decades of Reform and Change in UK Central Government, Oxford University Press, Oxford 2015.

[5] Se ne è occupata la radio pubblica danese DR1 nel programma “Orientering”, poi­ché Macron è fra i molti ad adornare queste riforme con l’ispirazione del celebrato modello danese. Si veda anche M. Landré, Assurance-chômage: l’effet massif de la réfor­me est confirmé, in “Le Figaro”, 24 settembre 2019, disponibile su www.lefigaro.fr/ conjoncture/assurance-chomage-l-effet-massif-de-la-reforme-est-confirme-20190924; Fondation IFRAP, La dégressivité des allocations-chômage… Oui, mais pas que pour les cadres!, in “Le Figaro”, disponibile su www.lefigaro.fr/conjoncture/la-degressivite-des-allocations-chomage-oui-mais-pas-que-pour-les-cadres-20190925.

[6] L. Warlouzet, Governing Europe in a globalizing world, Routledge, Londra 2017, pp. 136 e sgg.

[7] D. Zamora, M. C. Behrent, Foucault and Neoliberalism, John Wiley & Sons, Ho­boken (NJ), 2015. Si veda anche l’intervista a Daniel Zamora, How Michel Foucault Got Neoliberalism So Wrong, in “Jacobin”, 9 giugno 2019, disponibile su jacobinmag. com/2019/09/michel-foucault-neoliberalism-friedrich-hayek-milton-friedman-gary-becker-minoritarian-governments.

[8] Si vedano anche casi meno conosciuti, come la critica scandinava al welfare J. Dich, Den herskende klasse, Borgen, Copenhagen 1973.

[9] J. R. Gingrich, Making Markets in the Welfare State. The Politics of Varying Market Reforms, Cambridge University Press, Cambridge 2011.

[10] G. Esping-Andersen, W. Korpi, Social policy as class politics in post-war capitalism, in J. Goldthorpe (a cura di), Order and Conflict in Contemporary Capitalism, Oxford University Press, Oxford 1985.

[11] Si veda il confronto svolto nella rubrica da me curata New Public Management, isti­tuzioni politiche, economia e welfare. Un dibattito critico, in “Economia&Lavoro”, 2/2017, con articoli miei e di Giulio Moini, poi proseguito in altri numeri della rivista con un intervento di Daniel Pommier Vincelli.