Chi nega la politica

Di Geminello Preterossi Martedì 28 Maggio 2013 16:05 Stampa

Il presupposto di ogni democrazia rappresentativa è che chi è governato possa riconoscersi in chi lo governa. Il successo del M5S, che ha come fondamento teorico proprio l’eliminazione della rappresentanza, è dovuto in parte alla sua capacità di intercettare alcune legittime richieste dell’elettorato che il PD ha trascurato e che la sinistra, affinando la sua capacità di ascolto della società, dovrebbe fare proprie. Per riaffermare il valore della politica occorre recuperare un forte senso della rappresentanza democratica e il coraggio di un’appartenenza di sinistra, che si incarna nel tenere fede ad alcuni valori irrinunciabili, come la vicinanza al proprio popolo e l’attenzione alle sue istanze, la lotta al neoliberismo e alle disuguaglianze, la tutela di disoccupati e precari e il rispetto dell’autodeterminazione degli individui.

Che la democrazia diretta sia impossibile, almeno nei sistemi politici moderni, lo aveva capito anche Rousseau. E, tuttavia, questo implica che dobbiamo rassegnarci a intendere la democrazia rappresentativa come aristocrazia (per modo di dire) elettiva, mera circolazione di élite, in vendita sul mercato politico? O credere alla semplificazione che riduce alla legge ferrea delle oligarchie l’intera esperienza dei partiti novecenteschi, che pur tra tanti errori e limiti hanno integrato le masse nello Stato e favorito un’emancipazione sociale mai prima realizzatasi? O, addirittura, intendere la democrazia quasi come un fastidioso impaccio al dispiegarsi della razionalità tecnocratica, che implica la perdita di tempo di raccogliere in qualche modo il consenso del popolo insipiente su decisioni già date, imposte dalle leggi “naturali” del mercato? Certo, la democrazia come puro autogoverno, azzeramento della distinzione governanti-governati, è un sogno post-politico irrealistico. Ma nel concetto normativo di democrazia è contenuta un’idea fondamentale: quella che i governati debbano potersi “riconoscere” nei governanti, che questa aspettativa non solo non venga frustrata dal sistema politico, ma sia anche alimentata come la sua risorsa di legittimazione più preziosa. Perché questo riconoscimento non sia formale, occorre accettare senza paura il conflitto (non violento né distruttivo) come la fonte energetica necessaria alla vitalità del processo deliberativo. Politica “dal basso” non significa eliminazione della rappresentanza, negazione della necessità della politica organizzata, ma confronto serrato e partecipato su progetti e finalità diversi.

Con l’affermazione del Movimento 5 Stelle abbiamo assistito a una significativa torsione del discorso democratico: si è imposto con successo l’immaginario di una “comunità senza delega”, basata però su un’“autorità” (interna/esterna) fortissima. Certamente l’idea del salto di ogni mediazione è illusorio e sfocia in contraddizioni pericolose. La comunità senza delega ha bisogno di punti di riferimento simbolici intensi: quindi l’assenza di guida, la pura autorganizzazione sono costruzioni ideologiche, che non cancellano affatto il potere del “significante vuoto” (Laclau) che fonda e tiene unito il movimento. Il fantasma dell’immanenza della comunità (virtuale) presuppone e incorpora la trascendenza assoluta dei capi. Del resto, i limiti attuali del movimento di Grillo e Casaleggio sono evidenti: inadeguata trasparenza interna (coperta con la fiction dello streaming a comando), tendenza alla demonizzazione e alla demagogia, mitologia della rete, idee balzane come quelle della prorogatio di un governo senza fiducia e perciò privo di legittimazione, del vincolo di mandato per i parlamentari, dell’inutilità dei partiti (sostituiti dai “cittadini”: e come, se non in nuovi partiti o movimenti politici?).

E, tuttavia, possiamo contentarci di queste osservazioni critiche? O non ci si deve chiedere a quale bisogno corrisponda, quali istanze esprima l’energia politica che si è manifestata nel Movimento 5 Stelle? C’è davvero solo populismo antisistema in essa? A me pare decisamente di no. C’è, anche, la manifestazione del bisogno di prendere parola in prima persona, da parte di soggetti magari arrabbiati ma anche ancora appassionati della cosa pubblica, non rassegnati; il rifiuto della delega in bianco; l’insofferenza per l’eterna teoria dei due tempi (prima i sacrifici, poi forse le riforme) e per i compromessi al ribasso; il bisogno di imporre nell’agenda politica temi fondamentali, carichi di contenuto etico-normativo, che la politica tradizionale non riesce ad affrontare, perché li rimuove o non ci crede (si pensi al caso del referendum sull’acqua “bene comune”).

Di fronte a questa spinta al cambiamento (disordinata, ma vitale), è chiaro che ricostruire il primato della politica (sugli interessi privati) non può voler dire chiudersi in un bunker, bensì capacità di ascolto della società, di orientamento collettivo perché ci si muove insieme con le sue forze vive. Per ricreare le condizioni della fiducia, occorre essere credibili e avere un’identità chiara (altro che pericolo del partito “identitario”; un partito senza identità, che non sa dire cos’è, è destinato a sciogliersi come neve al sole: lo si è visto nella recente, tristissima vicenda dell’elezione del presidente della Repubblica). L’egemonia si conquista sul terreno sociale, non pretendendo di mettere le braghe a un paese reale guardato con sospetto. La sinistra democratica non può ridursi a culto dello spread, arcana imperii e governissimi con Berlusconi: un malinteso senso di responsabilità può condurre in un abisso ipnotico di separatezza e autoreferenzialità. I compromessi in politica sono necessari, ma a partire da posizioni chiare, non con chiunque e a qualsiasi prezzo: ogni volta che non si è in grado di fissare un’asticella minima, ci si espone al rischio di una regressione civile.

Ma, per riaffermare il valore civile della politica, occorre recuperare un senso esigente di democrazia e il coraggio di un’appartenenza di sinistra, senza aggirare i nodi politici e culturali che ciò implica. Essere di sinistra significa non separarsi dal proprio popolo, cioè, per fare alcuni esempi emblematici, andare a difendere davanti alle fabbriche i diritti democratici dei lavoratori discriminati, come hanno fatto Stefano Rodotà e Maurizio Landini a Pomigliano, rifiutando la regressione antimoderna implicita nel “modello Marchionne”; contrastare coerentemente le politiche neoliberiste che affossano l’Europa dei diritti e della solidarietà in funzione del dominio assoluto della finanza, mettendo a repentaglio la tenuta democratica di alcuni paesi dell’Unione; mettere al centro dell’azione politica la lotta alle disuguaglianze; entrare in contatto con il mondo dei non rappresentati (disoccupati e precari), anche grazie all’elaborazione di nuove forme di tutela e a proposte innovative come quella del reddito minimo di cittadinanza (certo non una panacea di tutti i mali, ma un segnale tangibile di attenzione e cambiamento di fronte a una sofferenza sociale diffusa e insostenibile); ricostruire le condizioni di una effettiva vita democratica nei luoghi di lavoro e nella rappresentanza sindacale; coniugare la rivendicazione dei diritti di autodeterminazione e di riconoscimento (unioni gay, testamento biologico ecc.) e quella della giustizia sociale: l’idea che si tratti di scegliere tra i due ambiti è insensata e segno di subalternità culturale (così come è insensata la contrapposizione tra lavoro e salute: semmai, il contrasto è tra lavoro, salute e ambiente da una parte e profitto come variabile indipendente – anche dalla legge, come si è visto nel caso dell’Ilva – dall’altra). Essere di sinistra significa difendere a spada tratta la scuola e l’università pubbliche.

In sostanza, per esercitare una capacità di direzione intellettuale e morale, bisogna che essa venga riconosciuta e ciò accade solo se la politica si fa portatrice credibile di contenuti dirimenti, simbolicamente carichi perché in grado di dare il senso di una trasformazione dello status quo. C’è un rapporto biunivoco tra decisione politica e consenso, istituzioni rappresentative e “popolo”. Se si vuole evitare il rischio che i populismi reazionari, che chiamano alla mobilitazione contro il diverso e alla ricerca del capro espiatorio, di cui in Europa ci sono chiare avvisaglie, occupino il vuoto egemonico della politica democratica, occorre che essa torni a capire il linguaggio del demos. Che non vuol dire perdere autonomia o lisciare il pelo a Facebook, ma conoscere chi si pretenderebbe di rappresentare e tenerne assai accuratamente conto. Solo sulla base di queste premesse, solo sforzandosi davvero di comprendere attraverso una discussione franca, si può ambire a formare e orientare. Per riabilitare la rappresentanza, occorre restituirle rappresentatività. Questo significa che la politica, e in particolar modo in Italia quella di sinistra (per il peculiare compito di presidio democratico che l’anomalia berlusconiana impone), deve avere il coraggio di riscoprire se stessa e non farsi paralizzare da paure e fantasmi. Per far questo, deve ricollegarsi alla sua eredità migliore, purtroppo troppo spesso rimossa: quella del pensiero gramsciano, sul quale stranamente in Italia è sceso l’oblio negli ultimi decenni, mentre nel resto del mondo era al centro di una rinnovata riflessione teorico-politica: per la sua capacità di concepire in modo non deterministico le trasformazioni sociali, di pensare la politica in chiave anche simbolica, di cogliere i rischi esiziali insiti nella passivizzazione delle masse. E l’eredità di Enrico Berlinguer, soprattutto dell’ultimo Berlinguer, che con l’alternativa democratica e l’insistenza sulla questione morale pose il problema di un rinnovamento radicale del rapporto tra politica e società e tra partiti e istituzioni, aprendo ai movimenti (con un’attenzione nuova ai temi ecologici, ai diritti, alle questioni di genere ecc.) e difendendo senza tentennamenti il mondo del lavoro dal revanscismo del capitale. Si può innovare profondamente solo sulla base di una cultura politica solida, salda, non certo scimmiottando a scoppio ritardato ricette di neoliberismo più o meno temperato, sconfitte e superate dalla crisi economica, o inseguendo leaderini mediatici.

Non è un caso che questione sociale e questione morale siano diventate, seppur confusamente, terreno di conquista della protesta a 5 Stelle, saldandosi su un immaginario di sinistra (Calamandrei, Pasolini, Pertini, la Costituzione, i giudici antimafia, il volontariato, come dimostrano le parole d’ordine della grande manifestazione preelettorale a San Giovanni). Se ciò è potuto accadere, se questo messaggio ha sfondato, occorre chiedersi perché: il minimo che si possa dire è che c’è stato un deficit nella proposta del PD, un’inadeguatezza di cui non si può certo colpevolizzare l’elettorato e delle cui cause ancora non si vede alcuna analisi autocritica profonda. Anche sul piano istituzionale, per rafforzare la democrazia, invece di inseguire ambigue “grandi riforme” di craxiana memoria, sarebbe bene puntare a una buona manutenzione costituzionale. Visto che c’è una nuova domanda di partecipazione diretta dei cittadini, anche nel senso di riordinare e allargare con razionalità gli spazi e gli strumenti per corrispondere a questa esigenza: ad esempio, con una nuova disciplina delle leggi di iniziativa popolare che obblighi il Parlamento a discuterle, con una revisione del referendum abrogativo che collochi il giudizio di ammissibilità costituzionale dei quesiti prima della raccolta delle firme, ma anche lavorando sulle varie esperienze di democrazia deliberativa e partecipativa sperimentate negli ultimi anni in diversi contesti. Per non parlare della necessità di una disciplina legislativa sulla democraticità e la trasparenza della vita interna dei partiti, sulle forme di fi nanziamento pubblico della politica (da difendere, ma correggendone con fermezza storture ed eccessi), sulla corruzione politico-amministrativa.

Una nuova politica di sinistra, proprio se non vuole essere light ma di sostanza, deve fare i conti fino in fondo con le ragioni di quelle istanze critiche dal basso che, con la protesta e la partecipazione, continuano ad avanzare “domande” preziose per la politica, perché serbano (ancora per quanto?) un atto di fede laico nella “promessa democratica”. Perciò, sarebbe molto riduttivo derubricarle in antipolitica. Penso anzi che una politica forte, perché nuovamente capace di immaginazione emancipatrice, che torni a credere nella spinta propulsiva della Costituzione non dovrebbe temere di assumere dosi omeopatiche di “populismo” (dai contenuti democratico-radicali), per integrarlo in un progetto che coniughi espressioni delle soggettività e riabilitazione del collettivo. Per evitare che le istanze di democratizzazione radicale si risolvano in mera “controdemocrazia” (Rosanvallon), in sovranità negativa e impolitica o, addirittura, in populismo regressivo, occorre che la politica getti un ponte verso di esse, recuperando la capacità di leggerle e integrarle nella produzione di un mondo comune. Il “popolo” è sempre una “costruzione” (continua) dal basso e dall’alto: una politica di sinistra che avesse fiducia in se stessa, nella propria qualità progettuale, non dovrebbe temerlo.

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