Il futuro in sospeso

Di Silvia Avallone Lunedì 06 Dicembre 2010 12:06 Stampa

Eravamo arrivati a Bologna da tutte le province d’Italia. La maggior parte di noi proveniva dalle regioni del Sud: Puglia e Calabria in particolare; la minoranza invece si divideva tra Marche, Toscana, Veneto e chi, come me, aveva lasciato una provincia ai piedi delle Alpi che la crisi del tessile in pochi anni aveva spopolato.


Eravamo arrivati a Bologna da tutte le province d’Italia. La maggior parte di noi proveniva dalle regioni del Sud: Puglia e Calabria in particolare; la minoranza invece si divideva tra Marche, Toscana, Veneto e chi, come me, aveva lasciato una provincia ai piedi delle Alpi che la crisi del tessile in pochi anni aveva spopolato.

All’inizio non fu semplice. La convivenza in uno studentato composto da sessanta ragazzi e una sola lavatrice per forza di cose qualche problema lo crea. Per i turni del bucato, appunto, ma anche per i posti in aula studio, per i fornelli in cucina comune, e il baccano continuo e diffuso in ogni stanza, a ogni ora del giorno e della notte. All’inizio, fu un po’ come nella “Grande Guerra” di Monicelli: eravamo giovani, ci ritrovavamo per la prima volta soli e lontani da casa, in una città sconosciuta, il nostro futuro in gioco, e non parlavamo affatto la stessa lingua.

In poche settimane si formarono i gruppi. Pugliesi con pugliesi, abruzzesi con abruzzesi, e via dicendo. I gruppi erano coesi al loro interno, come se fossero composti da amici d’infanzia e non da sconosciuti, e si studiavano l’un l’altro. Il banco di prova principale delle differenze era costituito dal pranzo della domenica. Le ragazze calabresi si svegliavano abbastanza presto, indossavano dei grembiuli, e occupavano la cucina comune fin dalle nove del mattino. Noi facevamo colazione, a stento riuscivamo a porre la moka sul fuoco, loro monopolizzavano i fornelli con pentole giganti dove giravano il sugo, lessavano le patate. Ingombravano i tavoli con impasti di farina e uova, baccelli sbucciati, facevano pane e pasta con le mani.

Qualcuno del Centro-Nord diceva: «Neanche mia nonna lavora così tanto in cucina». Vedevi queste ragazzine di diciannove anni appena, che tiravano la pasta con il mattarello in religioso silenzio e stavano ore appresso al forno. Uno spettacolo surreale per chi, come me, sapeva a mala pena fare un uovo al tegamino e mai e poi mai avrebbe dedicato un’intera mattinata a friggere e impastare.

Altra cosa che destava sguardi e frecciatine era l’arrivo dei pacchi. In certi giorni la portineria veniva letteralmente presa d’assalto dai corrieri, si accumulavano per terra scatoloni su scatoloni, tutti provenienti dal Sud e tutti colmi di generi alimentari. Rape, pomodori, cetrioli, insalate, nespole, meloni, a seconda della stagione. «Vuoi mettere una rapa del mio orto, una rapa di Brindisi, con quelle senza sapore che ti vendono quassù?» dicevano i destinatari del ben di Dio a noi che li guardavamo allibiti. L’arrivo dei pacchi era una festa per loro, il pretesto per organizzare pranzi e cene, per prendere di nuovo possesso della cucina comune, estromettendo noi, del Centro e del Nord, che nella maggioranza dei casi andavamo avanti a panini e piadine.

Osservandoli dal corridoio, come si riunivano in enormi tavolate festose; oppure non potendo fare a meno di sentire le loro grida e le loro risate dalle stanze accanto, molti di noi, piemontesi e toscani, hanno scoperto cosa ci era mancato, cosa ci mancava: quel senso di comunità stretta intorno a un tavolo, e una lingua speciale che non fosse l’italiano.

Dopo qualche mese, nei vari gruppi, si cominciò a parlare correntemente il dialetto. Litigavano, cucinavano, gridavano e si volevano bene in sardo, in napoletano, in siciliano. Chi di noi non aveva un dialetto proprio si sentiva menomato. Chi non condivideva con qualcuno un idioma regionale era tagliato fuori dalla lingua degli affetti.

Eravamo nel 2003, e avevamo appena iniziato a frequentare i corsi all’università.

Chi veniva dal Sud, in maggioranza schiacciante, era iscritto a facoltà come ingegneria, farmacia, medicina, scienze della formazione. «Non ho tempo da perdere, io. Quando finisco, devo lavorare subito ». A noi che eravamo iscritti a facoltà come lettere e filosofia, minoranza assoluta, ci sfottevano spesso. «E dopo che fate? I disoccupati?», e ridevano.

All’inizio, impossibile mentire, le varie parti d’Italia ritrovatesi per caso e per forza in quello stesso studentato di Bologna si osservavano con una certa diffidenza, sottolineavano le diversità, si prendevano in giro, ma cercavano – segretamente – le somiglianze. I pugliesi si stupivano di come noi settentrionali fossimo figli unici, non festeggiassimo con canti e danze il santo patrono, e non prestassimo molta attenzione ai cibi e alla famiglia, a cui telefonavamo molto meno. Noi ci stupivamo quando ci raccontavano dei rifiuti lasciati per strada e delle sparatorie che, come nei film, si sentivano esplodere in strada o nei bar. I luoghi comuni che si leggevano sui giornali diventavano improvvisamente vivi e reali sulle nostre bocche, nelle nostre vite.

Ma le somiglianze non tardarono ad emergere. Durante la prima sessione di esami, proprio come si fa in guerra di fronte al pericolo imminente, cominciarono le prime nottate di studio comune, le prime caffettiere da dieci tazze, e le prime vere confidenze tra Nord, Centro e Sud: «Ebbene sì, non ho studiato ». Si avviò così la stagione dell’avvicinamento, con l’ammissione che nessuno si era preparato abbastanza ad affrontare il futuro. Eravamo uguali nella disgrazia dell’esame e nella colpa di non aver studiato come si doveva. Il terrore di non farcela a superare l’esame, di non farcela a ottenere i crediti totali alla fine dell’anno, il terrore di perdere borsa di studio e posto alloggio, in un crescendo angoscioso che terminava nella paura più grande: tornare a casa.

Casa: esatto. Il paesino in provincia di Bari, di Brescia, di Siena, di Catanzaro che ciascuno di noi aveva esaltato come il più bello del mondo, dove si gustano i piatti più buoni, dove ci sono le ragazze più belle, le colline più in fiore, le chiese più antiche. Il piccolo paradiso provinciale da cui tutti noi eravamo fuggiti e che però, nella città straniera e ignota, avevamo decantato per mesi facendo a gara a chi le sparava più grosse; ecco che il nostro caro paradiso adesso si trasformava per tutti nel peggiore dei fallimenti. Sì, perché a dirci le cose come stavano, quei paesini e quelle piccole città con appena una stazione ferroviaria di due binari, un cinema e una scarna biblioteca, al Sud come al Nord, non erano esattamente il migliore dei mondi possibili.

Credo sia stato “tornare” il verbo fatidico. Sollevando la testa dai libri, all’una di notte, abbiamo preso a turno a raccontare le nostre adolescenze e abbiamo scoperto, pur con qualche variazione, che si assomigliavano tutte. Avevamo visto, noi nati negli anni Ottanta, chiudere gradualmente le fabbriche e i negozi nei centri storici, e anche i circoli ricreativi, diminuire le feste e le sagre, precipitare i campetti di calcio nell’abbandono. Avevamo assistito allo spopolamento in massa dei giovani, che andavano a cercare lavoro nelle città vicine più grandi. Avevamo toccato con mano la Cassa integrazione di amici e parenti. Avevamo capito tutti che occorreva andarsene, che lì – a casa – non ci sarebbe stato un gran futuro per noi, almeno: non il futuro che eravamo convinti di meritare.

Bologna era moderna e straripante di opportunità, ai nostri occhi, nel 2003. Locali di tutti i tipi: anche quelli gay che in provincia uno se li sognava lontanamente. Teatri grandiosi dove veniva a dirigere l’orchestra addirittura il maestro Abbado! In piazza Maggiore, per il 1° maggio, cantava Lucio Dalla, mica il matto del paese. Insomma, ci sentivamo al centro del mondo; all’inizio ci sentivamo nel posto giusto. E anche se in fondo ci portavamo dentro quella contraddizione insanabile: di essere nati da una parte e di vedere il nostro futuro dall’altra, di volere un lavoro con la “L” maiuscola – come l’insegnante, l’avvocato, l’ingegnere, il medico, il farmacista – e di voler anche metter su una nuova famiglia vicino alla vecchia; pur con una certa indecisione in testa, ci siamo buttati a capofitto nello studio.

L’Italia dello studentato dietro piazza Verdi, a Bologna, si era finalmente unita d’un fiato in un unico progetto: conseguire la laurea, trovare il lavoro per cui avevamo studiato, formare un giorno una famiglia. Sembra poco, a dirlo così. Ma non sono pochi gli anni trascorsi gomito a gomito in stanze di due metri quadrati, lontani dalle famiglie, a studiare come matti nel terrore di perdere quella borsa di studio che ci permetteva un futuro diverso da quello che toccava a chi rimaneva in provincia.

Non siamo mai stati una generazione ideologica. Del resto, sarebbe stato difficile diventarlo. Gli anni dei massimi sistemi sono finiti da un pezzo, gli orizzonti si sono ristretti: tutti abbiamo avuto un genitore o uno zio che ha vissuto il Sessantotto e però, concretamente, non ha ottenuto granché. A guardarci bene in faccia, siamo spesso figli di separati, figli di genitori emigrati dal Sud al Nord, figli di persone che hanno perso il lavoro, che hanno gridato al cambiamento e che abbiamo visto ammuffire davanti a un varietà televisivo fatto di gambe svolazzanti.

Forse sarà per questo che a Bologna, a vent’anni, fuori dall’occhio vigile dei genitori, non abbiamo organizzato sommosse e neppure troppe feste. La vita è un lavoro e una famiglia, su questo eravamo tutti d’accordo. E un lavoro e una famiglia, lo sospettavamo, sono mete che negli anni Duemila possono risultare lontane come un pianeta extraterrestre.

Lo sospettavamo, dicevo, ma non potevamo prevederlo. Per cinque anni abbiamo tirato dritto come muli. Certo, qualcuno si è perso: ha smesso di presentarsi in facoltà e ha cominciato a viaggiare nei week-end su voli low cost verso Londra, fino a quando non ha finito i soldi ed è tornato, a casa. Ma la maggioranza ha tenuto duro. Siamo arrivati, compatti, coesi, ciascuno con il proprio dialetto e i propri riti domenicali, alla laurea. L’abbiamo conseguita, ci siamo sbronzati di soddisfazione, abbiamo girato per i portici di Bologna travestiti da paperi o da Zorro con una corona di alloro in testa.

La meglio gioventù, mi viene da dire. Se ripenso ad alcuni parenti semianalfabeti che venivano ad ascoltare i figli o i nipoti nell’aula magna durante la proclamazione dei “dottori”, confermo chiaro e tondo: l’Italia unita e migliore l’hanno fatta gli studentati.

Poi, nel giro di qualche mese, è cambiato tutto. Abbiamo fatto le valige, siamo andati ciascuno per la sua strada, e abbiamo scoperto che quella strada non era affatto la magnifica autostrada che ci eravamo immaginati, bensì un sentierino sterrato. Dovevamo pagarci una stanza, adesso. Un posto letto a Bologna costa dai 250 ai 400 euro. All’inizio le nostre famiglie erano disposte ad aiutarci, ma dopo un po’ dovevamo trovare lavoro. 110 e lode, curricula lunghi e invidiabili, certificati di lingua straniera e conoscenza del sistema operativo Windows. Tutto abbastanza inutile. Ho riconosciuto miei compagni di corso al Carrefur, reparto videogiochi, con un berretto della Nintendo in testa. Ho ascoltato amici disperati che dopo la SISS si sono trovati a ottenere appena una settimana di supplenza in un anno. Nessuno dei miei compagni di università si è sposato, nessuno ha un lavoro fisso che lo rende soddisfatto di sé. L’altro giorno ho ricevuto un messaggio da un ragazzo dello studentato che a distanza di un anno e mezzo dalla laurea mi scriveva: «Parto lunedì, vado a Dublino. Non posso accettare i 400 euro che mi danno qui, mi sembrano un insulto dopo tutto quello che ho fatto». Sto parlando di un ingegnere nucleare che si è laureato con il massimo dei voti.

Così vedo l’Italia della mia generazione, appena unita dallo studio, separarsi nel lavoro. Vedo persone care partire, e questa volta non per Milano o per Roma, ma per Parigi, Londra, Berlino.

Il verbo cruciale, ancora una volta, è “tornare”.

Se ripenso ai miei nonni, che hanno vissuto due guerre, mi viene in mente che tra di loro era difficile capirsi: quelli paterni parlavano solo il napoletano, quelli materni solo il piemontese. I miei genitori sono stati in gamba, in questo senso. Si sono sposati e hanno tentato anche loro un’impresa garibaldina. Era l’epoca in cui il lavoro pioveva dal cielo, gli ideali si urlavano nei megafoni per strada, in cui tutti avevano un orizzonte sconfinato di libertà e di sogni da rivendicare. Si sono separati.

Questo è quanto. Da Piombino mi dicono che il liceo classico sta per chiudere: mancanza di iscritti e mancanza di fondi. Biella è una città attraversata da uno scheletro di fabbriche dismesse. A Taranto i giovani prima fuggono per evitare di entrare all’Ilva, poi tornano a mani vuote e ci entrano. Scelgono il pane in cambio del veleno, ed è difficile trovare un’alternativa.

Dovremmo tentare uno sbarco dei Mille ogni anno, in ogni provincia. Vagando in lungo e in largo per la penisola, mi sono fatta questa convinzione. Il punto non è “andare”, bensì “tornare”. Il futuro non dovrebbe essere cercato al di là del confine. L’Italia è ancora in via di progetto, ma per realizzarlo dovremmo poter rimanere qui.

E perché?

Questa è una domanda che ho sentito molto spesso. Perché bisogna per forza restare? Se dovessimo parlare in termini di opportunità personali e di stipendio, la maggior parte di noi risponderebbe sarcastico: «Ma non ha senso! Vuoi mettere la Svizzera? ». Non vedo rabbia nei miei coetanei, vedo piuttosto un senso di profonda delusione. Non basta una Svizzera pulita, ordinata, dove ogni ora di lavoro è retribuita da non crederci. C’è qualcosa che ci tiene qui a dibatterci con i curricula in mano da un ufficio all’altro. E questo qualcosa non è una preoccupazione egoistica, tutt’altro. Che fine faranno queste città, questa strana penisola a forma di stivale, senza di noi? Se non possiamo contribuire con le nostre braccia e le nostre idee, se non possiamo vivere una vita degna di questo nome qui, cosa succederà all’Italia?

Se penso al mio paese non penso alle polemiche rabbiose in TV, alle bande di senza-talento che strillano e si dimenano nei reality-show. Penso invece al mio studentato, così pacifico e tranquillo, penso ai pranzi grandiosi dei calabresi e ai miei panini di piemontese, alle nottate comuni a studiare, a dirci: «Diventerò medico e avvocato». Prima di scoprire che i concorsi sono chiusi, prima degli scandali degli esami truccati al telegiornale. Il paese reale, oggi, è un paese che non viene pubblicizzato. Ci dicono che fare il tronista o la velina è meglio di fare l’operaio, ci dicono che studiare serve a poco: una laurea è un pezzo di carta, ed è meglio fare due comparsate in TV. Ma non ci cascano tutti. La maggior parte, al contrario, è disposta a fare il pendolare, il precario, il single per anni piuttosto che rinunciare al suo piccolo sogno: una cattedra a tempo indeterminato nella scuola pubblica.

Nei giorni dell’università leggevamo “La ragazza di Bube” di Carlo Cassola e “La storia” di Elsa Morante. Quando l’Italia era un sogno, e occorreva ricominciare dalle macerie. Nord e Sud si guardavano l’un l’altro come due paesi stranieri, la divisione ideologica apriva ovunque fossati invalicabili e si ricorreva addirittura alle armi. A distanza di decenni abbiamo ritrovato quei libri attuali. Non basta la televisione a unificare un paese, c’è poco da fare. Guardare gli stessi varietà non ci rende amici. Ci vuole un progetto comune, come quello che avevamo noi negli anni di studentato. Che sia conseguire una laurea, fabbricare bulloni, curare malati, progettare ponti o pannelli solari, poco importa: tutto va nella stessa direzione. Il futuro. Quell’idea pazza che Garibaldi ha avuto insieme a un pugno di uomini e che è rimasta per metà in sospeso.