La riforma del processo penale: nodi e possibili soluzioni

Di Paola Severino Giovedì 08 Luglio 2021 10:05 Stampa
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Sulla necessità di una profonda riforma del processo penale si è detto e scritto tanto, così come si sono molto spesso esaminati gli obiettivi che essa dovrebbe perseguire.

Tra i motivi che la hanno resa indifferibile, vi è in primo luogo la eccessiva durata dei vari gradi di giudizio, di molto superiore alla me­dia europea, con conseguente pregiudizio sia dei diritti di chi si deve difendere dall’accusa di un reato, sia di coloro che devono ottenere il risarcimento dei danni conseguenti a esso. Le cause più immediate di questa differenza rispetto ai numeri riferibili ad altri paesi, pur simili per cultura e ispirazione giuridica, vengono concordemente rinvenu­te nell’accumularsi sul tavolo del magistrato penale di un numero di processi di gran lunga superiore a quello dei suoi colleghi europei, a causa del concorrere di almeno due fenomeni. Il primo, di cosiddetta “panpenalizzazione” o quantomeno di un moltiplicarsi di fattispecie penali molto formali, dotate di una lesività a volte molto esangue, spesso sanzionatorie di precetti originati in altri rami dell’ordina­mento. Il secondo, dovuto agli effetti del principio di obbligatorietà dell’azione penale, che costringe il Pubblico Ministero ad aprire un fascicolo per ogni denuncia, anche quando i fatti appaiono dotati di un disvalore molto lieve o di un supporto probatorio inconsistente, così costringendolo nel “letto di Procuste” di chi dovrebbe perseguire tutto, ma sa fin dall’inizio che non potrà farcela e vedrà rimanere senza esito molti fascicoli. Con l’ulteriore disagio interiore di sapere che non potrà affidarsi ad alcun criterio normativo di priorità, ma dovrà semmai operare le sue scelte sulla base di criteri elaborati dai capi di alcune tra le più grandi Procure italiane, ancorché in assenza di parametri che li rendano omogenei sull’intero territorio nazionale. Certo, si tratta di scelte dettate da assoluta necessità, ma nella consa­pevolezza che ciò può tradursi in un mezzo potenzialmente elusivo del principio di obbligatorietà della legge penale.

Da queste contraddizioni e dalle accennate inefficienze del sistema derivano poi gravi danni sia all’economia dei singoli che a quella pubblica. Ai primi, perché un sistema processuale che comporta fasi lunghe e articolate e che richiede un forte impegno difensivo diven­ta particolarmente costoso e tale dunque da non poter essere efficacemente affrontato da tutte le classi sociali; alla seconda perché chiunque inve­sta in una impresa o in una attività economica vuole assicurarsi di poter operare in un sistema processuale le cui decisioni siano rapide e quanto più possibile prevedibili. Un sistema che richie­derebbe, inoltre, una forte specializzazione del giudice, dovendo egli sempre più spesso con­frontarsi con le numerose fattispecie a contenuto tecnico, in cui l’aspetto sanzionatorio rappresen­ta soltanto l’appendice finale di un precetto nato al di fuori dello schema classico obbligo-divieto penale. La sua inter­pretazione e applicazione richiede dunque conoscenze specialistiche nelle materie più disparate, che vanno dall’ambiente ai rifiuti, alla in­telligenza artificiale, agli attacchi cyber, alle modalità di redazione del bilancio, alla governance societaria, al sistema tributario, tanto per fare solo alcuni dei molti possibili esempi. Per consentire al giudice di applicare correttamente e con il necessario approfondimento que­ste complesse e multiformi fattispecie occorrerebbe non solo e non tanto un aumento del numero dei magistrati e dei loro ausiliari, ma anche una ridistribuzione di organici oggi sovrabbondanti in alcune sedi giudiziarie, molto carente in altre, in modo da assicurare una migliore distribuzione delle risorse professionali in relazione alla reale domanda di giustizia. Ma altrettanto se non più importante per la migliore tutela di interessi complessi appare la creazione di Tribunali specializzati per la trattazione delle materie più tecniche, in modo da consentire al giudice che via via approfondisce la sua esperienza sugli aspetti più problematici di materie nuove rispetto alle fattispecie pe­nali tradizionali, di motivare le proprie decisioni più adeguatamente, rapidamente e secondo canoni più omogenei e quindi tendenzial­mente prevedibili. Già l’esperimento delle sezioni specializzate in materia di impresa aveva dato buoni frutti, ma ne darebbe di ancora migliori se si trattasse di veri e propri Tribunali specializzati, dotati cioè di un proprio organico, che invece di dover far fronte a compiti diversi (il che ne ha via via eroso le potenzialità) sia destinato a oc­cuparsi in via esclusiva delle materie assegnate, moltiplicando così in maniera significativa i risultati della specializzazione. Ad analoghi modelli potrebbe ispirarsi il Tribunale della famiglia, che si trove­rebbe così, più sollecitamente e con più approfondite conoscenze, a far fronte alle necessità spesso emergenziali dei minori, delle donne vittime di violenza, dei familiari che subiscono maltrattamenti, delle liti in corso di separazione o divorzio.

Se sull’annodarsi di problemi del genere di quelli fin qui sommaria­mente sintetizzati si concorda frequentemente, e se su alcune delle possibili soluzioni ancora si discute, non altrettanto spesso si affronta il tema delle radici più profonde del problema. Per chi abbia visto applicare, prima del codice varato nel 1988 dal ministro Vassalli, il codice Rocco del 1930, la domanda sulle cause di un sistema pro­cessuale inefficiente non può non focalizzarsi sul se e sul perché quel sistema non produceva, o comunque conteneva, gli effetti di mag­giore criticità invece derivanti dal testo attualmente in vigore. Non si tratta, ovviamente, di un auspicio di ritorno al passato, ma di un profilo di comparazione sistematica finora piuttosto inesplorato, che potrebbe guidarci nella individuazione di alcuni errori di fondo e quindi suggerire possibili rimedi.

Se si mettono a confronto i due codici, si rileverà che il testo del 1930 aveva scelto la filosofia processuale del sistema inquisitorio, cioè un sistema in cui la prova veniva raccolta nella fase delle indagini, sotto la guida, più o meno penetrante, del giudice, a seconda che si trat­tasse di una istruttoria formale o sommaria. In entrambi i casi, grazie alla interlocuzione tra Pubblico Ministero e giudice istruttore, che in parte si estendeva anche al difensore, la prova giungeva alla fase di­battimentale già formata e andava tendenzialmente solo confermata in dibattimento. Al di là dei meriti o degli aspetti negativi di questo sistema, certamente esso attribuiva al giudice istruttore una vera ca­pacità di selezionare e filtrare ciò che doveva e ciò che non doveva andare a giudizio, consentendo inoltre di celebrare il dibattimento in tempi ragionevolmente brevi. Il codice del 1988, invece, si è basato su un sistema processuale tendenzialmente accusatorio, la cui filoso­fia di fondo si ispira al principio di formazione della prova nella fase dibattimentale, consentendo un pieno contraddittorio tra le parti, attraverso l’esame incrociato dei testimoni e la selezione dei docu­menti utilizzabili. La fase delle indagini preliminari, a sua volta, viene ridimensionata a una funzione di raccolta da parte del Pubblico Mi­nistero degli elementi indizianti, che analizzerà per i primi sei mesi nel segreto, proseguirà in una prospettiva sostanzialmente solipsisti­ca, per incrociare il giudice e la difesa solo in occasione delle richieste di proroga delle indagini o a seguito dell’avviso di conclusione delle stesse. Il tutto confluirà poi in una udienza preliminare in cui il giu­dice dovrà pronunciarsi non sul merito ma sulla necessità o meno di portare a dibattimento gli elementi raccolti dall’accusa e, nella fase fi­nale, anche dalla difesa. Un sistema, dunque, fortemente concentrato sul dibattimento, fortemente ispirato al metodo del contraddittorio “all’americana”, in cui le parti esaminano e controesaminano, inter­rogano e controinterrogano, propongono ed escludono documenti, incrociandosi tra di loro, innanzi a un giudice che deve formare il suo convincimento mano a mano che prove testimoniali e documentali si formano davanti ai suoi occhi. Un dibattimento, dunque, neces­sariamente lungo e costoso, compatibile solo con il sistema giudizia­rio statunitense, nel quale meno del 10% delle indagini sfociano in dibattimento, risolvendosi il residuo 90% con una serie di formule alternative, più o meno assimilabili al nostro patteggiamento.

Il legislatore del “nuovo” codice non tardò a rendersi conto di quanto il sistema sostanzialmente accusatorio che si andava varando confi­gurasse una forma di giustizia elitaria e richiedesse ampi spazi tempo­rali per assicurare l’oralità del processo e il pieno contraddittorio tra le parti. Esso, infatti, espressamente ammise che il sistema avrebbe potuto funzionare esclusivamente se si fosse avuto accesso a sistemi alternativi e si fossero attivati filtri tali da assicurare che solo il 20- 30% dei processi andasse a dibattimento. La realtà odierna ci mostra come siano andate le cose, giungendo a una percentuale del tutto rovesciata rispetto a quella auspicata, con la quasi totalità di indagini che confluiscono nel dibattimento.

Appare molto interessante allora esaminare quali siano state le cause di questo fallimento ed è di immediata evidenza rinvenirle in due problemi principali. Il primo è rappresentato dallo scarso o quasi nullo potere filtrante dell’udienza preliminare, già evidenziatosi nella originaria interpretazione della formula di proiezione probabilistica sugli esiti del dibattimento e poi trasformatosi in un mero passaggio di consegne dal giudice dell’udienza preliminare al giudice del dibat­timento. Ciò a seguito di sentenze delle Sezioni unite della Cassa­zione e poi della Corte costituzionale del 1996, in cui si passava dal canone prognostico di colpevolezza o di innocenza al canone ben più restrittivo della necessità o meno di dare ingresso alla successiva fase del dibattimento in considerazione della idoneità o meno degli elementi acquisiti a sostenere l’accusa in giudizio. Evidenti le conse­guenze di aver strutturato un filtro a maglie così larghe da perdere ogni potere effettivamente selettivo. Ben vengano dunque le più se­lettive formule proposte dalla commissione Lattanzi per il disegno di legge delega sulla riforma del codice di pro­cedura penale, che prevede il rinvio a giudizio solo quando il giudice dell’udienza preliminare ipotizza che gli elementi acquisiti siano idonei a portare a una condanna dell’imputato.

Il secondo problema è rappresentato dalla scar­sa attrattività dell’istituto del patteggiamento per ampie categorie di imputati, soprattutto nel campo del diritto penale dell’economia. L’istitu­to in questione era stato originariamente struttu­rato come un accordo tra Pubblico Ministero e difensore, che da un lato comportava certamen­te l’applicazione di una pena, ma dall’altro non presupponeva un espresso riconoscimento di responsabilità. Esso però si è andato via via trasformando, soprattutto a seguito della legislazione speciale che ne andava riempendo la cornice, nell’equivalente di una sentenza di condanna, con tutte le conseguenze correlate alla impossibilità di ricoprire alcune cariche nel mondo delle banche, delle imprese pub­bliche, della pubblica amministrazione e di alcuni settori dell’im­prenditoria privata. Evidente quindi che non abbia potuto più as­solvere, se non per limitate categorie di reati, alla funzione deflattiva del dibattimento che era stata originariamente assegnata all’istituto. Solo la previsione di ben più ampie e incentivanti categorie di patteg­giamento potrebbe assolvere a una sostanziale funzione di selezione dei comportamenti per i quali è richiesto il passaggio al dibattimen­to. Il tema è affrontato anche nel testo elaborato dalla commissione Lattanzi, che apre ad alcune prospettive di ampliamento dei confini di questa modalità alternativa di soluzione del caso. Se poi si volesse dare la massima estensione all’istituto, senza rinunciare a condivisi­bili esigenze di effettività della punizione, esse potrebbero comunque venir garantite attraverso livelli adeguati di sanzione pecuniaria e di risarcimento del danno, mentre una forte capacità dissuasiva potreb­be essere assicurata attraverso la esclusione dai benefici e dalla con­cessione di un secondo patteggiamento in caso di recidiva.

Sarebbe auspicabile, infine, introdurre cause di estinzione del reato quando l’autore del fatto illecito abbia totalmente estinto la propria obbligazione amministrativa, ad esempio in sede tributaria, e nel suo comportamento non si ravvisino profili di lesività diversi da quelli collegati all’inadempimento dell’obbligo fiscale o aspetti di frode. In tal caso, la duplicazione di giudizi darebbe luogo non solo a un rallentamento del sistema processuale, ma anche alla violazione del principio del ne bis in idem sostanziale, in difformità, oltretutto, da ogni altra legislazione europea. Anche in questo caso si determine­rebbe un forte effetto deflattivo del dibattimento, senza danno per gli aspetti di giustizia sostanziale.

In conclusione, se si vuole tenere in piedi il sistema accusatorio e conciliarlo con tempi ragionevoli del dibattimento, occorrerà con­centrarsi, oltre che su tanti singoli aspetti di modifica del processo penale, sulla filosofia di fondo che ad esso deve presiedere, da un lato rispettando l’antico e saggio principio per cui la sanzione penale deve intervenire come extrema ratio del sistema, dall’altro restituendo all’udienza preliminare e al patteggiamento la funzione di valvola di sfogo di un sistema molto complesso, costoso e che richiede tempi lunghi per la celebrazione del dibattimento. Non sarà la panacea di tutti i mali, ma insieme agli interventi cui si è fatto cenno in apertura e ad altri cui ha messo mano la commissione Lattanzi, potrà correg­gere gli originari errori di prospettiva o di applicazione del codice di procedura penale varato, con tanti entusiasmi e con tante illusioni nel 1998, dopo ben 44 anni di preparazione legislativa.