Il welfare state tra diritti e investimento sociale

Di Gianluca Busilacchi Martedì 23 Luglio 2019 11:45 Stampa


LA SVOLTA DI FINE SECOLO: 
DAI DIRITTI SOCIALI PASSIVI ALLA LOGICA DELL’ATTIVAZIONE

Storicamente il welfare state ha rappresentato uno dei principali meccanismi di regolazione degli effetti distributivi del mercato. Fin dalla sua nascita, sul finire del XIX secolo, è stato grazie alle prime assicurazioni sociali obbligatorie che i lavoratori hanno potuto godere di una minima tutela della loro condizione economica nei casi in cui si trovavano sprovvisti di salario a causa dei rischi sociali. Quando nel secondo dopoguerra, sulla spinta delle riforme beveridgiane, alle politiche previdenziali si sono affiancati meccanismi di assistenza e sicurezza sociale, lo Stato sociale ha iniziato a rappresentare in tutta Europa qualcosa di più che un mero riequilibratore degli eccessi distorsivi del capitalismo, vale a dire un elemento fondante di un particolare modello di capitalismo, quello europeo.

Ciò che oggi tendiamo a definire come modello sociale europeo altro non è, infatti, che il prodotto di quella fortunata combinazione di sviluppo economico e di politiche pubbliche che intervenivano nella allocazione di risorse, una politica economica keynesiana e l’espansione delle politiche sociali. Tale combinato disposto ha garantito, durante i trenta anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, il benessere dei cittadini europei, limitando la diseguaglianza e rafforzando la coesione sociale nel continente; aspetti che hanno differenziato il modello europeo da altri modelli di capitalismo, in particolare da quello americano. Da questo punto di vista il welfare state europeo ha combinato due importanti caratteristiche: da un lato ha rappresentato una istituzione con carattere regolativo degli squilibri di mercato, dall’altro una istituzione fondativa di diritti sociali di cittadinanza. La cittadinanza europea, dunque, trova un importante momento fondativo e un tratto identitario nei diritti sociali resi esigibili dall’impianto delle politiche continentali della cosiddetta “epoca fordista del welfare state”.

Ma oggi, proprio nel momento in cui il concetto di cittadinanza europea fondata sulle politiche pubbliche dovrebbe trovare un rilancio per rafforzare quel processo di integrazione europea che sta vivendo una particolare situazione di difficoltà, che cosa sta accadendo alla relazione tra diritti sociali e welfare state?

La crisi del welfare state fordista, che inizia già dagli anni Ottanta, porta infatti una serie di trasformazioni non solo nell’impianto delle politiche ma anche nell’impostazione di fondo dello Stato sociale, che vanno a incidere nel rapporto tra Stato e cittadino. Fino a qualche decennio fa, infatti, lo schema tradizionale di politica sociale prevedeva un rapporto passivo e unidirezionale tra lo Stato erogatore del beneficio e il cittadino titolare del diritto sociale. Tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta, però, da un lato la crisi di finanza pubblica a cui è sottoposto il welfare state, con la necessità di contenere la spesa sociale, dall’altro la crescente disoccupazione e l’emergere di nuove forme di vulnerabilità, precariato ed esclusione sociale, portano allo sviluppo di politiche sociali attive, in cui il beneficiario non si limita a “ricevere” lo strumento di policy, ma ne diventa, appunto, parte attiva. Questa nuova logica, che trasforma gran parte delle politiche sociali, presenta in realtà una doppia connotazione: a tale proposito si è parlato di due diversi approcci alla attivazione, uno “promozionale”, volto ad accrescere le capacità lavorative del beneficiario, e uno “vincolante”, volto ad aumentare la partecipazione lavorativa per diminuire la dipendenza dal welfare.

La strada intrapresa negli ultimi decenni, in un senso o nell’altro, dai vari paesi europei è stata determinata dalla storia delle loro politiche e dalla sensibilità politica dei singoli governi. In Francia, ad esempio, la grande attenzione al tema dell’esclusione sociale (les exclus) che si diffuse nel dibattito e nell’opinione pubblica verso la fine degli anni Ottanta, ha senza dubbio segnato la prospettiva con cui alcune politiche sono state realizzate nel corso del decennio successivo, con una particolare enfasi sul tentativo di garantire un diritto all’inserimento sociale ai beneficiari delle misure: ne è un esempio il revenu minimum d’insertion, sviluppatosi proprio in questo periodo, in cui si configurava una sorta di doppio diritto per i poveri: un diritto al reddito, a cui si sommava un diritto all’inclusione sociale tramite politiche di inserimento attivo. Analogamente nei paesi scandinavi, grazie alla loro tradizione di policy, la visione con cui le politiche di attivazione sono state implementate è stata quella di un welfare promozionale e volto ad accrescere lo sviluppo umano.

Al contrario, in Gran Bretagna, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, si assiste a una significativa svolta rispetto alla tradizione del paese in cui il welfare state di cittadinanza era nato con lord Beveridge: i governi conservatori si caratterizzano per un taglio alla spesa sociale e poi per una riconfigurazione delle politiche verso un rigido workfare, centrato su un forte richiamo alla responsabilizzazione dei beneficiari delle politiche di assistenza. In realtà ciò che stupisce maggiormente sul piano politico è che i successivi governi laburisti si sono limitati a correggere in modo marginale tale approccio, mantenendo una forte impronta workfarista all’impianto complessivo.

Ma quale è il rischio che questa interpretazione più rigida del cosiddetto welfare attivo, può determinare in termini di diritti sociali?

Il rischio concreto è che i diritti sociali perdano uno statuto autonomo e una propria piena esigibilità, che verrebbe condizionata all’ottemperanza a un “parallelo” dovere sociale. Nel momento in cui al beneficiario di una politica viene chiesto di adempiere ad alcuni obblighi e mettere in campo determinate azioni come controprestazione necessaria per poter avere accesso a un beneficio, il diritto sociale diventa un diritto-dovere, e dunque perde certamente consistenza e indipendenza.

Questa eventualità è ben esemplificata dalle versioni più rigide delle politiche di reddito minimo (come appunto quella inglese), in cui il diritto al reddito viene fortemente condizionato a una serie di doveri richiesti al beneficiario, in assenza dei quali la prestazione monetaria cessa di esistere. Dalla fine degli anni Ottanta, in sostanza, l’approccio neoliberista, dapprima in Gran Bretagna e poi in altri paesi europei, ha condizionato le politiche di welfare e persino il pensiero di sinistra su questo tema, trasformando un’impostazione di policy centrata sui diritti sociali in un approccio in cui l’inserimento lavorativo “a ogni costo” e l’attivazione del beneficiario non vengono più interpretati come opportunità da offrire ai cittadini, ma come doveri a cui coloro che ottengono un diritto non possono irresponsabilmente sottrarsi.

I casi deteriori da questo punto di vista si hanno nell’interpretazione estrema di tale principio nelle politiche sanitarie: sta prendendo infatti piede nel dibattito, anche in questo caso con apripista la Gran Bretagna (paese del primo sistema sanitario pubblico, il NHS), l’idea che ai pazienti poco “meritevoli” – perché ad esempio fumatori, o bevitori, o persone che assumono sostanze illecite – possano essere rifiutate le cure gratuite a carico della fiscalità generale, poiché considerati responsabili della propria condizione di scarsa salute. Una spirale che rischia di essere pericolosamente distorsiva, se non corrosiva, dei principi cardine dei diritti sociali. C’è un forte pericolo, dunque, nell’assumere aprioristicamente il concetto di responsabilizzazione del beneficiario di politiche sociali, che rischia di smantellare alcuni principi fondanti della cittadinanza europea.


IL PARADIGMA DELL’INVESTIMENTO SOCIALE E IL FUTURO DEL MODELLO SOCIALE EUROPEO

Negli ultimi anni la prospettiva dell’attivazione dei beneficiari delle politiche è stata ulteriormente declinata in un nuovo paradigma, quello dell’investimento sociale.1 Il cuore di tale prospettiva, come dice la parola stessa, è di considerare la crescita di capitale umano che si può realizzare tramite le politiche sociali, come un investimento che abbia un “tasso di ritorno” per lo Stato, in termini di maggiore occupazione e di minore dipendenza dal welfare state. Una interpretazione dell’attivazione individuale basata sul concetto di making work pay, piuttosto che alle concrete opportunità di realizzazione delle capacità individuali, delle capabilities, per dirla con Amartya Sen; i principali campi di applicazione di questa prospettiva riguardano le politiche attive del lavoro, quelle dell’istruzione e della formazione professionale e le politiche di conciliazione tra famiglia e lavoro.

Rispetto al welfare di cittadinanza che ha segnato i “trenta gloriosi”, con questo nuovo paradigma due aspetti molto importanti sono mutati. Anzitutto cambiano l’impostazione politica di fondo e l’obiettivo del welfare state, che prima era visto come strumento per ridurre la diseguaglianza e accrescere le opportunità di benessere tramite una redistribuzione delle risorse e l’istituzione di diritti sociali e ora diventa strumento per sostenere la competitività della forza lavoro delle economie avanzate. Ma a mutare è persino la visione del cittadino stesso, che in questa prospettiva è visto unicamente come un individuo “ricevitore” (con l’aggravante che in questo caso il “ricevere” verrebbe condizionato a una controprestazione), piuttosto che come un “attore sostanziale” della propria comunità. Con una serie di documenti, raccomandazioni e iniziative del Consiglio e della Commissione, l’Unione europea, fin dall’Agenda di Lisbona e da ultimo con Europa 2020, ha sostenuto con grande forza il paradigma dell’attivazione prima e l’approccio del Social Investment più recentemente, come matrice fondante delle politiche del nuovo welfare europeo, cercando così in qualche modo di indirizzare anche le singole riforme nazionali.

La Strategia europea per l’occupazione è stata, ad esempio, parte integrante di questa nuova direzione della politica europea verso misure di attivazione pro-work dei beneficiari di politiche sociali, in modo sia da aumentare la loro occupabilità, sia da diminuire il più possibile la dipendenza dal welfare dei cittadini europei. In sostanza, da un lato l’occupazione viene vista dall’Unione europea come il principale driver per consentire una piena inclusione sociale e l’uscita dalla povertà, dall’altro i vincoli di finanza pubblica e la necessità di contenere la spesa sociale, anche per tenere fede ai requisiti previsti dal Patto di stabilità e di fronte alla lenta uscita dalla crisi economica, sembrano segnare le priorità politiche del “nuovo welfare europeo”.

Nel 2013 l’adozione del Social Investment Package da parte del Consiglio europeo ha segnato chiaramente la modalità con cui l’Unione europea interpreta le politiche di attivazione del beneficiario di assistenza sociale: con l’espressione “welfare attivo” l’Europa tende a significare attivazione occupazionale più che attivazione sociale, e dunque anche la declinazione delle misure di policy dovrebbe seguire tale impostazione: il social investment paradigm segnerebbe così la direzione politica su cui declinare nel futuro il social pillar e le politiche di welfare europeo, in particolare quelle di contrasto all’esclusione sociale.

L’applicazione del paradigma del social investment nelle politiche contro la povertà e nel loro eventuale ri-disegno sarebbe piuttosto significativo dal punto di vista della trasformazione nell’impostazione di fondo del welfare state europeo, tanto che questo aspetto ha portato forti critiche all’approccio dell’investimento sociale, soprattutto per l’eccessiva condizionalità a cui sarebbero sottoposti alcuni diritti sociali per i più bisognosi: l’attivazione dei beneficiari, l’individualizzazione dei servizi di inserimento e la stringente condizionalità delle prestazioni sono infatti i tre pilastri su cui si fonda l’approccio del social investment secondo la Commissione europea.

È, ad esempio, scritto in un documento ufficiale della Commissione, che fa seguito a una raccomandazione sull’attivazione dei disoccupati, che il reddito minimo non dovrebbe essere superiore al 40% del reddito mediano per eliminare trappole di inattività. Sempre secondo questo approccio non dovrebbe essere possibile rifiutare alcun lavoro che venga proposto durante i percorsi di inserimento: in sostanza le politiche di contrasto alla povertà diventerebbero ancillari all’occupabilità dei beneficiari, piuttosto che attente più in generale all’inclusione sociale e a una “crescita umana”. Una prospettiva, dunque, completamente ri-mercificatrice, con l’obiettivo di valorizzare l’individuo esclusivamente in funzione della sua posizione nel mercato del lavoro e di interpretare il welfare come un fattore produttivo più che come un fattore di cittadinanza. Certo, la prospettiva dell’investimento sociale (così come la logica dell’attivazione) presenta anche lati positivi, in termini di attenzione alla occupabilità e in generale all’obiettivo delle politiche di accrescere le opportunità di vita del cittadino, ma può essere complementare e non sostitutiva della tradizionale prospettiva fondata sulla protezione sociale e non va accettata acriticamente.

Ci pare infatti di poter scorgere tre possibili rischi connessi a una sua accettazione rigida e acritica: il rischio che il fulcro del modello sociale europeo divenga il welfare to work e il suo unico obiettivo l’aumento dell’occupazione, qualunque essa sia. Ciò sarebbe errato perché senza una parallela attenzione alla qualità del lavoro, della sua dignità e dei suoi diritti, il lavoro non sarebbe automaticamente associato a un incremento del benessere, della coesione sociale e a una riduzione della diseguaglianza: lavori di bassa qualità esisteranno sempre ed è ingiusto “imprigionare” i lavoratori che non riescono ad arrivare a posizioni medio-alte nella prospettiva di un obbligo ad accettare qualsiasi lavoro a bassa qualifica come controprestazione per potere godere di diritti sociali.

Un secondo rischio dell’abbraccio acritico alla prospettiva dell’investimento sociale è legato al fatto che questo approccio si fonda sull’ipotesi di una crescita economica che continui a creare opportunità di impiego per la forza lavoro a elevata formazione,2 in assenza della quale non può esserci alcun “ritorno di investimento”: uno scenario che appare piuttosto lontano da quello attuale per i paesi europei o almeno per alcuni di essi.

Il terzo è forse principale rischio è che assumere la base normativa del social investment in sostituzione, invece che in integrazione, a quella del welfare di protezione sociale significa rinunciare alla garanzia di diritti sociali autonomamente esigibili come fondamento della cittadinanza europea e legarli piuttosto a controprestazioni. Un rischio molto grave sul piano della filosofia di fondo del welfare europeo, su cui da un lato le forze progressiste dovrebbero interrogarsi sul piano più strettamente politico, e dall’altro l’Unione europea dovrebbe chiedersi, sul piano istituzionale, se questo non rischia di trasformare il social pillar e una delle basi fondative della cittadinanza europea, in un momento così delicato.

Occorre dunque, specie in un momento di crisi non solo della politica europea ma anche delle condizioni socioeconomiche dei suoi cittadini, che venga mantenuto un welfare state “protettivo”, di protezione sociale, a fianco di quello attivo e di promozione sociale. Viviamo infatti un’epoca in cui non esistono solo nuovi rischi emergenti, ma permangono anche i vecchi rischi, che hanno riproposto il loro volto peggiore, quello della diffusione della povertà, della crescente diseguaglianza e dell’immobilità sociale; va dunque evitato che l’approccio del social investment sostituisca la logica della protezione e della redistribuzione. La prospettiva dell’attivazione e della promozione sociale va dunque accolta, purché non sia in contrapposizione con un modello sociale europeo fondato sui diritti “passivi”, che non significa inutili o negativi, ma che hanno anzi garantito benessere e pace sociale al nostro continente.

 


 

[1] A. Hemerijck (a cura di), The Uses of Social Investment, Oxford University Press, Oxford 2017.

[2] Si veda C. Crouch, Welfare state come investimento sociale: per quali obiettivi?, in “Rivista delle politiche sociali”, 3/2017.