In politica, il lessico è sostanza. Per la prima volta dopo molti anni, almeno dal 2021, l’Europa in Italia non è più tanto concettualizzata in termini di vincoli esterni e di regole, quanto di occasione storica. Senza dubbio il “merito” di questo cambiamento di prospettiva è di Next Generation EU (NGEU), il pacchetto finanziario da 750 miliardi di euro, adottato dalla UE come risposta collettiva alla crisi pandemica, e soprattutto da una sua componente assai rilevante, il Dispositivo per la ripresa e resilienza (RRF). È questo il quadro finanziario in cui si inserisce il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), al quale sono agganciate iniziative strutturali nei due settori gemelli della transizione energetica e di quella digitale.
Tuttavia, le grandi promesse di sviluppo e innovazione generate dal Piano si sono presto scontrate con un evento drammatico: un conflitto di portata sistemica nell’immediato “vicinato” dell’Unione.
Le scelte politiche dei maggiori Stati membri dell’Unione, e cioè Germania, Francia e Italia, sono state articolate tra due riferimenti obbligati: quello costruttivo (interno) di un grande piano di rilancio economico e sociale e quello distruttivo (esterno) dell’attacco all’integrità territoriale e alla sovranità dell’Ucraina.
Non si tratta, a ben vedere, del “ritorno” della guerra in Europa. Come non ricordare i sanguinosi conflitti legati alla dissoluzione della ex Jugoslavia, il confronto armato nel Nagorno Karabakh tra Armenia e Azerbaigian, la guerra russo-georgiana del 2008, la militarizzazione del separatismo filo-russo in Donbass e l’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014? Ma l’aggressione russa all’Ucraina del 24 febbraio 2022 ha una natura qualitativamente assai più grave, perché il suo estesissimo fronte e la sua intenzionalità politica riportano l’Europa all’epoca delle conquiste territoriali attuate con i carri armati.
Si tratta di un conflitto a suo modo “globale”, perché destinato a mutare la stessa configurazione del sistema internazionale quanto ai para metri della sicurezza collettiva, della polarità, della governance. Da una parte, riporta in auge la competizione tra le grandi potenze, in particolare Stati Uniti, Russia e Cina. L’Unione europea si trova dunque confrontata con il dilemma – stavolta ineludibile perché esistenziale – se trasformarsi in un’area politica coesa, determinata e capace di compiere scelte precise, oppure condannarsi a un perpetuo negoziato alla ricerca del minimo comune denominatore, particolarmente pernicioso in materia di politica estera e di difesa.
Dall’altra, il conflitto conduce inevitabilmente alla ristrutturazione dell’intelaiatura, dell’infrastruttura delle relazioni internazionali. Esso determina già ora cambiamenti sostanziali (nel senso sia della destrutturazione che in quello della riconfigurazione) del vasto edificio di cooperazione internazionale costruito pazientemente dall’internazionalismo liberale del secondo dopoguerra.
LA SVOLTA DELL’UNIONE
Non c’è dubbio che l’aggressione russa all’Ucraina abbia avuto per la UE e i suoi Stati membri un effetto incomparabilmente superiore, in termini di reazione, allo shock subito a seguito della decisione della Gran Bretagna di abbandonare l’Unione.
Appena un mese dopo lo scellerato azzardo di Mosca, l’Unione europea ha approvato la sua Bussola strategica, un documento-guida per la politica di sicurezza e difesa comune, articolato su quattro pilastri: azione, e cioè rafforzare la capacità della UE in caso di crisi in regioni strategiche per l’Unione; sicurezza, vale a dire incrementare la capacità di tenuta rispetto alla gamma di minacce in nuovi domini (spazio extra atmosferico, spazio cibernetico); investimenti, con il miglioramento degli esborsi per la difesa dell’Europa, attraverso economie di scala, progetti comuni e ricorso a tutti gli strumenti UE disponibili;1 partenariato, cioè sviluppare rapporti solidi sia con paesi affini per valori e interessi (quali Stati Uniti, Regno Unito, Norvegia, Canada e Giappone), sia con organizzazioni internazionali come la NATO, le Nazioni Unite, l’OSCE e l’Unione africana.
La risposta dell’UE all’invasione russa dell’Ucraina si è inoltre concretamente articolata, sotto il profilo dell’assistenza militare, con l’attivazione del fondo European Peace Facility che, a dispetto della denominazione (talvolta il lessico in politica è superato dalla sostanza), ha previsto l’invio di materiali “letali”. Si tratta, al di là della reale dimensione del fondo, della spia di un cambiamento di approccio dell’Unione rispetto al disordine internazionale, che per decenni si era basato sul concetto di civilian power, in contrasto con la visione delle relazioni internazionali in termini di politica di potenza. Si è parlato, non senza esagerazione condita dall’ideologia della realpolitik, di un brusco “risveglio” dell’Europa rispetto alla politica estera e alle sue direttrici fondamentali in una nuova condizione, quella dell’interregno, in cui forse si può ancora evitare che il disordine si trasformi in caos.
L’Unione europea, “forza gentile” secondo la formula di Tommaso Padoa Schioppa, basata su Venere invece che su Marte secondo Robert Kagan («Americans are from Mars and Europeans are from Venus»), potenza “erbivora” in un mondo di “carnivori” (per Ivan Krastev e Mark Leonard),2 ordine politico “kantiano” in un mondo “hobbesiano”, avrebbe dato prova di sapersi posizionare anche in termini di sostegno alla difesa ucraina, superando nello spazio di poche ore ogni obiezione politica sulla sua profilazione come fornitore di sicurezza (hard security), in quanto attore, in senso lato, militare.
La portata di questa virata è stata oltremodo enfatizzata, ma non è stata affatto risolta la questione di fondo, e cioè come l’Unione possa ambire a dettare l’agenda internazionale e, al contempo, illudersi di non subirne i rischi.
LE SVOLTE NAZIONALI
Come tutti i fatti tragici della storia, la guerra russa contro l’Ucraina ha vanificato la distinzione interno-esterno. La svolta (stavolta il lessico corrisponde alla sostanza), la Zeitenwende, termine più volte scandito dal cancelliere Scholz (ma usato sin dal 2014 dal presidente Joachim Gauck, e poi divenuto un concetto consensuale nella nuova politica estera tedesca) è avvenuta nel punto di intersezione tra politica interna e politica estera. Ha mutato i parametri fondamentali delle politiche della difesa, soprattutto in termini di previsioni finanziarie, talvolta anche ben oltre la soglia del 2% del PIL assunta in ambito NATO come livello di riferimento. Si sono prodotti in brevissimo tempo cambiamenti di politica spettacolari: un investimento della Germania di 100 miliardi di euro per la spesa militare, sia pure in termini pluriennali; la decisione di Svezia e Finlandia di entrare nella NATO, abbandonando rispettivamente oltre due secoli e quasi ottant’anni di neutralità; un referendum danese del 1° giugno 2022 che ha sancito l’abolizione della deroga della partecipazione del paese alla politica estera e di difesa comune dell’UE.
UNA DIFESA DAVVERO EUROPEA
Questo nuovo dinamismo richiede che si chiariscano due questioni fondamentali. In primo luogo, solo in un quadro europeo le spese annunciate possono tramutarsi in investimenti razionali per la difesa intesa in modo olistico, scongiurando uno scenario di corsa al riarmo nazionale che finirebbe per ingenerare (paradossalmente) nuovi dilemmi di sicurezza nel cuore dell’Europa, oltre che un ulteriore spreco di risorse in termini di duplicazioni, sovrapposizioni, incongruenze. In questa direzione vanno le linee-guida della Dichiarazione di Versailles (marzo 2022), specie per quanto concerne gli “investimenti collaborativi” europei per migliorare la sicurezza della UE. A medio-lungo termine, anche ai fini di sostanziali risparmi nelle spese militari da utilizzare in settori di sviluppo alternativi, la visione non può che essere quella della progressiva integrazione delle forze armate nazionali, nel contesto di una Europa della difesa pienamente sinergica con la NATO per gli aspetti militari di tutela della sicurezza, lo svolgimento di iniziative coerenti di protezione umanitaria (la “sicurezza umana”) e per l’effettuazione di missioni di mantenimento della pace sotto l’egida delle istituzioni multilaterali nel rispetto della legalità internazionale.
Senza negare la necessità di una revisione della politica comune di sicurezza e difesa, ciò non può avvenire a scapito della natura originaria del progetto europeo: la creazione di un’area di integrazione politica capace di assumere responsabilità di forza stabilizzatrice a livello continentale e transregionale. La stessa tragedia dell’Ucraina suggerisce la necessità di una nuova configurazione della sicurezza paneuropea (una “Helsinki II”). In secondo luogo, e più fondamentalmente, non si può pensare a una difesa europea senza il presupposto indispensabile di una politica estera autenticamente europea, e non solo “spezzoni” di policy, come ad esempio i regimi sanzionatori, gli accordi di associazione, i dialoghi strategici.
DAL FUTURO AL PRESENTE
Il lancio, nel 2021, della Conferenza sul futuro dell’Europa, con ampi dibattiti, specie tra le giovani generazioni a livello della società civile nei paesi membri dell’Unione, si è concluso nel maggio del 2022 con una lunga serie di proposte, alcune focalizzate sul ruolo dell’Europa in un “mondo pacifico”, e in buona misura articolate lungo il tradizionale approccio normativo, e cioè centrato sul ruolo-guida europeo in termini di partenariato, multilateralismo, globalizzazione dei diritti.
In corso d’opera, tuttavia, le priorità dell’Unione si sono strutturalmente trasformate, pur nell’alveo dei principi fondamentali posti dai Trattati. In luogo di prospettare politiche di cambiamento rivolte al futuro, l’Europa ha dovuto fare i conti con l’immediata articolazione di politiche al presente. Anche in questo caso, i parametri rassicuranti del discorso istituzionale dell’Unione sono stati sconvolti.
Gli Stati membri sono stati indotti a prendere sul serio, come proposte attuabili e soluzioni auspicabili, questioni altrimenti ritenute per decenni oziose e retoriche, come, per l’appunto, l’Unione della difesa e l’Unione dell’energia. Stesso destino per le politiche migratorie, che dinanzi all’ondata di profughi ucraini si sono rivelate improvvisamente (e provvidenzialmente) generose, dimostrando una capacità di assorbimento delle società europee superiori a ogni aspettativa. Quest’apertura non è passata inosservata, in termini di comparazione critica, per la sua asimmetria, in diversi paesi di provenienza delle migrazioni dalle rotte africane.
In tema di allargamento, la domanda di adesione all’Unione dell’Ucraina (assieme a quelle della Moldova e della Georgia) ha impresso un’accelerazione che ha coinvolto anche i Balcani occidentali (Albania, Macedonia del Nord), da troppo tempo in “anticamera”. Tuttavia, il perimetro della polity europea (l’appartenenza all’Unione) rischia di ampliarsi con un potenziale sbilanciamento a est, senza un progetto condiviso e al fuori di una strategia ponderata anche nei termini delle sue conseguenze non previste.
L’idea di un’Unione a 30 o a 36 Stati ha riportato in auge la vecchia discussione, abbandonata almeno dal Trattato di Lisbona, dell’adeguamento delle istituzioni. È stato, da ultimo, il cancelliere Scholz, nel delineare il lato “europeo” della Zeitenwende, a proporre il progressivo abbandono dell’unanimità per passare alla maggioranza qualificata (come peraltro aveva già fatto, tra i primi, Mario Draghi a Strasburgo nel maggio del 2022, parlando del “federalismo pragmatico” e del coraggio di rivedere i trattati) ad esempio in politica estera e per la politica fiscale, come alternativa funzionale ai “cerchi concentrici”, ai gruppi d’avanguardia, agli “opt-out” («una giungla di regole diverse» e «un groviglio confuso», secondo il cancelliere Scholz).
Ma la razionalizzazione riguarda anche e soprattutto la stessa appartenenza all’Unione europea. Qui si passa dal federalismo pragmatico interno al pragmatismo confederale esterno, secondo la proposta di Macron di una Comunità politica europea, che il cancelliere Scholz interpreta, in termini operativi, come un forum di discussione politica più che come un nuovo strato istituzionale.
QUALE “EUROPA GEOPOLITICA”?
L’aggettivo geopolitico sembra svolgere il ruolo di far apparire come inevitabili e strutturali scelte politiche che sono invece ancora soggette, fortunatamente, al libero arbitrio. Nell’interpretazione di Ursula von der Leyen, l’ambizione di una Commissione geopolitica esprime piuttosto la volontà di assegnare maggiore coerenza a tutta l’azione esterna dell’Unione. Dopo il 24 febbraio 2022, il prisma geopolitico è usato per convogliare l’idea di una raggiunta unità di intenti sulle opzioni strategiche di lungo periodo degli Stati membri e dell’Unione. Ma questo obiettivo non può essere conseguito al di fuori di un deliberato processo di “federalizzazione”, quanto meno selettivo. Per rendere plausibile l’autonomia strategica dell’Unione, la questione centrale è quella della sovranità democratica europea, un modo per rendere davvero rilevanti le sovranità nazionali in un mondo che è un coacervo di contraddizioni, tra l’interdipendenza che è oggettivamente insuperabile e il rischio di frantumazione e dei contesti di collaborazione politica.
Una declinazione superficiale dell’idea di un’Unione geopolitica può essere in contraddizione con questa visione, arruolando la UE nella crescente polarizzazione avversariale (ideologica e strategica, come nel caso della Cina) del mondo, e indebolendo il suo ethos pluralistico, il suo “potere di connessione” tra aree, contesti, modelli politici ed economici diversi.
Invece di rappresentarsi in termini confusamente geopolitici, l’Unione europea dovrebbe anzitutto operare una riformulazione politica, rendendo esplicita la sua funzione come attore internazionale.
La Grundnorm della politica estera europea è scolpita nella Dichiarazione Schuman: «La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano. Il contributo che un’Europa organizzata e vitale può apportare alla civiltà è indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche».
L’Italia ha un prezioso capitale euro-mediterraneo, oltre che atlantico, da investire fruttuosamente in questa nuova fase di ri-configurazione del progetto europeo.3
[1] In particolare, la Cooperazione strutturata permanente (Permanent Structured Cooperation, PESCO); il Fondo europeo per la difesa (European Defence Fund, EDF) e altri filoni promossi dall’Agenzia europea per la difesa (European Defence Agency, EDA) e dalla Commissione europea.
[2] T. Padoa-Schioppa, Europa, forza gentile. Che cosa ci ha insegnato l’avventura europea, il Mulino, Bologna 2001; R. Kagan, Of Paradise and Power. America and Europe in the New World Order, Vintage Books, New York 2004; I. Krastev, M. Leonard, New World Order: The balance of soft power and the rise of herbivorous powers, ECFR, Berlino 2007.
[3] Le opinioni espresse in questo articolo non impegnano l’istituzione di appartenenza.