Le contraddizioni del Coronavirus non fermeranno il cambiamento green

Di Edoardo Zanchini Mercoledì 20 Maggio 2020 10:39 Stampa
 

Il ciclone Coronavirus ha messo in ginocchio l’economia e rimesso in discussione molte convinzioni, di vicinato e geopolitiche, accade­miche e di vita quotidiana. Chi poteva immaginare che si sarebbe cancellato il Patto di stabilità europeo o che persino il “Financial Ti­mes” arrivasse a chiedere un ruolo maggiore della mano pubblica per uscire dalla crisi? Di sicuro non si poteva prevedere che dopo mesi di attenzione internazionale sull’inquinamento dei mari dovuto alla plastica si passasse a utilizzare ogni giorno milioni di guanti usa e get­ta per difendersi dal contagio. Nei prossimi mesi ci aspetteranno altre contraddizioni, quando dovremo passare dal piacere di vivere in città dove l’aria è pulita e si torna a sentire la natura, alla congestione in cui rischiamo di ritrovarci quando le aree urbane si saranno rimesse in moto. A lungo infatti le persone saranno spaventate dal prendere i mezzi pubblici e, se non si sarà capaci di ripensare e adattare l’offerta di mobilità, rischiamo di essere travolti da livelli di inquinamento peggiori di prima. Eppure chi propone di smetterla di perdere tempo con il Green Deal europeo – come il partito di Giorgia Meloni – non andrà lontano cavalcando queste idee. Per la semplice ragione che la pandemia che stiamo vivendo potrebbe essere nulla rispetto alla crisi climatica che ci aspetta se non cambieremo strada. La bolla dell’at­tenzione sul Coronavirus non ci deve far dimenticare che secondo gli scienziati oramai siamo già dentro un cambiamento del clima che ben presto, purtroppo, tornerà a farsi vedere con ondate di calore, tifoni e alluvioni. Ma non devono essere le paure a farci guardare a un cambiamento delle politiche, ma l’evidenza che oramai le que­stioni ambientali sono a ogni bivio delle decisioni che riguardano il futuro: dagli investimenti alle scelte di innovazione industriale, dalle diseguaglianze al lavoro, fino alla discussione su come ripensare un sistema di poteri in evidente crisi nella sua articolazione tra Stato e Regioni. Proviamo ad approfondirlo rispetto alle questioni più rile­vanti che il nostro paese si trova oggi di fronte per uscire da una crisi senza precedenti.

RILANCIARE GLI INVESTIMENTI

Tutti d’accordo, il consenso è trasversale, servono più investimenti a partire da sanità e infrastrutture. Se poi però si passa dagli slogan alle decisioni si comprende come siamo purtroppo arrivati al capolinea di un processo di decadimento della pubblica amministrazione ita­liana. Le ricette in campo sono la cancellazione del Codice appalti e l’applicazione a tappeto del cosiddetto “modello Genova”, ossia di un sistema di commissariamento con poteri e discrezionalità assolute su ogni aspetto del progetto, della procedura di approvazione, della realizzazione in cantiere. Ma il rilancio degli investimenti è una que­stione molto più complessa, che interessa migliaia di cantieri, dove il declino italiano viene da lontano e si è accentuato negli ultimi dieci anni con una riduzione del 37% nella spesa pubblica.1 Ma non è solo una questione di risorse, oggi il ministero delle Infrastrutture è svuo­tato di ogni capacità di programmazione o controllo mentre gli enti locali, che in questi anni hanno subito i maggiori tagli ai trasferimen­ti, sono oramai da tempo senza personale per cui persino opere per le quali vi sarebbero risorse – come la messa in sicurezza delle scuole, l’efficientamento del patrimonio edilizio pubblico e gli interventi per fermare il dissesto idrogeologico – mancano di progetti da mandare in cantiere e procedono a ritmi per cui ci vorranno secoli per vedere risultati. Inutile nascondere la situazione, è completamente in tilt il sistema delle decisioni, con un dibattito che ruota da anni intorno a improbabili elenchi di opere e di nuovi commissari, mentre nessuno controlla la situazione dei cantieri o prova a proporre soluzioni cre­dibili per sbloccare la situazione.

Se vogliamo rilanciare l’economia e ridurre le diseguaglianze cre­sciute in questi anni dobbiamo affrontare questi nodi, riportando capacità e competenze nella pubblica amministrazione e con un ruolo dello Stato più forte di indirizzo e controllo. L’augurio è che la de­cretazione d’urgenza che caratterizza questa fase porti a semplificare le procedure per gli interventi che da un lato permettono di cambiare modello di sviluppo – banda larga, centraline delle auto elettriche, fino a quelli per l’approvazione di impianti da fonti rinnovabili, di riciclo, di biometano – e dall’altro quelli che restituiscono un ruolo centrale ai Comuni, attraverso risorse e strutture dedicate a supporta­re progettazione e gestione delle gare d’appalto. Di sicuro non esiste strada altrettanto rapida ed efficace per aprire cantieri diffusi in tutta Italia che ripartire proprio dagli enti locali, puntando sugli interventi di cui più c’è bisogno come quelli di manutenzione e riqualificazione urbana. Oltretutto, su questi interventi si può costruire un duraturo programma di investimenti che troverebbe supporto economico nel­la nuova programmazione europea 2021-27, con vantaggi sia econo­mici che occupazionali e ambientali, come descrive nel dettaglio una proposta presentata da Fillea CGIL e Legambiente.2

RIDARE CENTRALITÀ ALLE POLITICHE PUBBLICHE

La pandemia ha reso evidente la fragilità dei sistemi sanitari di tutto il mondo e restituito, dopo anni di attacchi, l’attenzione che meri­ta al ruolo delle politiche pubbliche. È un cambiamento di grande rilevanza, di sicuro un’opportunità da non sprecare per cambiare l’a­genda della discussione pubblica e politica, che da noi deve anche portare a rimettere mano al sistema dei poteri tra Stato e Regioni, il cui malfunzionamento ha avuto una ennesima ma più eclatante dimostrazione nella gestione dell’emergenza sanitaria ed economi­ca. Non potrà esserci un rilancio del paese senza una riforma della pubblica amministrazione, non possiamo permetterci di rinviare a momenti migliori la ricostruzione della capacità progettuale, in par­ticolare a livello locale, e di riorganizzare per missioni3 le politiche pubbliche nazionali con strutture dedicate a realizzare gli obiettivi prioritari. Per le questioni ambientali questa sfida è più evidente e urgente che mai. I ministeri dell’Ambiente, delle Infrastrutture, del­lo Sviluppo economico sono del tutto impreparati e inadeguati ad affrontare problemi di una scala che non abbiamo mai visto prima e che superano i confini regionali e comunali. Come si può pensare di gestire l’impatto dei cambiamenti climatici che avverrà nei prossimi anni con un’articolazione dei poteri e delle competenze come quella attuale? In queste settimane si è dimostrata l’impreparazione a gestire fenomeni di una scala “fuori dall’ordinario”, che necessitano di capacità organizzative e prontezza nella risposta, ma anche di analisi epidemiologi­che, sistemi di allerta e di prevenzione. Ossia di tutto quello a cui dobbiamo prepararci per fare i conti con i cambiamenti climatici in particola­re nell’area del Mediterraneo, che tutti gli studi scientifici sono concordi nel descrivere come una di quelle che vedrà i cambiamenti più profondi,4 per le conseguenze dell’aumento delle tempera­ture nei confronti delle colture agricole e della vivibilità delle aree urbane a seguito dell’esten­dersi di periodi di lunga siccità e poi di piogge intense, in cui diventerà sempre più complessa la gestione delle risorse idriche. Purtroppo le con­seguenze sanitarie rischiano di essere molto rilevanti, in particolare nei confronti della parte più vulnerabile della popolazione che vive nelle città e nelle aree costiere. Oggi non siamo pronti per questa sfida, siamo l’unico grande paese europeo senza un piano di adatta­mento al clima, con Comuni e Regioni che rincorrono le emergenze. Eppure larga parte delle risorse europee della prossima programma­zione sono dedicate proprio per interventi capaci di rafforzare la resi­lienza delle città, dei territori agricoli e dei sistemi boschivi.

Un’altra grande emergenza ambientale che non siamo preparati ad affrontare riguarda la Pianura Padana, che da tempo sui media è rap­presentata dalle immagini satellitari che descrivono un’enorme mac­chia di inquinamento che va dal Monviso alla Romagna. Possibile che un fenomeno di questa dimensione, che incide pesantemente sulla salute delle persone, sia vissuto con un fatalismo misto a im­provvisazione, con blocchi del traffico quando si superano i limiti di legge? Non è affatto un problema irrisolvibile, ma va affrontato con politiche sovralocali e forti investimenti in innovazioni tecnologiche nell’elettrificazione dei sistemi di riscaldamento e nei trasporti, attra­verso ambiziose politiche di rafforzamento del trasporto ferroviario, di riconversione e riduzione dei consumi energetici di tutte le attività produttive.

Infine una grande e storica questione che va affrontata con politiche innovative che mettono assieme temi ambientali, di diseguaglianze e sviluppo dei territori. Nel 2020 al Sud continua a essere impossibile muoversi in treno. Mentre nel resto del paese l’alta velocità e gli in­vestimenti delle Regioni hanno rilanciato la mobilità su ferro, qui la situazione è peggiorata con meno intercity e treni pendolari5 e non esiste un piano per cambiarla. I grandi progetti infrastrutturali, come l’alta velocità Napoli-Bari e Palermo-Catania, non saranno pronti prima del 2026 e gli altri interventi previsti di elettri­ficazione e potenziamento dei binari viaggiano molto lentamente. Inoltre, anche quando sa­ranno realizzati, nessuno può garantire quali e quanti treni ci viaggeranno sopra. Perché le Frec­ce e gli Italo sono a mercato, e bisognerà vedere se gli operatori decideranno se è conveniente. Mentre gli intercity e i treni regionali viaggiano attraverso contratti con il ministero delle Infra­strutture e le Regioni e se non cambieranno le politiche continuerà a risultare impossibile fare quello che è normale nel resto d’Europa, ossia muoversi in treno da un Comune a un altro, programmare un incontro di lavoro, un workshop all’università, un viaggio di piacere tra città e porti, spiagge e aeroporti.

IL LAVORO E IL RILANCIO DEL SISTEMA

PRODUTTIVO ITALIANO

La terza grande questione che avremo di fronte riguarderà il lavoro e il rilancio del sistema produttivo italiano. Il lockdown di questi mesi lascerà conseguenze pesanti sul sistema produttivo in ogni parte d’I­talia e per ogni dimensione di impresa. Se la priorità nella prima fase è giustamente andata al sostegno alle imprese e ai lavoratori, nella seconda fase dobbiamo evitare un’altra selezione darwiniana come è avvenuto dagli anni Novanta a oggi, per cui ce la fa solo chi è più grande, dispone di migliori relazioni con il sistema bancario e di un accesso ai mercati globali. Dobbiamo definire quanto prima le condizioni per far ripartire in sicurezza il lavoro ma in parallelo definire un progetto per accompagnare le imprese italiane in quello che sarà lo scenario di competizione sui mercati nei prossimi anni. Perché questa crisi porterà cambiamenti rispetto alla globalizzazione che abbiamo conosciuto fino ad oggi, con più attenzione al rilancio della domanda interna ai paesi.

Di sicuro puntare sull’innovazione ambientale sarà imprescindibile per accompagnare il sistema produttivo in questo scenario, in par­ticolare in un paese come l’Italia che può in questo modo affronta­re sfide nuove e risolvere antichi problemi. È inutile perdere tempo dietro a chi chiede stop al Green Deal; questa crisi non ha cambiato una tendenza irreversibile. Quella per cui gli investimenti andranno solo e unicamente verso la decarbonizzazione e l’economia circolare, semplicemente perché sono più convenienti. Non esiste infatti modo meno costoso per produrre energia oggi rispetto alle rinnovabili o sistema più efficiente di gestire i rifiuti che costruire una articolata filiera di recupero e riciclo. Oltretutto con il vantaggio di ridurre la storica dipendenza dall’estero per le fonti fossili e le materie prime. Inoltre, tutti gli studi dimostrano come disponiamo di potenzialità straordinarie per l’attrazione di investimenti e la creazione di oppor­tunità nelle città e nei territori puntando su qualità, innovazione e sostenibilità ambientale. Il problema è che il nostro paese deve anco­ra costruire un progetto per accompagnare questa prospettiva, aven­do fino a oggi lasciato da sole le imprese a scontrarsi con burocrazia, accesso al credito, incentivi. È ora il tempo di accelerare attraverso una moderna strategia industriale che permetta di creare interessi convergenti tra settori, in particolare nella autoproduzione e scambio di energia da rinnovabili6 e dove i rifiuti di un’impresa possono di­ventare materiali preziosi per altre, come oggi è possibile tra siderur­gia e costruzioni, tra agricoltura e biochimica. Oggi non esiste alcuna barriera tecnologica o di costi, il problema è l’assenza di politiche che accompagnino questi processi nei territori. Gli investimenti sono fermi malgrado oggi, grazie alla riduzione dei costi e agli incentivi, sia conveniente come mai in passato installare un impianto solare sul tetto o realizzare un intervento di efficienza energetica nei con­domini, ma anche acquistare un mezzo elettrico, perché si riduce la spesa complessiva per le famiglie e per le imprese. Il problema è che nei prossimi mesi la propensione agli investimenti sarà ancora più limitata e per questo dobbiamo mettere in campo strumenti nuovi, in particolare aiutando l’acceso al credito per questi interventi.

Un ultimo tassello manca nella riflessione sul rilancio del sistema industriale italiano e riguarda il modo con cui si affronteranno i temi strategici dei prossimi anni. Nessuna impresa italiana potrà compe­tere da sola in settori come la biochimica, la transizione all’elettri­co nell’automotive, l’eolico off-shore galleggiante, il riciclo di rifiuti speciali. Servirebbe una strategia come paese che accompagni ricer­ca e sviluppo, che aiuti a mettere assieme imprese grandi e piccole, pubbliche e private, università. Come fa la Germania attraverso l’or­ganizzazione di consorzi che poi si porta anche dietro nei paesi con cui fa cooperazione in Africa, dove grandi imprese pubbliche e PMI esportano le proprie soluzioni e tecnologie su rinnovabili e gestione idrica. Perché da noi sembra impossibile coinvolgere in una strategia del genere Leonardo, Eni, Enel, Saipem, Terna che già in parte lo fanno per conto proprio? In ogni paese europeo le grandi imprese a controllo pubblico sono un pezzo della politica industriale, mentre da noi si ha paura di essere accusati di ritorno al passato. Un passato, ricordiamolo, dove quelle grandi imprese contribuivano a una quota rilevante della ricerca come oggi non avviene più.7

Gli anni Venti sembrano confermarsi anche in questo secolo come un passaggio turbolento e delicato della storia. L’intreccio della crisi sanitaria con quella economica e climatica può aprire prospettive de­vastanti, far vincere le paure e innalzare muri. Oppure, al contrario, aprire a nuove politiche di cooperazione tra paesi, di innovazione e cambiamento. Per far vincere questo secondo scenario serviranno progetti per ripensare e rilanciare il sistema sanitario e quello scolasti­co, garantire legalità e politiche ambientali innovative. Sarà possibile resistere di fronte agli slogan della destra se la politica sarà capace di raccontare il progetto di cambiamento che si ha in mente entrando nella battaglia delle idee e negli impegni concreti su cui impegnarsi: quante scuole si metteranno in sicurezza, quanti asili nido si apriran­no, progetti di inclusione e recupero sociale nelle periferie, quante imprese potranno nascere e rilanciarsi attraverso la decarbonizzazio­ne e la transizione all’economia circolare.


[1] Dal 2009, secondo i dati Eurostat, l’Italia ha tagliato del 37,1% la spesa pubblica per investimenti, passando dai 54,1 miliardi del 2009 ai 34 miliardi del 2017, con una riduzione di circa 20,1 miliardi di euro. Si tratta del valore più basso fatto registrare dal 2004 a oggi. Negli ultimi otto anni la spesa pubblica per investimenti in Italia è quindi calata in media di 2,5 miliardi ogni anno. In termini assoluti una riduzione ancora più significativa si è verificata soltanto in Spagna (-32,1 miliardi).
[2] Il documento è disponibile su www.filleacgil.net/images/cannata/EDILIZIA/Propo­staFilleaLegambiente_020420.pdf.
[3] M. Mazzucato, Mission-Oriented Research & Innovation in the European Union. A pro­blem-solving approach to fuel innovation-led growth, Commissione europea, Bruxelles 2018, disponibile su ec.europa.eu/info/sites/info/files/mazzucato_report_2018.pdf.
[4] Si veda cittaclima.it.
[5] Si veda Legambiente, Rapporto Pendolaria 2019, disponibile su www.pendolaria.it/ wpcontent/uploads/2020/02/Rapporto-Pendolaria-2019-completo.pdf.
[6] La novità normativa resa possibile dalle direttive europee (in particolare la 2001/2018/UE) sarà infatti l’apertura allo scambio di energia da fonti rinnovabili, attraverso comunità energetiche e scambi nei condomini e tra aziende locali.
[7] Nel 1986 l’IRI arrivava a coprire da sola il 15% degli investimenti dell’intero paese in ricerca e sviluppo; dopo la privatizzazione delle sue imprese non solo si sono ridot­te le risorse ma anche la capacità di portare avanti progetti nazionali e internazionali nella ricerca applicata. Si veda P. Ciocca, Tornare alla crescita, Donzelli, Roma 2018.