Una nuova legge elettorale Per riavvicinare elettori ed eletti

Di Dario Parrini Giovedì 26 Maggio 2022 10:36 Stampa
Una nuova legge elettorale Per riavvicinare elettori ed eletti ©iStockphoto/silentstock639

A discorrere di legge elettorale senza analizzare quanto è avvenuto nell’ultimo trentennio nel nostro paese si rischia di cadere in giudizi sommari e in stereotipi fuori dalla realtà. Il racconto convenzionale svolto apoditticamente da una parte consistente dei media e dell’ac­cademia suona pressappoco così: “solo il maggioritario garantisce la democrazia dell’alternanza e la stabilità degli esecutivi; col maggiori­tario sono i cittadini a scegliere il governo; il maggioritario è il bene perché ti fa sapere la sera delle elezioni chi governerà fino alle elezioni successive; una legge elettorale proporzionale, anche corretta, gene­rerebbe frantumazione parlamentare, democrazia bloccata, instabi­lità e partitocrazia; il maggioritario è trasparenza, il proporzionale è opacità”.

Si tratta di una narrazione lineare ma dogmatica.

Per prima cosa, è fuorviante parlare di legge elettorale senza discutere in parallelo della forma di governo, del sistema partitico e della cul­tura politica nella quale essa si inserisce e da cui è condizionata, cioè del modo nel quale le norme sono concretamente interpretate dagli attori politici e dai cittadini.

A rigor di termini, è maggioritario qualsiasi sistema diretto a creare una disproporzionalità, cioè a sovrarappresentare il vincitore della competizione elettorale garantendogli, con l’obiettivo di favorire la governabilità, una percentuale di seggi marcatamente superiore alla percentuale di voto popolare che si è aggiudicato. C’è il maggiorita­rio se al vincitore delle elezioni è attribuito un “premio”: implicito, ad esempio tramite il meccanismo del collegio uninominale, o espli­cito, ad esempio tramite lo strumento del “premio di maggioranza”.

A partire dalle elezioni del 1994 in Italia sono state adottate entram­be queste forme di maggioritario. A distinguerci da tutti gli altri paesi dell’Occidente avanzato è il fatto che alla sperimentazione di diversi tipi di maggioritario (netta prevalenza del collegio uninominale a un turno nelle elezioni dal 1994 al 2001; corposo premio di maggioran­za a un turno nelle elezioni dal 2006 al 2013; minoritaria ma robusta quota di collegi uninominali monoturno nelle elezioni del 2018) si è accompagnata la prassi di formare coalizioni pre-elettorali. Le quali immancabilmente sono state coalizioni di comodo, prive di coesione su questioni fondamentali e molto eterogenee: efficaci per vincere il “premio”, inefficaci per governare. Di questo fenomeno la sostanziale irriducibilità del pluralismo partitico nazionale è stata sia causa che conseguenza.

Ciò specificato, s’impongono alcune domande: in questa lunga e va­riegata stagione maggioritaria i cittadini hanno scelto il governo del paese? Abbiamo avuto maggioranze stabili? La frammentazione si è ridotta? Si è manifestata una spinta di qualche rilievo all’instaurazio­ne di un bipartitismo perfetto o imperfetto? Si è inverata la democra­zia dell’alternanza? La dialettica politica è diventata più trasparente? Niente di tutto ciò è accaduto. L’attuazione “all’italiana” delle regole maggioritarie non ha soddisfatto nessuna delle principali aspettative che mossero la battaglia politica condotta per affermarlo in sede le­gislativa (per inciso, chi scrive di quella battaglia è stato, al tempo, convinto partecipe).

Il governo formato nella primavera del 1994 subito dopo la prima applicazione del maggioritario durò meno di un anno, fu prima se­guito da un esecutivo di segno diverso anch’esso di breve durata, infine da elezioni assai anticipate. Tra le elezioni del 1996 e quelle del 2001 videro la luce tre governi e due maggioranze di diversa compo­sizione. Tra le elezioni del 2001 e quelle del 2006 la maggioranza di governo rimase immutata, ma in un quadro di sfilacciatura interna rapidamente crescente. La legislatura successiva crollò dopo appe­na due anni di vita sotto il peso delle contraddizioni di un’alleanza, l’Unione, rivelatasi buona per vincere, di pochissimo, le elezioni, ma inadatta a governare in modo stabile e durevole, proprio per le stridenti differenze tra i partiti che l’avevano fondata. La legislatura cominciata nel 2008 con una larga maggioranza di centrodestra nei suoi ultimi due anni di vita vide in azione un governo e una mag­gioranza di unità nazionale. La legislatura tenuta a battesimo dalle elezioni del 2013 partì con un governo di larghe intese formato da schieramenti che si erano avversati nelle urne. La legislatura in corso, inaugurata dalle elezioni del 2018, ha conosciuto il susseguirsi di tre governi e tre maggioranze diverse, con un partito (il M5S) rimasto sempre al governo, un altro partito (la Lega) andato prima al gover­no, poi all’opposizione, poi di nuovo al governo; un terzo partito (il PD) andato prima all’opposizione e poi per due volte al governo; e un quarto partito (Forza Italia) andato per due volte all’opposizione e poi al governo.

Questo è avvenuto: è impossibile dire che con il maggioritario i cittadini abbiano scelto il go­verno del paese. Né si può dire che ci siano sta­te maggioranze coese, governi stabili e una dose apprezzabile di alternanza. La frammentazione partitica e parlamentare è rimasta elevata. Del bipartitismo, sia pure imperfetto, non si è vista traccia. La trasparenza è diminuita, poiché le re­gole elettorali hanno premiato, cioè sovrarappre­sentato in seggi, alleanze che nella maggior parte dei casi si sono dissolte dopo il voto. Sta di fatto che se il premio non serve a governare stabilmente, perde la sua legit­timità politica. Abbiamo avuto il “maggioritario di coalizione”, nel senso che i partiti hanno reagito alla presenza di un congegno disrap­presentativo (i collegi uninominali o il premio di maggioranza) non investendo sulla propria identità valoriale e programmatica (come avviene di regola in tutti i paesi occidentali con regole maggioritarie: Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Giappone, Francia) bensì forman­do aggregazioni pre-elettorali piuttosto sconnesse. Indubbiamente il maggioritario di coalizione ha fallito. Perché? Si può rispondere che ha fallito perché non si è mai fatto un vero doppio turno, o perché si sono cambiate le leggi elettorali ma non la forma di governo tramite una modifica organica della seconda parte della Costituzione. È una risposta seria. Ma è serio anche sottolineare che ci sarà pure un moti­vo strutturale se è rimasto lettera morta qualsiasi tentativo di arrivare a una forma compiuta di doppio turno, e se sono andate a vuoto, per mancanza di consensi sufficienti in Parlamento o tra i cittadini, ben tre proposte complessive di riforma della seconda parte della Costi­tuzione, due delle quali, nel 2006 e nel 2016, sono state rigettate da un voto popolare. Parimenti serio è l’argomento di chi dice che, se non si vuol scadere nel velleitarismo, o nel benaltrismo, bisogna darsi un sistema di regole compatibile con una forma di governo che è e resterà a lungo d’impronta parlamentare. Nelle Regioni e nei Co­muni da lungo tempo vige una forma di governo para-presidenziale: i cittadini eleggono direttamente il capo dell’esecutivo (presidente di Regione o sindaco), e come protezione della stabilità dei governi regionali e comunali vige l’incisivo istituto del simul stabunt simul cadent: l’assemblea elettiva può sfiduciare il capo del governo, ma se lo fa produce automaticamente la propria dissoluzione e il voto an­ticipato (questo meccanismo conferisce ragionevolezza all’impianto istituzionale complessivo, perché la maggioranza collegata al presi­dente o al sindaco eletto, che viene “premiata” con l’assegnazione di seggi extra al momento del voto, può essere “punita” successivamente alle elezioni se si dimostra incapace di utilizzare il premio nel senso della stabilità e della coesione).

Associato all’elezione diretta del capo dell’esecutivo e al simul simul, il maggioritario di coalizione, usato nella forma di sistema a premio esplicito per formare i Consigli regionali e i Consigli comunali (a un turno nei primi e nei Comuni fino a 15.000 abitanti, a doppio turno nei Comuni con più di 15.000 abitanti), in modo da assi­curare un’ampia maggioranza al presidente o al sindaco eletto, ha dimostrato di funzionare in modo soddisfacente. Ma si può credibil­mente sostenere che sia opportuno mutare in presidenziale la forma di governo nazionale riscrivendo ampiamente la seconda parte della Costituzione? La risposta, anche in questo caso, è negativa, per tante ragio­ni che non si possono qui indicare in dettaglio. D’altro canto il maggioritario di partito, in uno scenario che non è né bipartitico, né dà segni di poterlo diventare, semplicemente non risulta un’opzione praticabile.

Dall’esame del passato emerge nitidamente che dobbiamo pensare al futuro delle nostre regole istituzionali guardando all’Italia come effetti­vamente è, e ai migliori modelli esistenti nell’Europa più avanzata. Gli assetti istituzionali di Regno Unito e Francia appaiono non tra­piantabili in Italia per ragioni di sistema (nel primo caso la tenuta della forma di governo parlamentare si basa su un bipartitismo quasi perfetto e sull’attribuzione della totalità dei seggi con lo strumento del collegio uninominale maggioritario a un turno interpretato dalle forze politiche senza snaturamenti coalizionali; nel secondo caso si ha una forma di governo semipresidenziale fondata sull’elezione di­retta del Capo dello Stato e sull’elezione a doppio turno di collegio dell’assemblea nazionale poche settimane dopo le presidenziali, delle quali costituisce normalmente una “ratifica”).

Ben più consoni ai nostri bisogni appaiono gli ordinamenti di Ger­mania e Spagna, e il primo più del secondo. In entrambi i casi il deterrente della sfiducia costruttiva e un sistema elettorale propor­zionale robustamente corretto (con un alto sbarramento nazionale esplicito in Germania, con sbarramenti naturali circoscrizionali me­diamente assai elevati in Spagna) convivono con un grado più che accettabile di stabilità governativa e di alternanza e coesione delle maggioranze. Il tutto all’interno di un contesto partitico pluralisti­co (in Germania e in Spagna nelle ultime elezioni politiche i primi due partiti hanno raccolto meno del 50% dei voti, e si sono dovuti formare governi di coalizione; nel Regno Unito, per offrire un ter­mine di paragone, nelle ultime due elezioni politiche del 2017 e del 2019 i primi due partiti hanno ottenuto rispet­tivamente l’82 e il 75% dei voti). Certo, il siste­ma tedesco e quello spagnolo non sono privi di difetti, ma un sistema elettorale privo di difetti semplicemente non esiste. Certo, la proficuità di queste forme di governo parlamentare è il frutto non solo delle regole scritte ma anche di con­solidate regole non scritte, cioè di una ben pre­cisa cultura politica, e sappiamo che è assai più difficile importare una cultura politica che un sistema di norme. Ma tant’è: proporzionale ro­bustamente sbarrato e sfiducia costruttiva (unite a una riforma dei regolamenti parlamentari in grado di contrastare il trasformismo parlamentare nel dopo elezioni e sperabilmente a una legge d’impianto tedesco sulla democrazia nei partiti) sono elementi che si armonizzerebbero bene con la forma di governo e con la strut­tura partitica del nostro paese, e anche con la nostra cultura politica. Potrebbero essere adottati con relativa facilità, e potrebbero generare una serie di effetti positivi: calo della frammentazione; partiti dotati di una più solida identità programmatica, più strutturati e prota­gonisti di campagne elettorali autonome; una stabilità non fittizia; un confronto politico più incline alla mediazione e meno lacerante, conflittuale e polarizzato; un sufficiente equilibrio tra governabilità e rappresentatività, tanto più auspicabile data la riduzione da 945 a 600 degli eletti nelle due Camere. Soprattutto potrebbero darci coalizioni non artificiose, costituite non prima delle elezio­ni come scorciatoia opportunistica per vincere, bensì dopo il voto, in ragione dei rapporti di for­za fissati dagli elettori e di trasparenti trattative su un progetto di governo del paese.

Un ulteriore problema da risolvere, e che non va ignorato, è infine quello relativo al meccanismo di selezione degli eletti, che insieme alla formula di conversione dei voti in seggi, di cui ci siamo fin qui occupati, costituisce il cuore di qualsia­si sistema elettorale. In un paese come l’Italia, che si distingue per l’assenza di leggi statali idonee a salvaguardare rigorosamente la de­mocraticità delle scelte di tutti i partiti in materia di candidature alle elezioni politiche, le liste interamente bloccate sono uno strumento altamente criticabile, perché garantiscono a pochi leader il potere di decidere la composizione dell’intero Parlamento e allontanano gli eletti dagli elettori.

Al nostro paese serve una legge elettorale capace di riavvicinare elet­tori ed eletti e di dare più potere agli elettori, mettendoli in grado di influire maggiormente sulla scelta dei loro rappresentanti e di valu­tarne meglio il lavoro nelle istituzioni. Una via per arrivarci è il voto di preferenza, che indubbiamente ha anche degli svantaggi, specie se non ci sono argini efficaci contro possibili degenerazioni della con­correnza intra-partitica, e se sono troppo ampie le circoscrizioni in cui i candidati di una stessa lista competono tra loro. Ma per colle­gare meglio eletti ed elettori in un sistema a base proporzionale non c’è solo il voto di preferenza. Esistono anche altre strade: tra queste, la compresenza di candidature bloccate e preferenziabili, il sistema tedesco (mix tra liste bloccate regionali e collegi uninominali mag­gioritari) oppure il “collegio uninominale di partito”, già applicato in Italia per eleggere i senatori dal 1948 al 1992 e i consiglieri pro­vinciali dal 1993 al 2013. Quel che è sicuro è che anche su questa componente della legge elettorale occorre responsabilmente riflette­re: la qualità del sistema elettorale è un fattore decisivo della qualità di una democrazia.