Il 30 giugno 2004 si svolse, nella sede della Fondazione Italianieuropei, un seminario a porte chiuse tra alcuni consiglieri del candidato democratico alla presidenza americana John F. Kerry e alcuni esponenti della sinistra riformista europea. Tra gli europei ricordo Antonio Guterres, attuale segretario generale delle Nazioni Unite, Dominique Strauss-Kahn, il presidente di Policy Network Roger Liddle, oltre a Giuliano Amato e io. Tra gli americani John Podesta, ex capo di gabinetto di Bill Clinton e presidente del think tank democratico Center for American Progress, Ronald Asmus, consigliere di politica estera di Kerry, Will Marshall e Tony Blinken. Quest’ultimo è oggi il nuovo segretario di Stato americano nominato dal presidente Joe Biden. L’introduzione di Blinken – all’epoca giovane e brillante studioso – fu particolarmente interessante. La pubblicammo nel numero di settembre 2004 della nostra rivista. La riproponiamo oggi perché ci sembra un documento di grande interesse per comprendere l’approccio e il background culturale del nuovo responsabile della politica estera americana.
Il tema di allora era, come oggi, quello di come riannodare un rapporto positivo tra le due sponde dell’Atlantico dopo le lacerazioni che si erano prodotte per “l’unilateralismo” del presidente Bush e la guerra in Iraq. La risposta di Blinken – come potete leggere – era molto chiara e, in fondo, non dissimile rispetto alla impostazione con cui il segretario di Stato si presenta oggi al confronto con il nostro continente. L’America dei democratici tornerà a essere un partner leale dell’Europa, tornerà a rispettare i suoi alleati e si ricollocherà nel quadro del sistema mondiale multilaterale. Tuttavia sarà un alleato esigente nei confronti degli europei e chiederà un impegno assai maggiore e più coerente nella prevenzione dei pericoli per la sicurezza e nella lotta per affermare i nostri comuni valori democratici e difendere i diritti umani. Il tema del confronto di allora riguardava esattamente il modo in cui esercitare la leadership americana e occidentale nel mondo, il modo in cui sostenere una espansione della democrazia e rafforzare un ordine mondiale fondato sulla egemonia dell’Occidente e cioè di quel particolare rapporto tra economia di mercato e principi liberaldemocratici che si è affermato nelle nostre società. I democratici, in polemica con l’ideologia e la pratica neocon ponevano l’accento – pur senza escludere in linea di principio l’uso della forza – sul soft power dell’America e dell’Occidente (secondo la definizione di un celebre libro di Joseph Nye). Nello stesso tempo era forte l’accento sulla collegialità e corresponsabilità tra la potenza militare e tecnologica americana e la potenza civile dell’Europa.
Sono trascorsi da allora molti anni ed è naturale domandarsi in quale misura quella impostazione, che viene pure per aspetti fondamentali riproposta, possa essere valida oggi. Molte cose sono effettivamente cambiate. Anzitutto è venuta meno la convinzione, rivelatasi illusoria, che il mondo andasse unificandosi intorno ai valori dell’Occidente. Non è così. Mai come in questo momento il mondo ci appare irriducibilmente multipolare e l’egemonia occidentale e la stessa leadership americana sono apertamente sfidate da altri poteri: potenze globali come la Cina e la Russia, potenze regionali come la Turchia o l’Iran. È anche evidente che il rapporto di forze è mutato e che il peso relativo del mondo occidentale dal punto di vista economico, ma anche geopolitico e militare, si è ridotto. Ci troviamo così in un inedito scenario, diverso anche da quello del mondo bipolare e della guerra fredda in cui visse a lungo la mia generazione. Perché comunque nel mondo di allora vi era un ordine e una capacità relativa delle grandi potenze, mentre oggi tutto appare più confuso e la pluralità di conflitti e di tensioni può portare pericolosamente sull’orlo di nuove e più vaste tragedie. È stato un anziano statista americano, Henry Kissinger a dire qualche mese fa che se la nuova Amministrazione non troverà un modus vivendi con la Cina c’è il rischio di una guerra mondiale. Forse è un’affermazione esagerata, ma data l’autorevolezza della fonte non prenderei sottogamba l’allarme che viene lanciato. Sino a oggi e nel tempo della Amministrazione Trump gli Stati Uniti, seguiti in parte e malvolentieri dall’Europa, hanno reagito alle sfide e alle tensioni crescenti inasprendo la tensione e la conflittualità su tutti i fronti. Guerra commerciale e sabotaggio tecnologico con la Cina; sanzioni crescenti verso la Russia; aspra contrapposizione verso il mondo islamico: sia verso quello sciita rappresentato dall’Iran, sia verso il mondo sunnita della Fratellanza Musulmana che appare oggi guidato dalla Turchia e dal Qatar. Molto spesso in questi conflitti l’Occidente si presenta come difensore dei diritti umani, dei valori democratici e delle regole del diritto internazionale nei confronti di regimi autocratici e aggressivi. Ma noi sappiamo che questo è vero fino a un certo punto perché accanto a questi valori ci sono in gioco rilevanti interessi economici e comprensibili esigenze di potenza che poco hanno a che vedere con i valori e con i principi.
D’altro canto, in un mondo lacerato dai conflitti prevale la dinamica del rapporto amico/nemico più che l’idea kantiana del primato del diritto e dei valori. In questo modo incespica spesso la coerenza dell’Occidente e quindi si appanna la nostra credibilità. Per fare qualche esempio: difficile sostenere che le autocrazie del Golfo difendano la democrazia e i diritti umani nello Yemen; difficile sanzionare l’annessione della Crimea e festeggiare quella di Gerusalemme come se non si trattasse di due palesi violazioni del diritto internazionale. Infine, non possiamo chiudere gli occhi sul fatto che la più massiccia violazione dei diritti umani oggi in atto nel mondo è rappresentata dal trattamento subito dai migranti, lasciati affogare nel Mediterraneo o congelare tra le montagne, messi nelle mani di bande di assassini e torturatori, negando loro quel diritto all’asilo e alla protezione sancito dalle convenzioni internazionali e dai nostri principi e valori: difficile negare che tutto ciò avviene con la sostanziale complicità del mondo occidentale.
L’internazionalismo dei democratici si troverà a doversi misurare con queste contraddizioni avendo accanto un’Europa che è stata sino a oggi troppo debole e divisa per dare un contributo davvero determinante. Certo c’è da sperare che il nostro continente, che ha ritrovato nel dramma della pandemia, almeno in parte, le ragioni della coesione e della solidarietà, si metta in grado di essere davvero per gli Stati Uniti un alleato efficace e autorevole.
Qualche giorno fa, in un dialogo con Hillary Clinton, il segretario Blinken ha usato in relazione alla Cina una espressione interessante e intelligente. Ci ha spiegato che per gli Stati Uniti si tratta di combinare nello stesso tempo la sfida sistemica, la competizione economica e la necessaria collaborazione per assicurare la pace e affrontare insieme le grandi sfide globali. Questo sembra essere un approccio realistico. In fondo ci troviamo di fronte a un problema non diverso da quello che fu affrontato dai nostri padri nel momento più drammatico della guerra fredda. Si tratta cioè di avviare una svolta nel senso della coesistenza pacifica, sapendo che tuttavia in un mondo multipolare in cui il problema va oltre quello della coesistenza tra due grandi poteri, la questione si pone in modo assai più complesso e richiede una strategia articolata e perseverante. In fondo, sembra a me che nel disgelo dalla coesistenza sia anche più facile far avanzare gli ideali democratici e il rispetto dei diritti mentre la rigidità delle contrapposizioni eccita i nazionalismi e rafforza i regimi. Si tratta di una sfida assai complessa in cui davvero ci sarà bisogno dell’Europa, della sua civiltà e della sua cultura. È molto importante che ci sia oggi sull’altra sponda dell’Atlantico una classe dirigente americana che di ciò è consapevole e con la quale potremo affrontare queste sfide.