Virus

Di Lionello Cosentino Giovedì 19 Marzo 2020 17:12 Stampa

Mentre scriviamo non sappiamo ancora quali saranno le dimensioni di questa epidemia. «Non è un raffreddore, non è la peste», dicono gli infettivologi, con aria perplessa. Buono a sapersi.

Non sappiamo neppure come reagirà il sistema sanitario, dopo dieci anni e più di tagli massicci e di sgravi fiscali per le assicurazioni private, gonfiate dai contratti integrativi di categoria (con il risultato, ora, di scoprire che occorrono più terapie intensive e laboratori di ricerca e meno ecografie a pagamento. Ma, intanto, già oggi possiamo elencare alcune cose su cui vale la pena di riflettere un po’.

In primo luogo, la politica. Nelle prime settimane tutta l’Italia ha volteggiato su una giostra impazzita. I giornali come bollettini di guerra, i virologi che litigavano in televisione, il paese incerto tra la paura e l’ironia sul web. Non sapendo che pensare, abbiamo preferito non pensare. O meglio, come sempre nei momenti ben più drammatici della storia del nostro paese, ognuno ha preferito pensare per sé, come quella famigliola che, evasa nottetempo dalla zona rossa, ha deciso il “tutti a casa” ed è andata a portare il virus in Basilicata. Ma sarebbe errato trarne la conclusione che si tratta del carattere di una nazione, “dell’indole degli italiani”. Credo sia piuttosto un’ulteriore conferma della fragilità del paese, dell’instabilità e del ciclico franare delle sue classi dirigenti (non solo politiche). Lo stesso Salvini, a me pare, è l’ennesima manifestazione di un vuoto. L’Italia è di nuovo sull’orlo di una crisi di nervi per mancanza di una guida, di una prospettiva, di un’idea di futuro. La politica, penso, dovrebbe misurarsi su questo, affrontare il tema, anziché vivere alla giornata.

In secondo luogo, la sanità. Dobbiamo tutti dire grazie ai medici, agli infermieri, ai ricercatori, ai tanti che in queste settimane hanno fatto il loro dovere. Abbiamo sentito tutti che, alle brutte, il sistema sanitario c’è. Ci sono lo Spallanzani, il Sacco, i laboratori e le terapie intensive, ci sono le ricercatrici precarie che lavorano per tutti noi. C’è, insomma, nonostante l’incuria di questi anni, una rete di servizi e professionalità che si basa non sulle prestazioni a pagamento ma su un sistema di protezione di tutta la popolazione, anche di quei due primi cittadini cinesi, colpiti dalla malattia e curati con successo allo Spallanzani. Perché rinunciarci? Perché tagliare i fondi al sistema pubblico favorendo le mutue? Non è così che si risparmia. Voglio dirlo con chiarezza: dieci anni di tagli alla sanità, a una sanità pubblica già in crisi, hanno portato a confondere la ricerca dell’appropriatezza con i tagli e l’efficienza con la metrica delle prestazioni. Non contano più la presa in carico del paziente, l’intelligenza dei bisogni, gli investimenti nella tutela della salute collettiva, contano le prestazioni efficienti all’insegna del patient empowerment che non sembra tanto un trasferimento di potere quanto un invito ad arrangiarsi.

Un esempio basta: l’Italia si è dotata di un numero di apparecchi per la risonanza magnetica (RMN) per milione di abitanti (28,4/milione) che ci colloca al 4° posto nel mondo dopo Stati Uniti, Germania e Corea, il doppio dell’Irlanda (15,3/milione) e della Francia (14,2/milione), quasi tre volte il numero disponibile in Canada (9,9/milione) e quasi sei volte quello di Israele (5,2/milione). Naturalmente da noi le liste di attesa continuano ad allungarsi.1 Poi, improvvisa, viene la crisi, e scopriamo che un sistema sanitario pubblico ed universalista funziona meglio, è più giusto, costa meno se parte dai bisogni di salute, non dalle prestazioni da vendere, e fa politiche mirate per tutta la collettività. Un paese fragile, come l’Italia, ha in questo sistema sanitario aperto a tutti, e al servizio di tutti, un punto di forza, di resistenza civile. Lo ha ben chiaro il ministro Speranza, lo ha capito il paese, spero lo capiscano il Parlamento e i partiti quando si tratterà di approvare la prossima legge di stabilità.

Infine, il regionalismo differenziato. Per favore, maneggiatelo con cura. Quando il federalismo funziona (Germania, Stati Uniti) è perché anche lo Stato funziona. Nelle crisi, il vestito di Arlecchino ci lascia indifesi. Non ha senso affrontare un’epidemia come questa con norme, comportamenti, misure di sicurezza decise autonomamente a livello regionale, in contrasto una Regione con l’altra. Le prime settimane hanno mostrato il volto peggiore del federalismo: il Sud contro il Nord, i topi di Zaia, Fontana che dorme sul divano in ufficio, con la mascherina addosso, le Marche che litigano col TAR per chiudere le scuole. Poi, con fatica, si è avviata la fase del coordinamento e del lavoro comune. Ma resta, sulla base dell’esperienza fatta, una riflessione per i giuristi: ha davvero senso la legislazione concorrente così come è formulata?

Guariremo dal virus. Ma chissà quando diventeremo, finalmente italiani ed europei.


[1] Si veda M. Mikulic, Number of magnetic resonance imaging (MRI) units in selected countries as of 2017, in “Statista”, disponibile su www.statista.com/statistics/282401/ density-of-magnetic-resonance-imaging-units-by-country/.