Mezzelune crescenti e calanti. Mutamenti di equilibri dal Medio Oriente al Nord Africa

Di Renzo Guolo Mercoledì 18 Marzo 2020 12:28 Stampa

Molte cose accadono tra Medio Oriente e Nordafrica: rivelando scenari sino a qualche anno fa impensabili. A dare forma a questo rapido mutamento sono, in particolare, Iran e Turchia, oltre che la Russia, decisa a occupare lo spazio che l’America, ripiegata su sé stessa, ha lasciato vuoto.

L’ISLAMISMO IN UN PAESE SOLO

L’attacco americano all’Iran, con l’eliminazione mirata del generale Soleimani, vero artefice della proiezione strategica esterna di Teheran, ha posto il gruppo dirigente della Repubblica Islamica davanti a una drammatica scelta: rispondere con la guerra a un atto di guerra o salvare la faccia, e lo stesso regime, con una rappresaglia poco più che simbolica. La scelta è stata, ovviamente, la seconda. Nonostante sia rappresentata come potenza ideologica, l’Iran ha sempre improntato la sua politica estera al realismo politico. Il suo principio ispiratore è stato: primum vivere. Formalmente gli americani sono stati colpiti e il capo delle Brigate Al Quds, non più “martire vivente”, vendicato. In tal modo il regime ha evitato di cadere sotto i colpi di Stati Uniti e Israele, che in caso di reazione su più vasta scala avrebbero probabilmente scatenato una contro rappresaglia dagli effetti devastanti non solo sul piano militare.

La stretta economica provocata dalle sanzioni americane, così come l’intervento in Siria che alloca ingenti risorse in campo militare, produce malcontento nella società iraniana. Rouhani e il suo governo sono diventati il parafulmine di decisioni politiche prese a Washington e nei palazzi del potere più legati a Guida suprema e pasdaran. La scarsa affluenza alle elezioni per il Majlis, l’Assemblea legislativa, che hanno sancito la vittoria dei conservatori religiosi, e in particolare di Mohammad Bagher Qalibaf, personalità strettamente legata ai Pasdaran, certifica il ciclico allontanamento dalla partecipazione politica degli attori sociali storicamente vicini alle posizioni dei riformisti, in particolare giovani e donne dei ceti urbani, delusi, per l’ennesima volta dopo l’esperienza del khatamismo, dalla prova di governo offerta da Rouhani.

Il riformismo iraniano impatta così con il suo consueto vincolo: non solo l’azione ostile di avversari politici che assumono i tratti del nemico interno, ma anche i limiti posti dalla struttura istituzionale della Repubblica Islamica, nella quale gli organi a legittimazione politica, presidente e Parlamento, devono fare i conti con il potere degli organi a legittimazione religiosa, Guida suprema e Consiglio dei Guardiani. Quest’ultimo svolge la funzione di custode dell’ortodossia di sistema, non solo mediante il vaglio della costituzionalità islamica dei provvedimenti legislativi ma anche ammettendo o meno i candidati al giudizio popolare. Così, anche questa volta, i Guardiani hanno eliminato gran parte dei candidati riformisti, determinando fuori dalle urne la composizione del Majlis, ora controllato dai “principialisti”. Un vincolo che ripropone l’annoso interrogativo sulla riformabilità del sistema. Tanto più quando i garanti degli organi a legittimazione religiosa restano, in ultima istanza, i principali riferimenti dei detentori del potere armato: i pasdaran. Sempre più forti non solo sul terreno interno, ma anche su quello esterno. Il loro peso politico si è ulteriormente dilatato dopo il loro intervento in Siria. Tanto che, qualora si aprisse una crisi di sistema nella quale fosse in gioco l’esistenza della Repubblica Islamica, non è escluso che possano imporre al vertice una leadership riconducibile direttamente alla loro crescente influenza. Realizzando, nei fatti, quella sorta di khomeinismo senza clero cui la destra radicale di Ahmadinejad, mai davvero nel cuore del sistema, poteva solo aspirare.

La presenza militare iraniana in Siria, che insieme a quella russa ha determinato la sconfitta dell’Isis e la vittoria di Assad, è per i Guardiani della Rivoluzione una scelta obbligata per mantenere profondità strategica nella regione. La caduta della Siria, così come quella dell’Iraq, per opera dello Stato islamico, divenuto il punto di riferimento delle frustrate comunità sunnite siro-irachene nei due paesi stravolti dalla guerra, avrebbe provocato la rottura di quell’arco sciita, teso tra Teheran, Beirut, Baghdad e Damasco, che il disegno iraniano dell’“islamismo in un paese solo” pensa come principale strumento di difesa della rivoluzione islamica del 1979.

LA TURCHIA NEO OTTOMANA E L’ANTICO SPAZIO IMPERIALE

Sul fronte mediorientale, e non solo, si muove anche la Turchia che, vedendosi sbarrato l’ingresso in Europa, ha riscoperto una vocazione neo ottomana: volgendosi verso spazi, come quello asiatico, mesopotamico, nordafricano, nei quali ha storicamente esercitato un ruolo. Siria e Libia sono i principali scenari di questo nuovo coinvolgimento fuori frontiera.

Nel teatro siriano la Turchia ha prima cercato di rovesciare Assad, poi ha messo fine all’esperienza curda del Rojava, ritenuta una minaccia per la sicurezza nazionale e l’integrità territoriale turca, mettendo all’angolo le forze curde del YPG, considerate emanazione del PKK curdo oltreconfine. La fascia cuscinetto, creata nell’autunno del 2019 al confine turco-siriano con l’operazione Sorgente di pace, doveva consentire, nelle intenzioni di Erdogan, il rientro di parte degli oltre tre milioni e mezzo di profughi siriani rifugiatisi in Turchia durante il conflitto, divenuti ormai un serio problema economico oltre che politico. Ma la catastrofe umanitaria sul fronte di Idlib, ultima roccaforte dell’opposizione siriana, attaccata da Assad con il sostegno russo e delle milizie sciite afghane e pakistane legate all’Iran, rischia di vanificare questo progetto di “politica demografica”, spingendo verso la Turchia una nuova massa di profughi. Ankara ha reagito consentendo a una parte dei profughi presenti nel suo territorio di tentare nuovamente di varcare le frontiere europee. L’obiettivo, però, non è solo la UE, alla quale Erdogan chiede di rinegoziare l’accordo finanziario che costituisce il corrispettivo per svolgere il ruolo di guardiano esterno delle frontiere europee, ma anche la Russia, alla quale la Turchia domanda di fermare l’offensiva su Idlib. Su questo duplice fronte, Erdogan punta a mettere sotto pressione la Germania, che dovrebbe farsi interprete delle esigenze turche con Bruxelles e Mosca.

In vista della soluzione finale del conflitto siriano, Erdogan intende negoziare con Putin un accordo che tuteli gli interessi nazionali turchi nell’area, costringendolo a scegliere. Il Cremlino ha, infatti, sin qui sostenuto Assad, mantenendo allo stesso tempo la partnership con la Turchia, principale sponsor dell’opposizione armata che ne reclamava la caduta. Lo scontro tra Ankara e Damasco mette ora Mosca di fronte a un bivio: schierarsi con Assad o accettare l’influenza turca nella Siria settentrionale? La centralità russa deriva dalla capacità del Cremlino di avere stretti rapporti con i diversi attori del conflitto; ma il sistema di alleanze a geometria variabile architettato da Mosca è, comunque, a somma zero. E non è detto che per uno degli altri giocatori la perdita sia accettabile.

La prima opzione, quella pro Assad, consente a Mosca di preservare l’integrità territoriale siriana, ma rischia di far fibrillare i rapporti con Ankara, decisivi per amplificare il ruolo russo nei diversi scenari mediorientali. La seconda opzione, quella pro turca, significa riconoscere il ruolo di partner strategico di Ankara, con cui le relazioni si sono estese all’ambito militare mediante l’acquisto da parte turca del sistema di difesa missilistico S-400, scelta che ha aperto una frattura nella NATO. La Turchia chiede alla Russia anche di frenare l’influenza in Siria dell’Iran: presenza troppo ingombrante, quella di Teheran al confine, per essere ignorata. Lo scontro di Idlib è, dunque, occasione per un chiarimento, che potrebbe diventare resa dei conti, tra il “sultano” e lo “zar”, alleati dagli interessi divergenti.

Nel riorientare la sua politica estera, la Turchia guarda anche oltremare. Il sostegno di Ankara al Governo di accordo nazionale (GNA) di Fayez al-Serraj ha ora un’appendice militare che amplifica il ruolo turco in Nord Africa. La Turchia si è impegnata a fornire armamenti a Tripoli e a dispiegare truppe sul suolo libico, per ora sotto forma di milizie di mercenari siriani. Intesa, quella tra Ankara e Tripoli, che riguarda anche i confini marittimi tra Turchia e Libia, posta strategica nel Mediterraneo orientale, nel quale Cipro, Egitto, Grecia e Israele hanno avviato progetti energetici che escludono Ankara.

La Turchia punta a ostacolare strategie da cui è esclusa, tanto più se pianificate da paesi con cui è in rapporti conflittuali, e ad avviare esplorazioni energetiche al largo della Libia che le consentano di diversificare le proprie fonti di approvvigionamento, riducendo così la dipendenza dal gas russo, oggi politicamente condizionante.

IL VENTO CALDO DI BEIRUT

Come spesso accade, il Libano è un anemometro assai sensibile nel rilevare la forza dei venti che soffiano nella regione. Le proteste di piazza che hanno scandito il clima politico del paese negli ultimi mesi segnalano l’insofferenza non solo verso la sua costituzione materiale, l’accordo di Taif che nel 1990 ha posto fine alla lunga guerra civile, ma anche quella formale, di più antica data, che si regge sulla partizione delle cariche istituzionali su base confessionale. I manifestanti, tra i quali molti giovani, chiedono un ricambio totale della classe dirigente plasmata da quei due storici momenti politici e istituzionali. Da qui la profonda avversione verso il nuovo esecutivo guidato da Hassan Diab, accademico non affiliato ai partiti tradizionali ma ritenuto vicino alla coalizione guidata da Hezbollah, composto prevalentemente da tecnici formalmente estranei alle consuete affiliazioni. Del resto, la coalizione che lo sorregge ha una base confessionale e parlamentare ancora più ristretta di quella del precedente governo Hariri e un baricentro decisamente spostato a favore del Partito di Dio di Nasrallah: dunque dell’Iran.

La crisi politica libanese è avvitata con quella economico-finanziaria. Il debito del paese è alto: i diversi gruppi confessionali hanno usato il bilancio pubblico per riprodurre la propria sfera d’influenza clientelare su base comunitaria. Il sistema bancario pubblico e privato ha fatto da coperta, sottoscrivendo titoli pubblici e ottenendo libertà di manovra nel perseguire i propri interessi. Ma la mancata solvibilità del debito non è più un’ipotesi di scuola. Gli investimenti internazionali si sono fermati, la bolla immobiliare vicina è all’esplosione, le restrizioni valutarie colpiscono la popolazione. Una soluzione internazionale della crisi, con l’aiuto dei paesi del Golfo, presuppone un mutamento politico che riconduca la componente sunnita nel governo. Il fatto che si vociferi di un intervento finanziario di Mosca sollecitato da Teheran, che farebbe di Putin il vero padrone del Mediterraneo orientale, delinea uno scenario fantapolitico che, per il solo fatto di essere evocato, rivela la natura del mutamento in corso negli equilibri della regione e la sua percezione collettiva. La protesta di piazza, che mette in primo piano le giovani generazioni urbane meno legate a dinamiche confessionali, non riesce, comunque, a tradursi in prospettiva politica capace di ridimensionare la presa degli schieramenti tradizionali sulle loro basi sociali. Come dimostra la mobilitazione della componente sciita che si riconosce in Hezbollah e Amal, e lo stesso ruolo dei cristiani legati al Movimento patriottico dell’attuale presidente della Repubblica Michel Aoun. Forze che paiono meno colpite dalla frammentazione che caratterizza la componente sunnita, tradizionalmente rappresentata dagli Hariri. Scomporre le dinamiche confessionali, che non hanno a che fare solo con valori e identità religiose, ma anche con interessi socialmente stratificati, non è semplice. Il vento caldo di Beirut rischia di infrangersi nelle fitte maglie di queste barriere.

IL FRONTE LIBICO

Russia e Turchia si trovano su fronti opposti in Libia, ormai teatro di “guerra per procura” in cui Ankara è schierata con il Qatar a favore del GNA di Serraj, mentre la Russia, insieme a Egitto e Emirati Arabi Uniti, è a favore del LNA di Haftar. Una linea di faglia che, per quanto riguarda i paesi islamici, ha come magnete anche i rapporti con i Fratelli Musulmani, sostenuti da Ankara e Doha ma duramente avversati dalle altre monarchie del Golfo e dall’Egitto.

Come già nella vicenda siriana, un accordo tra Russia e Turchia potrebbe essere la chiave per dividere in sfere d’influenza la Libia. Consentendo ad Ankara di portare a termine la missione del “siamo tornati” di ottomana memoria e fare scudo alla locale Fratellanza in nome dei consolidati legami ideologici di quel movimento con l’AKP; e a Mosca di penetrare in profondità nel Mediterraneo sud-orientale, trovando l’agognato sbocco ai mari caldi in posizione ancor più vantaggiosa di quella offerta dalla base navale siriana di Tartus. Prospettiva, quella dell’intesa tra due paesi che non hanno troppi vincoli interni e puntano a una politica nazionalistica che ricostruisca la grandezza del passato, che presuppone, però, la liquidazione dell’ipotesi della soluzione militare invocata dall’alleato del Cremlino Haftar, sostenuto, per ora, da Mosca anche mediante l’impiego sul terreno dei “mercenari” della Wagner. Una nuova versione del patto di Astana in salsa libica nella quale sarebbe, comunque, Mosca a dare le carte.

A dimostrazione che nel grande teatro Medio Oriente-Nord Africa è la sin troppo competitiva alleanza di Turchia e Iran con la Russia a determinare, a catena, i nuovi equilibri regionali.