Brevi note sulla questione siriana

Di Fernando D’Aniello Mercoledì 18 Marzo 2020 12:27 Stampa

Il conflitto siriano, giunto al suo nono anno, è al centro di innumerevoli studi e dibattiti. In effetti, gli equilibri in Siria non sono decisivi solo per il futuro del paese ma riflettono dinamiche regionali e internazionali, facendo del paese un punto di crisi geopolitico, magnete per un crescente numero di potenze straniere, come dimostra l’impegno russo (Mosca vede da sempre in Damasco un alleato imprescindibile per la propria politica nel Medio Oriente, sin dai tempi dell’Unione Sovietica), iraniano e turco. Tant’è che studi recenti lo hanno paragonato, arditamente, alla guerra dei Trent’anni che sconvolse l’Europa dal 1616 al 1648 e che si caratterizzò, all’interno dell’impero, come conflitto costituzionale e religioso ma anche come conflitto geopolitico esteso a tutta Europa.1

Certamente la conflittualità in Medio Oriente ha origine remota e attraversa tutto il secolo breve. Tuttavia, per limitarci agli ultimi anni, sono da tener presente ai fini di queste brevi note due momenti: le guerre in Iraq del 1990-91 e del 2003 e le primavere arabe del 2010-11.

Il conflitto in Iraq del 1990 segna la crisi del regime iracheno, che aveva voluto proporsi come campione dei musulmani sunniti, e la nascita di una zona curda nel Nord del paese relativamente autonoma, con la quale Turchia e Siria sono obbligate a confrontarsi. Nel 2003 l’invasione conduce alla fine del regime e alla nascita di un nuovo Stato unitario ma federale, grazie a un compromesso tra curdi e sciiti, vicini a Teheran, al quale, tuttavia, i sunniti non prendono parte.

Quando, nel corso delle primavere arabe, anche la Siria fu attraversata da sollevazioni più o meno trasversali nel complicato equilibrio etnico e religioso siriano, le prime spontanee sollevazioni contro il regime di Assad furono ben presto sostituite dall’intervento di milizie islamiste prima e dall’interesse delle potenze regionali poi. È lì che si osserva anche il completamento del capovolgimento della Turchia del presidente Erdoğan, che puntava a un cambio radicale del regime di Damasco per aumentare la propria influenza nell’area, a danno sia dell’Arabia Saudita, la quale si trova ancora oggi ad affrontare una complicata crisi interna legata alla “modernizzazione” avviata dall’erede al trono Salman e anche dalla resistenza a questi processi, sia dell’Iran sciita, che è chiamato a rivedere la propria politica estera con la presidenza Trump.

Da questo punto di vista, il conflitto siriano è davvero una matrice per cogliere quanto è avvenuto in Medio Oriente negli ultimi anni: la crisi degli Stati nazionali definiti tra Sykes-Picot (1916) e la dissoluzione dell’Impero Ottomano, l’esplosione del jihadismo come tentativo egemonico all’interno del mondo sunnita con i complicati rapporti nella galassia jihadista, circostanza che fa emergere anche organizzazioni non direttamente statuali di cui occorre tener conto (lo Stato islamico e quello che ne resta), il secolare conflitto tra sciiti e sunniti che si trasla su di un piano geopolitico nelle rivalità tra Turchia, Arabia Saudita e Iran. Infine, come già accennato, l’interesse delle grandi potenze.

IL CONFLITTO A QUASI DIECI ANNI DAL SUO AVVIO

In effetti, una situazione simile, quantomeno per durata e intensità del conflitto, ricorda la guerra tra Iraq e Iran tra il 1980 e il 1988: seguendo una tendenza che va consolidandosi negli ultimi decenni, però, quest’ultimo era, o quantomeno nasceva, come conflitto tra Stati; quello siriano, invece, si caratterizza come interstatuale e, dunque, aperto a formazioni ed elementi formalmente non organizzati come uno Stato (si pensi, ad esempio, alle formazioni curde e a quelle islamiste).

Fatta questa differenza, tuttavia, balzano all’occhio alcune analogie: il conflitto religioso tra sciiti e sunniti, con il quale le grandi potenze regionali possono essere coinvolte (Turchia, Arabia Saudita, Iran) e che nasconde evidenti disegni geopolitici (quello turco, finalizzato a esercitare la propria egemonia in chiave neo ottomana, fatto che irrita anche il regime saudita, e quello iraniano, desideroso di mantenere la propria linea di difesa che da Teheran passa per Baghdad e arriva sino a Damasco, Beirut e in Palestina ); gli interessi delle potenze mondiali (Stati Uniti e Russia).

Negli ultimi mesi questi elementi sono tornati nuovamente in primo piano: il regime di Damasco ha rafforzato le proprie posizioni a discapito dei curdi nel Nord-Est, i quali, in seguito al parziale ritiro americano e alla conseguente (nuova) invasione turca, hanno dovuto accettare l’ingresso nei territori dell’Autonomia (il progetto di democrazia noto con la parola curda Rojava) e trattare con russi e siriani. Se sui curdi l’accordo trilaterale Ankara-Damasco- Mosca è in parte riuscito, su Idlib, come si è visto, le posizioni restano lontane e Mosca, per ora, fatica a trovare un equilibrio e un assetto definitivo. La città segna l’ultima roccaforte delle opposizioni al regime e, oltre a un valore simbolico, riveste una posizione strategica, visto che da Idlib i ribelli potrebbero minacciare costantemente di tagliare il Nord dal Sud del paese e l’accesso al Mediterraneo: per questo motivo Assad, che pure può accettare la perdita dei cantoni curdi nel Nord, ha più volte ribadito che la guerra andrà avanti finché la città non sarà occupata dalle forze leali al governo.

Da parte sua la Turchia, che sino a oggi ha usato le milizie jihadiste, non è disposta a indietreggiare: proprio nel corso dell’attacco turco un’operazione militare statunitense ha condotto alla morte dell’autoproclamatosi califfo Al Baghdadi, che si rifugiava proprio nella zona di Idlib, tenuta da miliziani filo-turchi. Ankara, che ha dovuto accettare di non realizzare il proprio obiettivo di un cambio di regime a Damasco, si trova in una situazione difficile, soprattutto con le milizie, le quali potrebbero non accettare di doversi ritirare dalla Siria, per poi rivolgersi addirittura contro il loro protettore turco.

Da qui lo stallo su Idlib, sul quale domina l’accordo tra Putin e Erdoğan del 6 marzo 2020, con l’assicurazione che la strada A4 che garantisce il collegamento con Aleppo resterà sotto controllo “comune”. Ma è un accordo che contiene ancora troppe incertezze e ambiguità, soprattutto quando si afferma di voler continuare a preservare l’“integrità territoriale siriana” ed è dunque lecito attendersi sviluppi, non necessariamente positivi, su questo fronte.2

L’accresciuta influenza iraniana sull’Iraq determinata dallo sciagurato conflitto del 2003 si è manifestata da ultimo nel voto del Parlamento iracheno per il ritiro delle truppe straniere dal paese (6 gennaio 2020)3 seguito all’assassinio del generale Qassem Soleimani, stratega della politica estera dell’Iran, all’aeroporto di Baghdad da parte statunitense. Decisione a cui si sono opposti i parlamentari curdi, che invece non vogliono il ritiro dei militari dal paese, che ancora garantiscono la riuscita del singolare esperimento di federalismo avviato in Iraq con la costituzione del 2005. Già nel 2017, all’indomani del referendum per l’indipendenza della Regione autonoma, le milizie avanzarono rapidamente verso Kirkuk, storica città curda, oggi contesa, strappandola proprio ai Peshmerga che l’avevano occupata per evitare che capitolasse di fronte all’avanzata dello Stato islamico.

LA RIVALITÀ DELLE GRANDI POTENZE REGIONALI

Non è possibile sintetizzare in poche righe l’intreccio di interessi delle potenze regionali e mondiali sulla Siria. Si tratta di vicende note: solo per ricordare quelle principali, vanno tenute presenti la Turchia, l’Arabia Saudita e l’Iran. Si è già accennato a come tutte e tre siano attraversate da considerevoli crisi interne che le rendono particolarmente instabili, per quanto comunque attivissime nel contesto siriano.

Iran e Arabia Saudita rappresentano i due poli delle rivalità religiose e geopolitiche: per la prima Damasco è parte della sua linea di difesa che parte da Teheran, passa per Baghdad, la capitale siriana, Beirut e arriva fino in Palestina. La Siria, dunque, è un nodo centrale di una rete che il regime iraniano non è disposto a perdere. Proprio per indebolire la posizione del suo nemico storico, l’Arabia Saudita (come la Turchia) puntava a un cambio di regime a Damasco ed ha armato inizialmente le milizie dell’opposizione. Il tentativo è fallito solo grazie all’intervento russo che ha evitato il collasso del regime di Assad;4 il mancato obiettivo ha spinto Salman verso il Libano, dove opera Hezbollah, riaprendo un nuovo fronte di conflitto con gli iraniani.

A complicare il quadro, il governo di Ankara. La Turchia ha visto il suo presidente schierarsi nel corso del conflitto siriano da un’iniziale posizione antitetica a quella russa (puntando a un cambio di regime a Damasco) a un riavvicinamento verso Mosca. Tuttavia, i toni antioccidentali del presidente turco appaiono più una misura di politica interna (il suo lungo potere comincia a mostrare crepe e la società turca è ancora sufficientemente in grado di esprimere opposizioni organizzate, persino tra i vecchi sodali di Erdoğan) che un preciso ricollocamento geopolitico, anzi: la società turca è molto meno interessata a proseguire il conflitto con l’Occidente e, in particolare, con l’Europa di quanto si creda. Ovviamente l’Europa dovrebbe avere una sua politica, onesta e coerente, con la Turchia, cosa che non è mai avvenuta.

IL FEDERALISMO

Per quanto possa apparire bizzarro, l’esperimento iracheno potrebbe essere una buona base per il futuro della Siria. In Iraq, dopo la guerra, erano possibili diverse soluzioni, tra le quali anche la nascita di più Stati, omogenei su base etnica (i curdi) o su quella religiosa (sciiti e sunniti). Questa soluzione radicale – e certamente complicata – fu scartata e alla fine venne adottato un particolare federalismo, che se è stato un fallimento dal punto di vista istituzionale, come strumento di gestione del conflitto si è rivelato, in fondo, capace di ottenere dei risultati.

Il fallimento è determinato dal fatto che un Iraq federale non è mai nato: i governatorati non si sono mai fusi per creare altre regioni autonome (trasversali per etnia e religione, ma capaci di fronteggiare il centralismo di Baghdad) e, perciò, la seconda Camera prevista dalla Costituzione, una rappresentanza delle Regioni, non è mai stata istituita.5 Inoltre, l’Iraq è ancora oggi attraversato da una fortissima conflittualità tra sciiti e sunniti, i quali hanno trovato nello Stato islamico una forma di organizzazione politica, e tra gli arabi e i curdi, che hanno promosso un referendum per l’indipendenza del 2017 (in realtà un modo per il PDK del clan Barzani di restare al potere più che vero sviluppo e coerente prosecuzione di una “questione” nazionale curda). In fondo, va anche ricordato che la parola araba per federalismo indica una situazione di conflitto e caos.

Tuttavia, va anche tenuto presente che il paese è rimasto unito e ha reagito comunemente alla sfida dello Stato islamico, che era arrivato a pochi chilometri tanto da Kirkuk, la città più ricca di petrolio del paese, che dalla stessa Baghdad. Ancora oggi, mentre la parte araba del paese è attraversata da manifestazioni considerevoli, un accordo su Kirkuk (se la città, ricchissima di petrolio, debba appartenere alla Regione autonoma o al resto del paese) non è stato trovato, soprattutto per l’egemonia ancora fortissima dell’Iran sul governo iracheno e, in particolare, per le presenze delle Unità di mobilitazione popolare, militari armati direttamente dall’Iran e che non fanno parte dell’esercito regolare iracheno. Una presenza che certamente contribuisce a destabilizzare il paese a danno del suo vicino, ma che è stata indispensabile per la guerra allo Stato islamico.

Pur in una situazione di stallo evidente, il Nord del paese ha compiuto rilevanti passi in avanti (seppure permangano fortissime la corruzione e la divisione della società curda in due, tra Arbil e Suleimaniyya) e ha retto a sfide enormi. Anche la Turchia, inizialmente ostile a qualsiasi forma di autonomia curda, ha finito con l’accettare la presenza della Regione all’interno di uno Stato unitario e oggi esercita un’enorme influenza economica su buona parte di essa. Se non può certamente liberarsi da un giorno all’altro dell’influenza straniera, l’Iraq può discutere – ovviamente nel momento in cui supererà l’attuale stallo politico – sul proprio futuro e sui cambiamenti chiesti a gran voce dal governo. La Siria, che certamente vede trionfare Assad ma che resta un paese che va interamente ricostruito (dopo anni di guerra durissima, la fuga di milioni di concittadini, la distruzione del sistema produttivo), affronta una situazione simile e potrebbe sopravvivere come Stato unitario (dunque salvaguardandone l’integrità cara a Mosca e la classe politica cara anche a Teheran) solo in un’ipotesi federale. Nel Nord del paese è stato creato un esperimento di autogoverno che può essere considerato come una regione autonoma all’interno di una Siria unita. Questo permetterebbe anche di superare le contrarietà di Ankara, che ha già rafforzato la sua sicurezza, occupando alcuni cantoni nel Nord della Siria.6 Indubbiamente, la contiguità tra i curdi del PKK e quelli dell’Autonomia in Siria rende questo progetto più complicato, ma neppure impossibile: in fondo la proiezione economica di Ankara è molto ben definita nel Nord della Siria e, dunque, come è già avvenuto negli anni Novanta per l’autonomia Curda nel Nord Iraq, Ankara potrebbe rivedere la sua posizione e accettare il fatto compiuto, dal quale potrebbe comunque trarre molti benefici (presupposto, tuttavia, è la soluzione o quantomeno una distensione della questione curda in Turchia) e mantenere inalterata la sua proiezione in tutta l’area.

Anche i curdi, coinvolti in questo processo, potrebbero beneficiarne, tramite una costituzione che istituzionalizzi la loro autonomia. Di certo, per quanto il ritiro americano e il conseguente intervento turco abbiano indebolito l’Autonomia, obbligandola a chiedere l’aiuto e il sostegno dell’esercito lealista di Damasco, essa costituisce oggi una realtà che sperimenta da tempo forme di governo e di limitata sovranità, esattamente come è avvenuto negli anni Novanta per la regione autonoma curda in Iraq.

Questa soluzione, inoltre, escluderebbe qualsiasi ipotesi di ridefinizione radicale dei confini mediorientali, che aprirebbe indubbiamente a nuovi anni di instabilità, e consentirebbe il coinvolgimento di tutti gli attori presenti sul campo. Imprescindibile, ad esempio, è la ricostruzione dell’Iraq e, dunque, una soluzione che tenga conto del blocco sunnita e, dunque, di quella parte di popolazione che è stata alla base del successo dello Stato islamico (il cui successo va attribuito proprio alla situazione di crisi dei due Stati, che deve essere necessariamente superata insieme).

A farsi carico di questa proposta dovevano essere proprio i paesi europei, che purtroppo hanno scelto, con la loro inazione, di essere completamente esclusi dalle trattative sulla questione siriana e che oggi appaiono sempre più segnate dall’asse Ankara-Mosca-Damasco. Proprio l’assenza dell’Europa induce a essere molto pessimisti sull’immediato futuro di tutta l’area.

 


 

[1] Si veda P. Milton, M. Axworthy, B. Simms, Towards a Westphalia for the Middle East, Hurst & Company, Londra 2018. La tesi del libro, che non sembra essere del tutto convincente, è stata discussa criticamente da S. Molonea, Dreams of Westphalia. Can a Grand Bargain solve the Middle East’s Problems?, in “Foreign Affairs”, 1/2020, pp. 128-153.

[2] L’accordo è contenuto in un protocollo del Memorandum on Stabilization of the Situation in the Idlib De-Escalation Area, marzo 2020, disponibile su www.mid.ru/en/ press_service/video/-/asset_publisher/i6t41cq3VWP6/content/id/4072593.

[3] Si veda A. Ibrahim, Iraqi parliament calls for expulsion of foreign troops, in “al Jazeera”, 5 gennaio 2020, disponibile su www.aljazeera.com/news/2020/01/iraqi-parliament-calls-expulsion-foreign-troops-200105150709628.html. Si tratta di una formula presente in tutti gli accordi tra Mosca e Ankara, ad esempio quelli dello scorso autunno dopo le operazioni di Ankara a est del fiume Eufrate. Tuttavia, se la formulazione evidenzia la disponibilità di Ankara di desistere da un regime change, è evidente la contraddizione (e quindi l’implicita instabilità di questi accordi) nell’affermare di rispettare l’integrità di uno Stato, mentre di fatto se ne annette parte del territorio.

[4] Del quale, però, bisogna comunque sottolineare la capacità di resistenza, che ha permesso di mantenere, nel momento più difficile del conflitto, il controllo della capitale. Indubbiamente, a questo proposito, sono stati indispensabili un certo sostegno da parte di determinati gruppi sociali e, cosa decisiva, dell’esercito.

[5] Sulla genesi del federalismo iracheno e sulle sue aporie, mi permetto di rinviare al mio Il federalismo nel Kurdistan meridionale: potenzialità e limiti, in “Diritto pubblico”, 3/2018, pp. 921-52.

[6] Si tratta di occupazioni e annessioni, del tutto illegittime sotto il profilo del diritto internazionale, che puntano all’alterazione demografica delle zone coinvolte tramite campagne di arabizzazione condotte attraverso il collocamento forzato di profughi arabi siriani dalla Turchia nelle aree curde.