La Turchia tra neottomanesimo e islamonazionalismo

Di Francesca Piazza Mercoledì 18 Marzo 2020 12:27 Stampa

Il 2023, primo centenario della nascita della Repubblica di Turchia oltre che scadenza elettorale per la terza elezione diretta del presidente della Repubblica, è il prossimo traguardo al quale guarda la vicenda politica e personale dell’attuale capo dello Stato e dell’esecutivo turco, Recep Tayyip Erdoğan. Dopo la sigla, avvenuta il 24 luglio 1923, del Trattato di Losanna, che definì i confini della Turchia moderna, all’esito di un percorso di vittorie militari e di riforme costituzionali, il “padre dei turchi” Mustafa Kemal Ataturk proclamava pochi mesi più tardi la nascita della Repubblica di Turchia.

Cento anni dopo, nel mese di ottobre, Erdoğan celebrerà il superamento della Turchia repubblicana, laicista e filo-occidentale e l’affermarsi di un innovativo modello politico e costituzionale che tutto deve alla sua personalità. La parabola di Erdoğan appare, infatti, avviata al compimento dopo un ciclo ventennale che ha avuto inizio nel 2002 e durante il quale la Turchia è mutata in profondo rispetto ai fondamenti definiti dalle sei “frecce” kemaliste: il repubblicanesimo, la laicità, il patriottismo, il popularismo, lo statalismo e la rivoluzione. Assistiamo, pertanto, al completamento di un progetto politico e personale che ha certamente giovato alla Turchia al di là di ogni ragionevole dubbio, facendo impallidire il ricordo eroico e leggendario della figura di Ataturk, il cui mausoleo svetta oggi in modo plasticamente anacronistico nella skyline della capitale Ankara. Nel segno di una mai confessata competizione con l’icona populista del “padre dei turchi”, la Turchia di Erdoğan passerà alla storia come riuscito esperimento politico, capace di far coesistere in un equilibrio delicatissimo elementi ancestrali insopprimibili, retaggi della millenaria vicenda ottomana, tradizioni religiose tutt’altro che sradicate dal laicismo militante dell’élite repubblicana, insieme a pulsioni oc51

cidentali ormai interiorizzate, dinamismo imprenditoriale consolidato, spregiudicatezza geopolitica e visione multipolare.

Le analisi sul caso Turchia da parte di autorevoli commentatori insistono sull’occasione persa all’indomani della apertura del negoziato di adesione di Ankara all’Unione europea, avvenuta nel 2005. Quello sarebbe stato il punto di non ritorno per una Turchia integrata nell’Unione europea dal punto di vista valoriale e politico, oltre che economico. L’Unione europea ha certamente le sue colpe, alcuni leader europei hanno gravi responsabilità storiche, culminanti oggi nella gravissima crisi migratoria al confine tra Turchia e Grecia. Tuttavia, se anche l’UE avesse aperto tempestivamente le proprie porte ad Ankara, appare comunque difficile immaginare un percorso di condiscendente adeguamento della Turchia al complessivo acquis europeo di fronte all’emergere di una personalità carismatica e imprevedibile come quella di Erdoğan, per di più in un contesto internazionale irrimediabilmente destrutturato dopo il crinale del 1989. Il destino della Turchia è, infatti, comune a quello di altri paesi, per lo più extraeuropei, che hanno tratto il massimo beneficio possibile dal venir meno dei pesi e contrappesi insiti nel sistema di rigide alleanze antecedenti la caduta del muro di Berlino. Sarebbe stato comunque illusorio da parte dell’Europa pensare di governare con il patrimonio delle categorie dello Stato di diritto e delle conquiste liberaldemocratiche di fine Ottocento un interlocutore geloso custode del codice genetico ottomano e che non cessa di tutelare il valore della “turchicità” al di là dei propri confini, arrivando a proteggere i fratelli turcomanni ovunque essi si trovino lungo la cintura delle steppe asiatiche, attraversando la Cina e fino in Mongolia.

Come nella vicenda personale di Mustafa Kemal Ataturk, così anche per Erdoğan, il percorso politico si è saldato fortemente con la vicenda costituzionale: il processo di revisione costituzionale continua, dagli stessi giuristi definito una vera a propria “febbre” costituzionale, rappresenta una costante della storia della Turchia moderna e un fattore chiave per la comprensione della dinamica politica e delle fasi di consolidamento del potere. Nell’esperienza turca la Carta fondamentale è infatti stanza di compensazione delle tensioni tra le componenti in campo: l’Islam, le forze armate, la borghesia progressista, la minoranza curda, il ceto imprenditoriale, la società civile. E così come il kemalismo aveva affidato alle costituzioni del 1908 e del 1924 il compito di definire l’identità della nuova Turchia, una volta superato il conflitto con il sultano, così anche Erdoğan, a partire dalla riforma costituzionale del 2007, inizia a rimodellare la Repubblica a sua immagine, rompendo con il dogma assemblearista e procedendo a marce forzate verso l’elezione diretta del capo dello Stato e l’avvento di una forma di governo prima semipresidenziale e poi puramente presidenziale, passaggio che gli è valso l’appellativo di nuovo sultano.

Sulla base di quella riforma, nel 2014, le prime elezioni a suffragio universale e diretto proclamano Erdoğan primo presidente della Repubblica eletto, con un mandato di cinque anni rinnovabile. Ci saranno altre revisioni costituzionali, dettate dall’intento formale di assecondare le richieste della Commissione europea, salvo mantenere intatta la legge elettorale con la soglia di sbarramento del 10%, che solo nel 2015 non ha potuto impedire al partito filocurdo HDP di fare ingresso nella Grande Assemblea Nazionale. Una legge costituzionale del 2016 che ha temporaneamente sospeso l’immunità parlamentare consentendo arresti tra le fila del partito HDP, tra cui lo stesso leader Demirtas, e le drastiche epurazioni di Erdoğan dopo il fallito colpo di Stato del 2016 sanciscono la cesura definitiva tra l’opinione pubblica occidentale e la Turchia. In pieno stato di emergenza viene, infine, approvata, il 21 gennaio 2017 con i voti favorevoli dei tre quinti dei parlamentari richiesti dall’articolo 175 della Costituzione, la legge costituzionale che, da un lato, trasforma il semipresidenzialismo in presidenzialismo, abolendo la figura del primo ministro e consentendo al capo dello Stato di essere anche leader di partito; dall’altro lato, ridimensiona in modo significativo le prerogative dell’assemblea legislativa monocamerale, i cui poteri di controllo nei confronti del governo vengono ridotti drasticamente. Soprattutto, la nuova assemblea rappresentativa potrà essere sciolta in qualunque momento dal presidente in ardita applicazione del principio simul stabunt simul cadent. Da parte sua il presidente della Repubblica eletto dispone di enormi poteri: dalla proclamazione dello stato di emergenza alla possibilità di porre il veto su qualsiasi legge, dalla nomina del governo senza necessità di fiducia parlamentare a un ruolo preponderante nella selezione dei componenti dell’organo di autogoverno della magistratura e soprattutto della Corte costituzionale.
Così come la vicenda kemalista si era potuta dispiegare al riparo da ogni forma di pluralismo politico, intervenuto solo dopo la morte di Ataturk, così Erdoğan, grazie alla debolezza dello storico partito repubblicano, è riuscito con grande maestria a conservare per l’intera durata del suo potere un consenso incontrastato per il suo partito AKP (Giustizia e Sviluppo), salvo alcune flessioni registrate per lo più in occasione di elezioni amministrative, come la recente elezione del sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoglu, astro nascente della opposizione al nuovo sultano.

Oggi il quadro politico interno alla Turchia appare stabile sì, ma in evoluzione. Pezzi fondamentali del potere di Erdoğan sono in allontanamento, a partire dall’ex ministro degli Esteri e primo ministro Ahmet Davutoglu, ideatore del concetto della “profondità strategica” e della riscoperta del modello geopolitico neottomano, e dall’ex ministro delle finanze Ali Babacan. Entrambe queste personalità sono attualmente impegnate nella costruzione di nuovi soggetti politici e appaiono intenzionati a contendere, nel 2023, la guida del Paese, forti di una nuova linfa che potrà loro derivare da segmenti di società turca ormai distanti dal potere di Erdoğan dopo le reiterate purghe a corpi dello Stato, del mondo dell’informazione e della società civile, come conseguenza del fallito colpo di Stato nel 2016.

La figura di Fethullah Gülen continua a rappresentare una minaccia per Erdoğan, che investe risorse finanziarie considerevoli al fine di ottenere dai paesi islamici partner la chiusura della rete di scuole coraniche facenti capo al predicatore e politologo, oggi rifugiatosi negli Stati Uniti e mediaticamente impegnato in un duello a distanza con l’antico alleato.

L’identità islamica della nazione turca, scolpita tra le righe del Trattato di Losanna, rappresenta, infatti, una leva centrale per il progetto politico del nuovo Sultano, che su tale terreno non ammette competitori e non è disponibile a tollerare rischi di perdita del controllo. La carriera politica di Erdoğan, fin da quando da sindaco di Istanbul sfidò il dogma laicista intonando versetti coranici che gli costarono il carcere, si fonda sulla rilegittimazione dell’Islam come elemento cardine della turchicità, a dispetto delle riforme laiciste volute da Ataturk e della lunga stagione kemalista. La valorizzazione dell’Islam come fattore unificante dei turchi in quanto componente della più grande comunità dei credenti (umma) ha consentito a Erdoğan di avvalersi, almeno agli esordi, di nuove fette di elettorato e di attrarre a sé addirittura la componente curda, fino ad allora politicamente ed economicamente negletta.

La costruzione dell’impresa politica di Erdoğan intorno all’elemento religioso ha rappresentato una carta molto spendibile nei rapporti con l’esterno, ma anche un’arma a doppio taglio, che ha inserito l’azione del nuovo attore in un complesso reticolato di dinamiche intra islamiche regionali da cui la Turchia kemalista si era per lungo tempo tenuta lontana.

I rapporti con l’Iran e la Siria, con Israele e l’Egitto, con l’Arabia Saudita e con la Libia hanno assunto un significato nuovo rispetto al passato, finendo per assegnare alla Turchia un ruolo del tutto nuovo, quello cioè di un paese fortemente ancorato a una visione religiosa transnazionale, ad aspirazione egemonica, più affine agli ideali della Fratellanza Musulmana che a quelli di regimi secolari con forte radicamento sull’elemento militare, come l’Egitto o la Siria.

In questo quadro si inserisce la politica estera della Turchia che oggi appare gravitare intorno a tre obiettivi maggiori: l’egemonia e l’indipendenza energetica, la definizione della querelle curda, la costruzione di un equilibrio sostenibile con il mondo sciita. Il tema energetico è dominante in questa fase, sia in considerazione delle accresciute esigenze della società ed economia turca, sia in funzione della volontà di Erdoğan di accreditare la Turchia come hub energetico nella regione del Mediterraneo orientale e come intermediario naturale tra l’Europa e i grandi esportatori di gas collocati a est. La questione energetica fa riemergere tutto l’irrisolto cipriota a partire dalla definizione delle zone economiche esclusive e dal regime di concessioni rilasciate da Nicosia a soggetti terzi, tra cui l’Italia, e che Ankara non riconosce. Da ultimo si è imposto sulle agende internazionali, ed europea in particolare, il Memorandum d’intesa sulla delimitazione delle aree di giurisdizione esclusiva, siglato da Turchia e Libia il 27 novembre 2019, con cui Ankara ha ottenuto dal governo Serraj un accordo sulla delimitazione delle acque internazionali tra coste libiche e coste turche, a fronte di forniture a sostegno della Tripolitania nel confronto contro il generale Haftar. Un accordo ritenuto illegittimo dall’Unione europea sul piano del diritto internazionale ma dal quale il capo del Governo di Accordo nazionale si sente fortemente vincolato.

La vicenda curda irrompe dopo una iniziale stagione di rapporti armonici, quando nell’ottobre del 2014 in molte città del sud dell’Anatolia monta la protesta per l’inazione turca di fronte all’assedio della città di Kobane nel Nord della Siria da parte dei miliziani del Daesh. Nelle elezioni del 2015 per la prima volta il Partito popolare democratico (HDP), di ispirazione socialista, entra in Parlamento grazie a una campagna fortemente incentrata sui temi della tutela di tutte le minoranze e dunque conquistando voti ben oltre lo zoccolo duro curdo e interrompendo il processo di pacificazione. Ne deriverà una veemente reazione interna e poi l’avvio di una tormentata campagna militare nel Nord della Siria – la prima al di fuori dei confini turchi dopo l’intervento militare a Cipro nel 1974 – che porterà la Turchia a entrare in aperta collisione con il regime di Assad e con la Russia di Putin. Obiettivo di Ankara è stroncare definitivamente la chimera della nascita di uno Stato curdo, che si trascina dai tempi del Trattato di Sèvres e che mina da sempre il dogma dell’intangibilità del territorio turco, sancito a chiare lettere in Costituzione. L’impresa si rivelerà foriera di gravi conseguenze soprattutto sul terreno migratorio: la politica delle frontiere aperte nei confronti della Siria e la difesa a oltranza delle roccaforti islamiste contro il regime di Assad determineranno l’afflusso in Turchia di oltre tre milioni di siriani rifugiati, oltre ad afghani, iraniani, somali e iracheni, ai quali Ankara ha assicurato lo status di protezione temporanea e di cui, è importante riconoscerlo, solo una minima parte vivrà in campi di accoglienza.

I siriani in Turchia hanno finito per rappresentare per Erdoğan una leva eccezionale in più direzioni: come efficace strumento di pressione nei confronti dell’Europa, con cui ha siglato un lucrativo accordo economico; come pedina nell’operazione di ingegneria demografica volta a modificare gli equilibri etnici al confine con la Siria, storicamente presidiato dai curdi; infine, come avamposto nel quadrante libico, in cui Erdoğan è ben radicato e per finalità ormai ben lontane dall’idea neottomana della riconquista di un pur importante vilayet.

Gli sviluppi futuri di questa situazione sono allo stato più legati alla capacità di Mosca di gestire il “Sultano” in un’ottica di conservazione dello status quo siriano che non alla forza attrattiva degli Stati Uniti di Trump e del sistema di relazioni politiche e diplomatiche con l’Unione europea. Dato per scontato nel medio termine il permanere di Putin alla guida del suo paese, un possibile riassetto degli equilibri geopolitici legati al ruolo della Turchia in Medio Oriente e nel Mediterraneo potrà certamente derivare da un eventuale avvicendamento alla presidenza degli Stati Uniti.

Quel che è certo è che la Turchia ha potuto fin qui esprimere un potenziale enorme, che ha consolidato l’idea di un paese forte, consapevole, ben attrezzato a stare sulla scena mondiale e a difendere il proprio interesse nazionale. La questione del suo schieramento geopolitico, del legame con l’Occidente e del ruolo che Ankara intende esercitare nella NATO, alla quale resta tutto sommato ben legata, è il vero interrogativo, soprattutto se proiettato in un post Erdoğan che si prospetta caratterizzato dall’avvento di una pluralità di nuovi attori politici interni sicuramente meno trasgressivi e che potranno essere chiamati a fronteggiare le conseguenze di anni di politica estera muscolare e giocata su una fin qui convincente retorica identitaria.