Libia, una crisi a più livelli

Di Arturo Varvelli Mercoledì 18 Marzo 2020 12:27 Stampa

Nonostante gli sforzi diplomatici degli ultimi mesi da parte degli europei e della Germania in particolare, l’attuale confronto militare in Libia sembra destinato a non risolversi nel breve periodo. L’attacco alla capitale libica il 4 aprile 2019 da parte del Libyan National Army (LNA) di Khalifa Haftar non ha sortito l’effetto sperato, ossia quello di una rapida presa di Tripoli. In tutti questi mesi le milizie della capitale hanno dapprima fatto resistenza, prendendo tempo per organizzarsi e coordinarsi; poi, hanno iniziato a contrattaccare, riportando risultati positivi a Tarhouna e Gharyan, i due avamposti di Haftar vicino a Tripoli. Ciò ha portato a una pericolosa escalation militare con bombardamenti di strutture civili come gli aeroporti e un sempre maggiore coinvolgimento di forze straniere a supporto delle due parti, anche in violazione dell’embargo militare formalmente vigente in Libia dal 2011. L’ingresso di miliziani filo-turchi in Tripolitania a inizio anno ha portato al centro della scena l’azione spregiudicata della Turchia a supporto del Governo di Unità Nazionale (GNA) di Tripoli. Tuttavia, questa azione è apparsa come la conseguenza della trasformazione del conflitto: da una dimensione interna a una più internazionale. La crisi libica è ora una guerra per procura e l’azione di Erdogan è una risposta al contributo militare, economico e politico offerto a Haftar da parte di Egitto, Emirati Arabi e Russia.

Dopo la conferenza di Berlino tenutasi a gennaio era stata sancita una prima tregua che però non si è trasformata in un cessate il fuoco duraturo. Le Nazioni Unite non sembrano poter contare su una comunità compatta nella propria azione di mediazione: l’inviato speciale Ghassan Salamé, nonostante tutti gli sforzi spesi, non è mai apparso realmente nelle condizioni di ottenere un vero ritorno dei contendenti al tavolo negoziale. A inizio marzo, inoltre, Salamé ha annunciato le proprie dimissioni aprendo, purtroppo, una nuova incertezza nella gestione della crisi.

IL CONFLITTO SUL TERRENO

Sul piano militare il conflitto sembra in stallo ormai da tempo. Questa situazione è stata rafforzata dall’arrivo dei miliziani, perlopiù siriani, inviati dalla Turchia a favore di Tripoli a inizio anno. Secondo le dichiarazioni del GNA, i combattenti siriani presenti a Tripoli sono in possesso di passaporto turco e sono arrivati in Libia in sostegno e su richiesta del governo libico ad Ankara. Queste forze sono giunte a sorreggere le posizioni delle milizie legate al GNA poiché gran parte di queste milizie sono state indebolite a causa delle operazioni militari del Libyan National Army (LNA). I gruppi armati della Tripoli Protection Force, sotto il GNA, hanno perso molti uomini negli assi di combattimento di Tariq al-Matar, Ain Zara, Zawiya, Qasr Ben Gashir e in altri sobborghi a sud di Tripoli e non sembrano al momento in grado di condurre attacchi sul terreno, ma continuano a difendere le proprie posizioni.

In realtà l’iniziale fallimento militare del generale Haftar pareva aver riequilibrato sul terreno le relazioni di forza tra GNA, guidato da Fayez al-Serraj, e Haftar stesso, il quale, prima della recente avventura militare, appariva il nuovo leader emergente della Libia. Basti pensare al meeting del febbraio 2019 ad Abu Dhabi, quando Haftar sembrava aver capitalizzato l’appoggio internazionale ricevuto nel corso degli ultimi anni. Dall’incontro non era scaturito un vero accordo, ma certamente un understanding che gli avrebbe permesso di ricoprire un ruolo di grande peso nel futuro del paese, probabilmente assumendo la direzione delle forze armate all’interno di un governo civile. Tuttavia, con l’approssimarsi dell’incontro che Salamé stava organizzando a Ghadames (aprile 2019), e che avrebbe sancito questo ruolo, Haftar decideva per l’opzione militare, nel calcolo – sbagliato – di riuscire a prendere il controllo dell’intero paese senza fare alcuna concessione.

Da allora e per molti mesi, Ghassan Salamé ha cercato di contenere i rischi di un conflitto prolungato, soprattutto quello di una escalation regionale, dato il supporto di sponsor esterni che hanno fornito armamenti sempre più sofisticati (come i droni) e mercenari alle rispettive parti in conflitto, anche per fronteggiare un reale problema di carenza di combattenti. Il GNA guidato da Serraj è apparso politicamente rivitalizzato dall’azione di Haftar, che ha certamente perso gran parte del consenso che si stava guadagnando anche a Tripoli a causa della pessima gestione della cosa pubblica da parte del governo voluto dalle Nazioni Unite e dell’imperversare delle milizie della capitale. Ciò ha permesso al ministro dell’Interno Fatih Bashaga, misuratino, di accrescere il suo ruolo come difensore dell’ordine, anche se appare ancora molto complicata e inverosimile una assimilazione delle milizie pro GNA in qualcosa di più simile a un esercito.

La maggior parte delle forze che combattono contro Haftar viene dalle stesse comunità che hanno sostenuto la guerra del 2011 contro Muammar Gheddafi. Le forze di Haftar nell’ovest e nella Libia meridionale provengono spesso da comunità che sono state percepite come lealisti del regime nel 2011 e che hanno vissuto la guerra come una sconfitta. In tal senso, più che un nuovo conflitto, lo scontro armato apertosi dal 4 aprile 2019 in poi appare come una nuova fase della crisi e il prosieguo di una fase conflittuale apertasi nel 2011. È anche vero che, contrariamente a ciò che si pensa, le forze che combattono Haftar non sono composte da milizie strutturate ma perlopiù da volontari tra le stesse. Gli islamisti radicali o chi si rifà all’Islam politico (come la Fratellanza musulmana) formano un elemento piuttosto trascurabile tra questi miliziani, mentre i salafiti, al contrario, sono una componente molto importante delle forze di Haftar. L’offensiva di Haftar ha unito quindi una moltitudine di gruppi a lui opposti favorendo una sorta di integrazione. Fino a quel momento, infatti, alcuni di questi gruppi erano stati in conflitto aperto tra loro.

A seguito dell’insediamento a Tripoli del GNA nel 2016 le istituzioni statali sono progressivamente cadute sotto l’influenza di quattro grandi gruppi armati che dopo essere riusciti ad allontanare i propri rivali dalla capitale, hanno sostanzialmente stabilito un cartello, in grado addirittura di escludere importanti fazioni che avevano sostenuto la formazione del GNA, causando una netta riduzione della base di supporto del GNA in Tripolitania. Tuttavia, nel giugno 2017 Fayez al-Serraj nominava Usama al-Juwaili come comandante della regione militare ovest, cooptando una componente importante delle milizie di Zintan e minando l’influenza di Haftar nell’area. Insieme ad altri comandanti zintaniani che avevano combattuto il regime di Gheddafi nel 2011, Juwaili aveva manifestato a lungo avversione verso il generale Haftar. Oggi zintaniani ma soprattutto misuratini costituiscono un baluardo importante contro le forze di Haftar e preziosi alleati del GNA.

Anche dall’altra parte, a ben vedere, l’alleanza tra milizie e componenti “politiche” che sostiene il generale Haftar potrebbe essere più fragile di quanto appaia. Tale alleanza potrebbe infatti cedere qualora il generale non riuscisse a fare progressi sul piano militare. Mercenari sudanesi e ciadiani hanno sostenuto Haftar nelle sue conquiste senza opposizione nella mezzaluna petrolifera e nel Fezzan. Essi garantiscono il controllo in nome dell’LNA degli avamposti più remoti che vengono raramente attaccati. È meno probabile che accettino un impegno che comporta gravi perdite.

La guerra in corso potrebbe causare un danno molto più grande al tessuto sociale della Libia di quanto non sia stato finora, provocando forti fratture all’interno e tra le comunità della Libia occidentale e quella orientale. Se si verificassero importanti progressi militari da entrambe le parti si rischierebbero rappresaglie indiscriminate e atti di vendetta all’interno delle comunità e delle zone “liberate”. Nel sud del paese, a seguito dei mutati equilibri causati dal controllo di aree strategiche da parte dell’LNA, si sono già riaccesi i conflitti locali. La tribù araba degli Awlad Suleiman, assai influente nel Centro-Sud della Libia, continua a sostenere il generale Khalifa Haftar, mentre i miliziani Tebu vi si oppongono. Dal 2011 il Sud della Libia è teatro di una lotta per il controllo delle rotte transfrontaliere attraverso cui transitano merci, ma anche migranti, sigarette, droghe e armi; una vasta area desertica che confina con l’Algeria, il Niger e il Ciad e che sfugge all’autorità di Tripoli. I conflitti sono concentrati prevalentemente nella cittadina di Murzuq, nel profondo Fezzan, vicino ai giacimenti petroliferi di Sharara ed El Feel.

Proprio poco prima della conferenza di Berlino di gennaio il generale Haftar ha ordinato la chiusura di alcuni importanti pozzi petroliferi controllati dai suoi uomini, dai quali proviene il 50% del crudo libico. Una mossa per strangolare l’economia di Tripoli – che ne incassa proventi – e alzare la posta in gioco. Questa misura estrema da parte di Haftar lo ha esposto alle critiche della comunità internazionale, tuttavia senza incappare in alcuna vera misura sanzionatoria. Questa chiusura ha fatto crollare la produzione quotidiana di greggio da un milione di barili a meno di 200.000, mettendo realmente in difficoltà le casse di Tripoli.

LA CONFERENZA DI BERLINO E IL RUOLO DEGLI ATTORI ESTERNI

In queste condizioni, dopo un lavoro preparatorio durato mesi, la Cancelliera tedesca Angela Merkel ha convocato la Conferenza di Berlino il 19 gennaio scorso. Se i risultati in termini di risoluzione della crisi possono essere considerati deludenti, la conferenza ha avuto almeno il merito di riunire attorno allo stesso tavolo tutti gli attori esterni coinvolti nella crisi in corso. L’obiettivo principale era infatti fermare l’ingerenza straniera. All’interno dei 55 punti dell’accordo firmato da tutte le parti presenti della diplomazia internazionale quello più importante sanciva una tregua.

Nell’accordo raggiunto a Berlino si ritrovano i tre pilastri che da sempre fanno parte del processo ONU: le riforme del settore della sicurezza che dovrebbero portare alla nascita di un esercito nazionale, sulla scorta degli incontri che si sono tenuti al Cairo; quelle economiche, a uno stadio avanzato grazie agli incontri di Tunisi; infine, la ripresa del processo politico. Su quest’ultimo punto si è tenuta una prima riunione a Ginevra di 40 libici: 13 rappresentativi del governo di Tripoli; 13 dell’assemblea di Tobruk in Cirenaica e 14 indicati dall’ONU. A Berlino è stato inoltre creato un comitato militare congiunto, composto da 10 uomini di entrambe le fazioni. Questi hanno il compito di guidare lo smantellamento delle milizie libiche previsto dall’accordo di Berlino e al contempo di vigilare sulla tregua. A fine febbraio questi colloqui hanno raggiunto un progetto di cessate il fuoco permanente che, se approvato dai leader di entrambe le parti, verrà ridiscusso e approfondito a Ginevra.

A Berlino si sono inoltre messe le basi anche di una nuova missione ONU di monitoraggio, proposta dalla Germania e fortemente sostenuta dall’Italia. La nuova missione navale dell’UE, ribattezzata “Irene”, dovrebbe essere costituita da una componente aerea e una navale e dovrebbe essere dispiegata davanti alle coste della Cirenaica, e non davanti alla Tripolitania, penalizzando solo apparentemente Haftar. In realtà, la missione ostacola soprattutto il GNA sostenuto dalla Turchia, che riceve aiuti principalmente via mare (e in parte via Tunisia). Da parte sua, l’LNA di Haftar, appoggiato da Emirati Arabi Uniti ed Egitto, riceve rifornimenti via area e dal deserto, con rotte impossibili da bloccare senza “boots on ground”.

La difficoltà di trasformare le promesse di Berlino, infatti, si scontra con una lacuna importante dell’accordo: quale meccanismo di monitoraggio e poi denuncia delle varie violazioni debba essere messo in campo. In aggiunta rimane incerto il futuro dei mercenari mandati da Russia (Wagner Group) e Turchia rispettivamente a sostegno del generale Haftar e del premier Serraj, truppe indispensabili al primo per avanzare la sua aggressione e al secondo per non collassare. Proprio Erdogan e Putin si erano incontrati a Mosca, pochi giorni prima di Berlino, per discutere della crisi libica cercando un accordo, poi fallito, di mediazione tra gli attori sul campo. In questa fase la Russia, nonostante un supporto militare indiretto ad Haftar, sembra attenta a ponderare risorse e impegni evitando di rimanere intrappolata da Haftar in un conflitto difficilmente risolvibile nel breve periodo.

È chiaro che, oltre al livello locale, il conflitto attuale sembra giocarsi sempre più sul piano degli attori regionali, dal peso ormai decisamente rilevante, e degli attori esterni, parzialmente influenti nel conflitto, come Stati Uniti, Russia, Francia e Italia. Dalle ultime prove disponibili, il coinvolgimento degli attori regionali (in particolare Emirati Arabi Uniti ed Egitto opposti a Turchia e Qatar), anche dal punto di vista militare, è diventato considerevole. Le motivazioni dietro a questo confronto regionale sono diverse: da una legittima ricerca di sicurezza alle ambizioni geopolitiche, sino al confronto ideologico pro o contro la Fratellanza Musulmana che caratterizza lo scontro tra le due parti.

Sul piano europeo la Francia di Emmanuel Macron, fondamentale nel dare un ruolo politico ad Haftar a livello internazionale, pare abbia relativamente raffreddato le proprie pulsioni pro Haftar. L’insuccesso militare dell’attacco del 4 aprile dello scorso anno e la rinuncia alla mediazione da parte del generale hanno di fatto decretato il fallimento della sua transizione da attore militare a uomo politico rappresentante a livello internazionale degli interessi della Cirenaica. Con ciò Parigi non pare aver rinunciato a un ruolo in Libia, e neppure a un supporto ad Haftar, ma i recenti accadimenti la costringono attualmente a tenere un profilo più basso rispetto al passato.

L’Italia, che a Palermo (novembre 2018) si era progressivamente spostata verso un’apertura nei confronti di Haftar, dopo un primo tentennamento in seguito all’attacco in Tripolitania ha ribadito i suoi legami con il GNA e con Misurata, pur conservando allo stesso tempo una sostanziale posizione di equidistanza tra le parti. Questa posizione è stata spesso percepita come ambigua dagli attori libici e da quelli internazionali coinvolti nella crisi. La posizione dell’Italia si è inoltre complicata con l’accordo di fine novembre 2019 sulla definizione di nuovi confini marittimi tra Turchia e GNA e che riguardano un’area che va dalla parte sudoccidentale della penisola anatolica alle coste nordorientali del paese nordafricano. Con questa mossa la Turchia ha voluto mettere un’ulteriore bandierina sulla questione della delimitazione delle contese acque territoriali attorno all’isola di Cipro e soprattutto sullo sfruttamento delle ingenti risorse di gas che in quelle acque si trovano. L’Italia, che da sempre ha bisogno di avere buone relazioni con la Tripolitania sia per motivazione di flussi energetici sia per la questione migratoria, è rimasta spiazzata dalla scelta del GNA. l’Italia, che tramite ENI ha investito nel corridoio del gas dal Mediterraneo dell’Est alla penisola, si trova ora ad avere a che fare con una crisi che si è allargata e con una serie di interessi sfaccettati e talvolta contrastanti.