L’ultimo laboratorio: la democrazia tunisina alla prova

Di Leila El Houssi Mercoledì 18 Marzo 2020 12:27 Stampa

Il processo di nation building che la Tunisia ha avviato all’indomani della rivolta del 2011 è, indubbiamente, apparso più efficace e meno travagliato rispetto agli sviluppi, anche drammatici, verificatasi nella regione. Il cosiddetto “laboratorio Tunisia”, così com’è stato definito da molti analisti, è determinato dall’alternanza politica che il paese ha vissuto negli ultimi anni e dal traguardo raggiunto, nel gennaio 2014, dalla promulgazione della Costituzione, frutto di una mediazione nell’Assemblea nazionale costituente tra posizioni politiche distinte.

La peculiarità che ha contraddistinto la Tunisia ha, infatti, visto dapprima l’ascesa di un partito islamico, Ennahdha, che aveva ottenuto la maggioranza dei voti nell’ottobre 2011 per l’estraneità e l’opposizione alla corruzione del passato regime, e che in seguito ha perso progressivamente popolarità. In questo contesto, la Tunisia è stata chiamata successivamente alle urne per le elezioni legislative il 26 ottobre 2014 e il processo elettorale, che si è svolto nel pieno rispetto dei principi della Costituzione e del multipartitismo, ha salutato la vittoria del partito secolare Nidaa Tounes.

Inoltre, la specificità della Tunisia si è rivelata da un confronto costruttivo che si è manifestato anche negli ultimi anni in cui il paese ha vissuto una transizione non priva di tensioni politico-sociali e di difficoltà di mediazione che hanno attraversato il processo costituente. La promulgazione della Costituzione, avvenuta nel gennaio 2014, è stata, infatti, il frutto di una mediazione nell’Assemblea nazionale costituente tra posizioni politiche distinte. Un dibattito forte e serrato che ha visto le varie forze politiche fronteggiarsi su temi fondamentali che potevano trasformare nettamente l’assetto sociopolitico del paese. Tra questi ha avuto un’ampia eco la forte pressione esercitata dalle correnti salafite affinché nel testo costituzionale vi fosse il riferimento alla shari’a come legislazione dello Stato. Ai loro occhi il timore che il processo di laicizzazione dall’alto, portato avanti in Tunisia sino all’avvento della Rivolta, potesse continuare a rappresentare una “minaccia” all’interno della società rendeva necessaria l’imposizione di un modello religioso e culturale di Islam dai “tratti originari”. Così la pratica dei riti quotidiani e il rispetto generale dei precetti religiosi sarebbero diventati oggetto di transazione e di controllo sociale. Contro questa ipotesi si era tuttavia attivato un vasto fronte costituito soprattutto dall’area laica che ha visto anche il partito islamico Ennahdha assumere una posizione contraria.

Un altro tema che ha scatenato un acceso dibattito è stato il tentativo di introdurre nella Costituzione un articolo che stabilisse la collocazione della donna in una posizione di complementarietà rispetto all’uomo all’interno della famiglia. Nonostante le tensioni e i timori che, oltre a innestare il dibattito anche fuori dai confini nazionali, hanno fatto sostenere a molti analisti la tesi di un “inverno tunisino” che si stava repentinamente sostituendo alla tanto declamata “primavera dei gelsomini”, ha prevalso la posizione del buon senso ed è stato inserito il principio di uguaglianza tra uomo e donna. Su questo, il grande merito è della società civile tunisina, un’attenta osservatrice che, impegnata su più fronti, ha saputo afferrare per mano il paese, guidandolo nel processo di democratizzazione.

In questo quadro anche le forze politiche hanno spesso saputo cogliere le criticità poste dalla stessa società civile provvedendo, durante la stesura della carta costituzionale, a inserire articoli che rivelano un carattere liberale e rispettoso dell’ampio paradigma dei diritti umani. L’aver sancito, tra le altre, l’uguaglianza tra uomo e donna e la libertà di coscienza in un paese arabo-islamico fa del testo un indiscutibile precedente.

Nonostante il traguardo raggiunto della Costituzione, il partito islamico Ennahdha ha perso progressivamente popolarità. I tunisini avevano confidato nella promessa di una lotta alle disparità sociali attraverso politiche di welfare come l’adozione di leggi per la realizzazione di alloggi popolari e la concessione di aiuti economici alle famiglie più disagiate. In realtà, la promessa è stata disattesa e la Tunisia, alle elezioni legislative del 2014, ha scelto il partito secolare Nidaa Tounes, creato da Beji Caid Essebsi nel giugno 2012, che ha improntato il proprio manifesto politico esclusivamente all’anti islamismo, a scapito del partito d’ispirazione islamica Ennhadha.

LA SFIDA ECONOMICA

L’economia tunisina risente da alcuni anni di una profonda instabilità e la promessa di una crescita del paese, all’indomani delle elezioni dell’ottobre 2011 è stata pregiudicata dalla linea economica che ha rilanciato il mercato, nel programma di governo, attraverso politiche di privatizzazione. L’economia stagnante e l’aumento verticale dell’inflazione hanno continuato a produrre un incremento della disoccupazione che ha colpito in modo particolare le donne e i giovani che rappresentano l’85% della popolazione attiva. La ricetta economica di Nidaa Tounes ha seguito un approccio in favore del settore imprenditoriale privato e ha emesso provvedimenti che s’incentravano sul rafforzamento delle relazioni economiche con altri paesi che potessero favorire gli investimenti esteri nel paese.

Nel frattempo la formazione del governo Essid, del partito Nidaa Tounes, in seguito alle elezioni presidenziali avvenute nel dicembre 2014 che hanno decretato la vittoria di Beji Caid Essebsi, ha salutato l’entrata anche di esponenti di Ennahdha. Il leader del partito islamico, Ghannushi, all’indomani dell’entrata nel governo, nel tentativo di non dare una connotazione partitica ha dichiarato che si tratta della composizione del “governo del popolo tunisino”.

Il percorso di costruzione della democrazia che il paese ha intrapreso in questi anni è stato complesso e non privo di complicazioni. La difficile situazione economica in cui versa la Tunisia ha visto nell’emanazione della manovra di bilancio, approvata in Parlamento nel 2018, un nuovo giro di vite che una parte importante della popolazione non si è mostrata disposta ad accettare. L’azione del governo voleva rispondere alle misure richieste dal FMI che già nel periodo 2013-15 aveva approvato un programma previsto dall’accordo stand-by che ha fornito alla Tunisia 1,6 miliardi di dollari e nel 2016 ha acconsentito l’avvio di un secondo programma per il paese, un accordo per una proroga di 48 mesi per un importo di 2,9 miliardi di dollari. Le misure di ristrutturazione economica richieste hanno indotto il governo a introdurre aumenti dei prezzi sui beni di prima necessità, carburanti, servizi e un aumento dell’IVA con la moneta locale, il dinaro, sempre più debole sul mercato dei cambi. A essere colpiti da queste misure economiche sono state indubbiamente le fasce più disagiate della popolazione, che rappresentano una fetta importante del paese. La mancanza di prospettive di lavoro, con una disoccupazione che sembrerebbe raggiungere la quota del 40%, rappresenta la vera piaga della Tunisia e genera, per quei giovani che nella Rivolta del 2011 rappresentavano la generazione del cambiamento, marginalizzazione e scetticismo. Ne sono derivate tensioni che hanno prodotto forte malcontento nel paese e hanno visto in questi anni un’importante mobilitazione sociale.

Le ricette dei vari governi che si sono succeduti non sono apparse adeguate in un paese in cui le principali risorse, turismo, agricoltura ed esportazione di fosfati, hanno subito un crollo, a causa di politiche economiche non sempre efficaci, del terrorismo e della mancanza di investimenti esteri. Le tensioni sociali, l’alto tasso di disoccupazione e leggi come la finanziaria del 2018 con l’aumento dei prezzi sui beni di prima necessità rischiavano, quindi, di compromettere il percorso di transizione democratica del paese.

In tutto questo s’inquadra il grido del giovane popolo che, nel puntare il dito contro la politica di austerity del governo, ha deciso in più occasioni di scendere nelle strade reclamando un cambiamento di strategia economica. D’altronde, è da qualche tempo che la percezione della popolazione è di vivere in un paese a due velocità in cui si è allargata la forbice tra ricchi e poveri, con una sempre maggiore concentrazione di ricchezza nelle mani di sempre meno persone, e un incremento della popolazione scivolata al di sotto della soglia della povertà. Oggi nel paese una parte consistente dei cittadini sta vivendo un’immensa alienazione che li vede impotenti nell’affrontare il quotidiano.

IL NUOVO SCENARIO

Dopo la scomparsa del presidente Beji Caid Essebsi, avvenuta lo scorso 25 luglio, il paese si è apprestato a scegliere il proprio capo di Stato, in un clima generale di scetticismo nei confronti della politica “tradizionale”. Il voto plebiscitario del 13 ottobre 2019, in cui è stato eletto il docente universitario di diritto Kais Saied, il quale ha ottenuto il 72,71% dei voti ci fa comprendere quanto a pesare sulle elezioni siano stati quei fattori che, negli ultimi anni, hanno caratterizzato negativamente l’andamento del paese. Il calo della fiducia da parte dell’opinione pubblica nei confronti delle politiche governative e nei confronti dei partiti tradizionali è stato indubbiamente dettato dalla persistente crisi economica e, in parte come conseguenza, dalla diminuzione della sicurezza a livello sociale. Saied, che ha sconfitto lo sfidante Nabil Karoui, imprenditore conosciuto al grande pubblico tunisino grazie al canale televisivo di sua proprietà, Nessma TV, ha conquistato la fiducia degli elettori più giovani, dei cittadini più conservatori e della classe media urbana con la promessa di essere vicino alle istanze della popolazione e di lottare contro la corruzione.

In questo quadro ha giocato un ruolo determinante la campagna elettorale all’interno della quale è emersa la profonda diversità del modus operandi dei due candidati. Mentre Saied ha svolto una campagna elettorale modesta e con uno staff ridotto, preferendo affidarsi a giovani simpatizzanti, e preferendo un approccio più circoscritto rispetto al classico raduno politico, Karoui, dopo essere stato arrestato il 23 agosto con l’accusa di riciclaggio di denaro, ha trascorso gran parte della campagna elettorale in carcere, venendo rilasciato solo il 9 ottobre. Tuttavia, la fondazione caritatevole Khalil Tounes, fondata da Karoui all’indomani della morte del figlio, ha distribuito cibo, soldi, assistenza nelle fasce sociali più svantaggiate, nella speranza di ottenere consensi.

Ma i tunisini che hanno sperimentato in passato azioni di questo tipo durante la dittatura hanno preferito la campagna a bassa intensità condotta da Saied, che agli occhi dell’opinione pubblica è apparso come l’uomo vicino al popolo.

Tuttavia, il nuovo presidente ha più volte manifestato un pensiero tradizionalista su alcuni temi sociali destando preoccupazione nell’ambiente laico-progressista della società. Oltre alla reintroduzione della pena di morte, sospesa nel paese dal 1994, Saied si è più volte dichiarato contro la depenalizzazione del reato di omosessualità e ha espresso anche forti perplessità sulla parità di genere in materia di successione ereditaria, tema sensibile che stava per trovare una soluzione col precedente esecutivo. Inoltre, sul piano delle riforme istituzionali Saied ha manifestato la volontà di introdurre una riforma del sistema elettorale che preveda l’abolizione di elezioni parlamentari dirette, in favore di un sistema nel quale i parlamentari vengano indicati da consigli locali e regionali, i cui membri sarebbero eletti dalla popolazione tramite un sistema uninominale.

Bisogna tuttavia tener presente che, a seguito della riforma costituzionale del 2014, la Tunisia, oggi, è passata da un sistema presidenziale a un sistema simile al semipresidenzialismo alla francese. Nel nuovo ordine istituzionale, il Presidente della repubblica mantiene prerogative importanti soprattutto nel settore della difesa, della sicurezza e dell’indirizzo di politica estera del paese, ma il suo ruolo è limitato e bilanciato da quello dell’esecutivo, espressione della maggioranza del parlamento.

Sul fronte delle relazioni internazionali, Saied ha più volte dichiarato di non volere interferenze delle potenze straniere (con chiaro riferimento alla Francia) negli affari interni del paese.

Dopo la vittoria plebiscitaria di Kais Saied il 6 ottobre scorso è stata la volta del rinnovo del Parlamento nelle elezioni legislative che hanno visto l’affermazione di Ennahdha, che ha ottenuto 52 seggi su 217 a discapito della seconda forza politica Qalb Tunis, capeggiata da Karoui, con 38 seggi. La frammentazione parlamentare ha prodotto non poche difficoltà nella formazione di un governo, poiché nessun partito è riuscito dunque ad arrivare ai 109 seggi necessari per governare da solo.

All’inizio di novembre, il portavoce di Ennahdha Imed Khemiri, durante una conferenza stampa ha dichiarato, che «il movimento si impegna a utilizzare tutte le sue forze per accelerare la formazione del governo, in modo da potersi concentrare sulle priorità fondamentali» e ha aggiunto «che sta proseguendo i negoziati con altre forze politiche, tra le quali Courant Démocrate (socialdemocratico, 22 deputati), Mouvement du Peuple (nazionalista-nasseriano, 16 deputati), la Coalition de la dignité (rivoluzionario, 21 deputati) e l’Union Populaire Républicaine (socialista-liberale, 3 deputati) e Tahya Tounes (il partito di Youssef Chahed, 14 deputati)».

L’elezione del leader di Ennahdha, Rashid Ghannushi, a presidente del Parlamento non nasconde tuttavia la crisi che il partito islamico sta vivendo. Il risultato delle elezioni, pur attestandolo come primo partito, rivela infatti un importante calo dei consensi dovuto, probabilmente, all’inadeguatezza nel portare avanti la propria agenda politica all’interno dei governi di coalizione di cui ha fatto parte. Inoltre, complice del calo è stato il riposizionamento politico che Ennahdha ha realizzato a partire dal 2016 quando Ghannushi, nel corso del X Congresso di Ennahdha, ha sottolineato il carattere democratico del partito e insistito sulla necessità di distinguere tra la “democrazia musulmana” cui si richiama Ennahdha e “l’islam jihadista estremista” da cui il partito prende le distanze. Questo ha indubbiamente aperto a spazi e formazioni di stampo radicale, come la coalizione Al Karama che ha ottenuto 21 seggi.

In questo quadro alquanto complesso, il presidente Saied ha incaricato, il 15 novembre 2019, su indicazione di Ennahdha, l’indipendente Habib Jemli di formare un nuovo governo che tuttavia, in seguito a mesi di trattative, non ha visto la luce e il 10 gennaio 2020 con 134 voti contrari è stato respinto dal Parlamento tunisino.

Il 21 gennaio l’incarico è stato affidato a Elyes Fakhfakh, ministro delle Finanze tra il 2011 e il 2013, che ha preferito interagire con le forze politiche che hanno sostenuto Kais Saied al ballottaggio, come Ennahdha, Tahya Tounes, il movimento Echaab, Attayyar e la coalizione al-Karama. Il Parlamento, il 27 febbraio scorso, ha approvato con 129 voti favorevoli il nuovo governo.

Saranno numerose le situazioni che il nuovo governo, sul piano interno, si troverà a fronteggiare, tra le quali la disoccupazione, che ancora secondo le stime ufficiali sembrerebbe attestarsi intorno al 15% (e al 34% tra i giovani), e il contenimento dell’inflazione, oggi al 7%, che ha visto fortemente ridotto il potere d’acquisto dei cittadini. In questo quadro l’emergenza dettata dal propagarsi a livello globale del Covid-19 preoccupa fortemente le autorità tunisine che, attraverso il ministro della Sanità, hanno introdotto una serie di misure per la prevenzione tra le quali l’obbligo della quarantena per coloro che provengono da zone ad altissimo rischio come l’Italia. Di questo risentirà fortemente il comparto economico visti gli intensi rapporti commerciali tra la Tunisia e la penisola italiana.

Sul fronte delle relazioni esterne preoccupa notevolmente la questione libica, che è sempre più centrale nell’agenda della politica estera tunisina. L’equidistanza verso i due schieramenti che si fronteggiano in Libia è stata più volte ribadita dal presidente Saied. Tuttavia, la Tunisia non ha preso parte alla conferenza di Berlino sulla Libia del 19 gennaio, dalla quale era stata inizialmente esclusa, motivando ufficialmente il suo rifiuto per aver ricevuto tardivamente l’invito e per la mancata partecipazione ai lavori preparatori malgrado il suo impegno a essere tra i paesi in prima linea nella risoluzione della crisi libica.

In una nota, la Tunisia ha rimarcato che questa decisione «non modifica affatto il suo impegno e i suoi sforzi a trovare una soluzione alla crisi libica, nell’ambito della legittimità internazionale, lontano da interventi stranieri, mantenendosi equidistante dalle due parti in causa (…). La Tunisia ha un interesse diretto nell’instaurazione della pace in Libia».

A tal proposito va ricordato che a partire da dicembre 2019, con l’inasprirsi degli scontri nel paese confinante, la Tunisia ha innalzato il livello di allerta delle sue truppe e forze di sicurezza presenti lungo il confine.. Inoltre, la Tunisia esprime forte preoccupazione rispetto al potenziale afflusso di profughi qualora si verifichi un’ulteriore inasprimento degli scontri. A questo riguardo il presidente Saied si è appellato alla comunità internazionale, e in particolar modo all’Unione europea, affinché fornisca alla Tunisia le risorse finanziare necessarie ad affrontare gli effetti della crisi libica.

La vera scommessa sul futuro della Tunisia sta, tuttavia, nel rilancio economico del paese, che ha comunque posto le basi per la costruzione di una democrazia reale rivelandosi un interessante laboratorio politico in una regione alquanto complessa.