Il Governo del cambiamento, in peggio

Di Eugenio Mazzarella Martedì 12 Marzo 2019 15:57 Stampa


«Ciò che è reale è razionale». È una nota frase di Hegel. Senza sco­modare sofisticate ermeneutiche, tradotto nell’empiria dell’analisi politica, che è il nostro caso, l’assunto hegeliano è un cogente invito a ingegnarsi a capire le ragioni di ciò che è accaduto nel voto del 4 marzo 2018. Voto che ha consegnato l’attuale Parlamento a un governo giallo-verde, alle forze politiche cioè, Movimento 5 Stelle e Lega, che dalle urne sono uscite ampiamente vincenti, nella chiara sconfitta di tutti gli altri.

Rispetto a ciò che si muoveva nella “pancia” del paese – che non è un concetto astratto, ma è il sentire profondo di una società – il voto degli italiani è stato del tutto razionale. Nella pancia del paese da tempo c’erano due cose; o meglio la stessa cosa su due scenari, e due motivazioni diverse: la paura. Al Nord c’era la paura di perdere, nella crisi economica e sociale dell’Europa nel quadro geopolitico della globalizzazione economico-finanziaria, un benessere più solido e più diffusamente raggiunto rispetto ad altre aree del paese; un benessere pencolante nella crisi di reddito esemplata dalla crisi del popolo delle partite IVA. Al Sud c’era, invece, la paura di una società sempre più disgregata, del definitivo abbandono da parte dello Stato dei suoi bisogni e delle sue necessità; bisogni e necessità ormai sempre più prossimi a livelli di pura sussistenza, grazie a una “questione meridio­nale” mai scomparsa dalla vita della gente, ma da vent’anni del tutto eclissata dai radar della politica nazionale.

Lega e Movimento 5 Stelle hanno dato un’interpretazione a queste paure, da un lato proiettando all’esterno le ragioni di crisi della socie­tà italiana, in essere quanto meno a partire dalla crisi di Tangentopoli, mettendole in capo agli stereotipi dell’Europa “burocrati e banchie­ri”, e dei migranti, che “ci tolgono il lavoro e rendono insicura la no­stra vita”. Aggiungendovi in positivo la promessa di “cambiare tutto”. Disillusi, e disgustati, da “quelli di prima”, gli italiani ci hanno cre­duto, in base alla banale evidenza, al Nord, che “questi della Lega ci hanno sempre difeso”, e al Sud, più scetticamente, “proviamo questi, i 5 Stelle peggio di quelli di prima non potranno essere”. Una “pan­cia” dura a morire nel sentimento degli italiani, se anche nel travaso di quote di consenso da Movimento 5 Stelle a Lega, resta fin qui inalterato il gradimento del governo, più o meno corrispondente ai numeri parlamentari. Anche perché bisogna riconoscere a Salvini la capacità di essere riuscito a spacciarsi per “nuovo”, lui che con la Lega è sulla scena politica da ventiquattro anni; il che gli sta dando la possibilità di allargare il suo consenso al Sud, dove comincia a essere percepito come l’uomo forte di cui anche la “po­vertà” ha bisogno, come nel lombardo-veneto ne ha bisogno la relativa agiatezza, in difensiva, del Nord.

Complice l’assenza, più ancora di un’alternativa di governo, che i numeri rendono difficile, di una credibile visione alternativa a sinistra della società italiana, la fu­sione a freddo governativa tra Movimento 5 Stelle e Lega, sancita nel contratto di governo, sembra reggere, più ancora che per i contenuti, per la ferma volontà finora dei contraenti – Salvini e Di Maio – di non aprire scenari non controllabili con certezza per nessuno di loro. Il che li rende entrambi decisi, finora, a farsi bastare la diarchia con­solare messa in piedi con il contratto di governo.

Ma è proprio l’attuazione del contratto che mostra le prime crepe obiettive – al netto del collante del potere, allo stato possibile solo se condiviso – nella diarchia consolare. Perché – al di là della cura delle pulsioni più ideologiche dei propri elettorati con i decreti sulla sicu­rezza (intestato alla Lega) e anticorruzione (intestato ai 5 Stelle) – nei provvedimenti sul terreno socioeconomico, quelli che rilevano ai fini di un consolidamento di una prospettiva di governo che si estenda a tutta la legislatura, sostanzialmente quota 100, flat tax e reddito di cittadinanza, si cominciano a vedere le prime reali difficoltà di tenuta della legislatura giallo-verde.

Intanto perché questi provvedimenti sono del tutto all’antitesi del “cambiamento” promesso nel contratto di governo. Del paese non cambiano proprio niente. Tendono anzi a rispecchiarlo così com’è, nella sua propensione ad arrangiarsi al “nero”; al Nord sul terreno dell’elusione degli obblighi di fedeltà fiscale allo Stato (il mantra del “meno tasse” fondamentalmente rivolto al lavoro autonomo, com­pensato con facilitazioni al pensionamento del reddito fisso nel caso gli convenga se ha una prospettiva di inserirsi in età ancora lavorativa nel mondo del lavoro “grigio” o in “nero”); al Sud con un reddito di cittadinanza che si prefigura come un’integra­zione al reddito ad ampie platee sociali vocate a poter lavorare solo al nero, in un contesto di cri­si persino della redditività individuale del nero. Insomma tre misure che cercano di sostenere in qualche modo l’Italia in affanno che c’è, in assenza di ogni strategia di rilancio produttivo del paese. Una strategia che è però ampiamente diversificata quanto agli interessi dei suoi promotori. Perché quota 100 e flat tax, di interesse sostanzialmente leghista, si configurano come provvedimenti strutturali di lungo periodo, e al di là dei saldi di bilancio dello Stato, tecnicamente gestibili. Mentre il reddito di cittadinanza non ha chiare prospettive di finanziamento stabile, e già appare pericolosamente ingestibile per il ritorno elettorale dei suoi proponenti, i 5 Stelle, soprattutto al Sud, loro principale bacino di consenso. Insomma mentre la Lega è riuscita a imporre provvedi­menti che consolidano il suo blocco sociale, il reddito non sembra poter avere lo stesso effetto sulla disgregata società meridionale che i 5 Stelle sono stati chiamati in questa legislatura a rappresentare.

Ma c’è un ulteriore elemento che rischia di far precipitare la situa­zione, prefigurando per il paese, e per il Sud in particolare, non un “non cambiamento”, ma un cambiamento in peggio, il cui dazio sa­rebbe pagato dai 5 Stelle, come già si è cominciato a vedere nel voto abruzzese, dove la bandiera del reddito non è bastata al Movimento a difendere l’ampio consenso, alla fine dimezzato, delle politiche.

Ed è l’attuazione delle autonomie con la ricetta leghista del regionali­smo differenziato. Uno stravolgimento costituzionale non dichiarato formalmente, attuando in modo incostituzionale – senza la previa definizione dei LEP (Livelli essenziali nelle prestazioni) e fuori dal­la disponibilità legislativa effettiva del Parlamento sulla legge – una previsione costituzionale, che vedrebbe aggravato, e non solo “fissa­to” anche qui stabilmente nell’ottica dell’Italia che c’è, il divario tra il Nord e Sud del paese. E questo in una secessione surrogata che non farebbe pagare al Nord neanche il dazio pesantissimo dell’80% prudenzialmente stimato come la quota di debito pubblico che, in caso di soluzione cecoslovacca alla crisi dell’unità nazionale così in­dotta, toccherebbe a un Nord che chiede senza fondamenti nei conti il diritto di recupero dell’inesistente, in diritto costituzionale vigente, “residuo fiscale” dei territori.

Non è un caso che la prima vera crepa nell’alleanza di governo tra Lega e Movimento 5 Stelle si stia consumando su questo, mentre su altri terreni – il caso “valoriale” del rinvio a giudizio di Salvini per la vicenda Diciotti in primis – ogni transazione si sta rivelando possi­bile. In questa asimmetria di interessi sociali e territoriali differenti, c’è la possibilità di attrezzare un’opposizione credibile, che potrebbe aprire scenari diversi dalla prevedibile uscita a destra di una crisi del governo giallo-verde, offrendo, in questa legislatura, una sponda per un’alternativa di governo sia pur complicata, e, alle prossime poli­tiche, un’offerta di cambiamento reale al paese. Forse è opportuno chiudere definitivamente con la politica del pop-corn, nella puerile e risentita convinzione di essere richiamati in scena alla fine dello spet­tacolo in atto. Ma per questo ci vuole un regista, una sceneggiatura, e attori largamente diversi.