La galassia dei soggetti in costruzione

Di Daniela Preziosi Martedì 12 Marzo 2019 15:57 Stampa


“L’amore è finito, ora aspettiamo che la fidanzata ci lasci”. All’indo­mani delle elezioni abruzzesi, all’uscita da uno studio televisivo, il sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon, sorriso bonaccione, così sospirava parlando di mali d’amore. L’argomento però era lo stato di salute dell’alleanza giallo-verde. La sera prima, in una cena fra leghi­sti di governo, nel mezzo della generale euforia per la vittoria nella Regione, Matteo Salvini, che non è uomo da toni sorvegliati, aveva esortato tutti a non calcare la mano contro l’alleato grillino in diffi­coltà. Nei talk e davanti ai cronisti. L’ordine di scuderia si è ripetuto dopo le elezioni in Sardegna, dove pure la Lega ha avuto un risultato meno smagliante ma i 5 Stelle hanno replicato il tonfo.

Nella vigilia delle elezioni europee, nei giorni di massimo scontro fra gli alleati del governo del “bipopulismo conflittuale” (la definizione è dello storico Giovanni Sabatucci), le cronache politiche sono attra­versate da ipotesi di voto dopo le urne di fine maggio che – secon­do le previsioni – certificheranno l’irresistibile discesa dei 5 Stelle. Anche per sfuggire a una finanziaria su cui grava il macigno di 23 miliardi di clausole IVA da sterilizzare, e in generale di 52 miliardi da trovare nel pieno della “recessione tecnica” dell’economia del paese. I parlamentari più esperti spiegano che per votare nel 2019 non c’è che la finestra fra giugno e luglio, comunque sconsigliata; mentre quella dell’autunno, all’inizio della sessione di bilancio, di fatto è considerata vietata.

Si tratta di previsioni di carta. Per i 5 Stelle in caduta libera andare al voto anticipato sarebbe un suicidio. Ma paradossalmente anche per la Lega sarebbe un azzardo: ha ribaltato i rapporti di forza nel gover­no, nel quale era entrata come azionista di minoranza, ma non ha ancora disponibile un sistema di alleanze alternativo che le assicuri la possibilità di governare con una nuova maggioranza di destra-centro. E Salvini “è un velociraptor, ha un fiuto formidabile per la politica”, spiega un politico che gli vuole bene – e di cui parleremo fra poco –, ov­vero un animale che è la più formidabile macchina da guerra vivente mai apparsa sulla faccia della Terra, come racconta il film “Jurassic World”. Ma, come il velociraptor, non ha strategia, non ha la visione d’insieme del combattimento.

Per ora dunque la maggioranza resta tale. Legata dal carro con cui Sal­vini trascina i 5 Stelle, condannato a sostenerli ma insieme a logorarli e persino smembrarli come nell’“Iliade” fa Achille con il cadavere di Ettore. La rottura interna dei grillini è inevitabile (“Questi ci hanno rotto il cazzo”, è esplosa la senatrice Paola Nugnes nel corso di una riunione “tecnica” dell’ANCI sulla cosiddetta “autonomia differenziata”). Ma l’esecutivo resterà in piedi, e sarebbe troppo ri­schioso cambiare l’assetto del governo dei due vicepremier senza far saltare il banco. Almeno finché non maturerà una nuova offerta politica di centrodestra. A costo di affrontare una finan­ziaria proibitiva, magari inventandosi provvedi­menti selettivi sull’IVA (anche se Di Maio giura che qualsiasi aumento dell’IVA “per noi sarebbe inaccettabile”); magari inventandosi un nuovo affondo antieuropeo, l’“eurexit” e il “recupero della sovranità mone­taria, là dove partivano i programmi di 5 Stelle e Lega” come ipotizza Enrico Morando.

Anche perché le “clausole di salvaguardia” valgono pure per il gover­no: nessuno, nel centrodestra, ha intenzione di intestarsi una legge di bilancio durissima. E in vista di una nuova coalizione, non sarebbe male se una finanziaria impopolare ridimensionasse la popolarità di Salvini. Non a caso il ministro dell’Interno negli ultimi tempi ripete “Io con il vecchio centrodestra non tornerò più”. Il vecchio centro­destra, appunto: mai più con l’anziano Silvio Berlusconi e con la corte di Arcore.

Al nuovo centrodestra, anzi al nuovo destra-centro, un sistema di alleati utile a bordeggiare il 50% – lo chiede il sistema proporzionale per assicurarsi una maggioranza omogenea – lavorano alcuni perso­naggi chiave. Il primo è il presidente della Liguria Giovanni Toti. È lui a definire affettuosamente Salvini “velociraptor”. È impegnato a convincere l’ex cavaliere ad accettare la nuova condizione di irrile­vanza e ricavarsi un ruolo di “padre nobile” di un mondo nuovo in cui lo spazio per una forza – sedicente – liberale come Forza Italia si è molto ristretto. Toti tesse la tela con Roberto Maroni e il presiden­te della Sicilia Nello Musumeci. L’obiettivo è favorire nei rispettivi Consigli regionali la nascita di gruppi civici di destra in cui possano accomodarsi da una parte i consiglieri forzisti che vogliono avvici­narsi alla Lega. Dall’altra i leghisti sempre più insofferenti all’alleanza a Roma con i 5 Stelle. Lo stesso fa Attilio Fontana, presidente di una Lombardia che ribolle a causa dell’immobilismo a cui è costretto Salvini dall’alleato. Fontana lavora a costruire la seconda gamba del centrodestra per raccogliere forzisti in fuga ma anche forze filoleghiste delu­se dal “governo inesistente” (la definizione è del giurista Sabino Cassese). A differenza degli altri lui però ha già avviato un rapporto con un grup­po di imprenditori favorevoli all’impresa. Qui l’urgenza è più forte: deve evitare “il contagio” e cioè che la fibrillazione dei 5 Stelle non si trasfe­risca, uguale e opposta, alla base del vecchio Car­roccio e il malumore del Nord non diventi un boomerang. La galassia avrà inoltre una nuova formazione della destra radicale organizzata da Fratelli d’Italia. “Un grande movimento dei sovranisti e conservatori italiani”, lo definisce Giorgia Meloni, distinto dalla Lega ma naturalmente al suo fian­co. “Presto il lavoro sporco non lo farà più lui, che adesso blandisce persino formazioni come CasaPound”, è la previsione del sociologo Domenico De Masi.

Dall’altra parte, a sinistra, la ricostruzione di un sistema di alleanze è parallela, anche se molto più faticosa. Nel PD l’unico che ha le idee chiare è il neosegretario Nicola Zingaretti che, con uno sganciamen­to soft dalla matrice veltroniana dell’autosufficienza elegantemente definita “vocazione maggioritaria” (che si è rivelata una pulsione mi­noritaria), propone una riorganizzazione del centrosinistra allargato. Anche da questa parte alcuni soggetti sono in costruzione. Il tenta­tivo di riorganizzare il campo fuori dal PD è in capo a Massimiliano Smeriglio, braccio sinistro del presidente della Regione Lazio e alla guida di un network che comprende amministratori, centri sociali e associazioni di cittadinanza organizzata. Poi c’è l’area un po’ sban­data di Articolo 1 – Movimento democratico e progressista che – abbandonate le insegne della sfortunata lista di LEU – prova a non disperdersi in attesa di riagganciarsi al carro del PD derenzizzato. E infine c’è il sindaco di Parma Federico Pizzarotti, con la sua rete di amministratori civici “Italia in comune”, che per ora punta alle eu­ropee ma in prospettiva potrebbe costruire un soggetto che competa alle elezioni nazionali. E faccia da rifugio agli elettori in uscita dai 5 Stelle, nel caso in cui la rottura nella casa madre si materializzi per sgocciolamento, senza un vero contenitore politico alternativo. Per il PD non si tratterebbe di “allearsi con i 5 Stelle”, formula maledetta e impronunciabile in quel partito, una maledizione alla quale Zinga­retti si è omologato. Del resto con il proporzionale chi non ha una prospettiva di alleanze che tenda al 50% semplicemente non ha una proposta di governo.

Dentro il perimetro del PD invece Zingaretti dovrà attrezzarsi per la riduzione del danno del rischio scissione. Sarà difficile per lui non urtare le suscettibilità dell’ex ministro Calenda che chiede al PD di partecipare alle europee in un fronte antisovranista, un listone che “vada oltre il PD” aperto a destra e chiuso a sinistra, ovvero l’opposto della linea Zingaretti. Ma la rottura con l’ex ministro potrebbe essere solo il primo tempo. Poi potrebbe arrivare lo strappo di Renzi, fino alle primarie in posizione di “disturbatore”, definizione del polito­logo Piero Ignazi, cui si potrebbe aggiungere “seriale” per chiarire meglio la diagnosi.