Verso un umanesimo digitale

Di Bruno Siciliano e Daniela Passariello Giovedì 23 Febbraio 2023 18:40 Stampa
Verso un umanesimo digitale ©iStockphoto/Ponomariova Maria

La diffusione sempre più rapida delle tecnologie digitali in tutte le attività umane è il fenomeno che meglio caratterizza il XXI secolo. Il computer, nato come strumento di calcolo, è diventato, grazie a internet, strumento di comunicazione. Nel 1982 la rivista “Time” dedicava la propria copertina al computer per la sua «grande in­fluenza nella nostra vita quotidiana» assegnando per la prima vol­ta la qualifica di soggetto dell’anno a una “macchina” invece che a una persona. Con quella immagine, il progresso tecnologico – ancor prima dell’avvento di internet – prometteva in qualche modo di ri­voluzionare la vita dell’individuo e della collettività, una previsione di fatto realizzata e potenziata grazie all’intelligenza artificiale (Ar­tificial Intelligence, AI). Con la convergenza e l’integrazione fra le tecnologie dell’informazione e quelle delle telecomunicazioni, siamo passati a una nuova era tecnologica, quella delle ICT (Information and Communication Technologies).

Le tecnologie digitali sono entrate negli anni Sessanta nella progetta­zione e produzione industriale. Sono le macchine utensili a controllo numerico, nelle quali un software guida la lavorazione che la macchi­na intelligente esegue per ottenere il prodotto richiesto. L’obiettivo dell’automazione industriale è quello di realizzare un nuovo modo di concepire e sviluppare la produzione, integrando la fabbricazione con il sistema informativo gestionale e le altre funzioni aziendali, come l’adattamento del prodotto alle richieste del cliente.

L’automazione robotica è una diramazione dell’automazione indu­striale. I primi robot sono stati ampiamente utilizzati nell’industria a partire da quel decennio, ma costellano una storia antica, dal Me­dioevo cristiano e arabo al Rinascimento italiano, con gli ingegnosi progetti di Leonardo da Vinci, fino al fiorire nel Diciottesimo secolo in Europa e Asia di creazioni come la famiglia di androidi di Jaquet- Droz e le bambole meccaniche karakuri-ningyo. La dimensione lu­dica dei primi automi affondava le radici in una conoscenza tecnica di frontiera per l’epoca. Nel periodo industriale, con il prevalere del concetto di utilità delle macchine su ogni altra funzione, le mirabilie di questi automi da considerarsi come i genitori dei moderni robot diventano un ricordo di epoche passate.

Il termine “robot”, di origine slava e sinonimo di lavoro subordina­to, nasce dalle pagine dello scrittore ceco Karel Čapek nel dramma “R.U.R.” (Rossum’s Universal Robots) del 1920 per indicare una macchina antropomorfa progettata e costruita con materiale orga­nico per alleviare le fatiche degli umani. Vent’anni dopo, siamo nel 1940, l’immagine del robot cambia diventando un artefatto mecca­nico con lo scrittore russo Isaac Asimov. I principali fattori che ne hanno determinato la diffusione nell’industria manifatturiera, in par­ticolar modo quella automobilistica, sono stati la riduzione dei costi di produzione, l’aumento della produttività, il miglioramento degli standard di qualità dei prodotti e, non ultima, la possibilità di elimi­nare compiti dannosi o ripetitivi per l’operatore.

Rispetto al passato, oggi, le azioni del robot non sono più una sequenza prestabilita di movimen­ti, ma sono eseguite in maniera automatica gra­zie a un sistema di controllo che governa il moto in relazione a ciò che avviene nell’ambiente. Da qui, la definizione comunemente accettata dal 1980 a oggi secondo cui la robotica è la «connes­sione intelligente tra percezione e azione». L’a­zione è offerta da un sistema meccanico dotato di organi di locomozione per muoversi (ruote, cingoli, gambe meccaniche) e/o di organi di ma­nipolazione per intervenire sugli oggetti presenti nell’ambiente circostante (braccia meccaniche, mani artificiali, utensili). La percezione è affidata a un sistema sensoria­le in grado di acquisire informazioni sul sistema meccanico e sull’am­biente (sensori di posizione, telecamere, sensori di forza e tattili). Gli straordinari progressi compiuti dalla robotica negli ultimi sessan­ta anni hanno visto gli automi industriali – inizialmente confinati in spazi lontani dall’uomo – trasformarsi in “cobot”, robot collabo­rativi che lavorano fianco a fianco con l’operatore oppure dotati di autonomia per spostarsi e lavorare anche in presenza di incertezza e variabilità dell’ambiente. Gli operatori, chiamati fino a pochi anni fa a interagire con automazioni imponenti, complesse, segregate nello spazio produttivo tramite recinzioni, trovano nella robotica colla­borativa uno strumento che li riporta al centro del processo, di cui comprendono appieno il funzionamento e su cui possono agire in maniera autonoma riprogrammando e adattando il set up in base alle necessità produttive.

Si dà forma a un nuovo e soprattutto sicuro regime di condivisio­ne di spazi e compiti, grazie al fatto che i robot sono realizzati in materiali leggeri, spesso sono muniti di articolazioni elastiche e so­prattutto di sensori che rilevano in anticipo le collisioni per evitare danni all’uomo. I robot, dunque, da macchine statiche e ripetitive diventano agenti autonomi e mobili, con capacità di apprendimento e adeguamento all’ambiente. Non solo menti e sensori come nell’AI cui spesso la robotica viene erroneamente identificata, ma anche cor­pi meccanici in grado di intervenire nel mondo reale che può essere un ambiente umano (per i robot sociali), una strada cittadina (per un veicolo a guida autonoma), una casa di cura o un ospedale (per un robot che si occupa di assistenza o di vita assistita), o un luogo di lavoro (per un robot compagno di lavoro).

Nel mettere in relazione il mondo digitale con quello fisico attraverso lo sviluppo del cosiddetto gemello fisico-digitale (phygital twin), la robotica è destinata a diventare la tecnologia trainante per una intera nuova generazione di dispositivi autonomi che, attraverso la capacità di apprendimento, potranno interagire con l’ambiente esterno. In questo senso si spiega il neologismo promosso da I-RIM (Istituto di Robotica e Macchine Intelligenti) delle IAT (InterAction Technolo­gies) introdotto per spiegare come robotica e macchine intelligenti rappresentino il futuro delle ICT che oggi si fermano alla raccolta ed elaborazione di dati, ma che dispiegheranno tutte le loro potenzialità solo quando potranno essere usate per intervenire fisicamente sull’am­biente e sulle persone, per modificare il primo e assistere le seconde con la capacità di percepire e agire nel mondo fisico in tempo reale. Questo passaggio sarà possibile grazie a una tecnologia sempre più intuitiva, che permetterà alle persone di utilizzare i robot con la stes­sa facilità con cui oggi utilizziamo i comuni device; ciò grazie al mi­glioramento della sensoristica e della capacità di elaborazione delle informazioni, che consentirà ai robot di migliorare la conoscenza dell’ambiente circostante, e del 5G, che permetterà connessioni wi­reless rapide e a latenze costanti (quindi prevedibili). Grazie al 5G, i robot saranno in grado di essere collegati a persone e macchine in tempo reale, sia a livello locale sia a livello globale. L’Internet of Things (IoT) sarà quindi superato dall’Internet of Skills (IoS), un in­ternet tattile per consentire un’esperienza fisica da remoto attraverso dispositivi tattili che si coniughino con le skills, le abilità per esempio dell’operatore di droni o del chirurgo alle prese con un intervento eseguito tramite un sistema robotico a distanza. Il nuovo paradigma di compenetrazione tra fisico e digitale ridisegna in modo straordi­nario non solo l’ambito industriale ma promette di incidere anche in altri ambiti di applicazione: agroalimentare, medico-sanitario, mobilità urbana, ambienti ostili o poco strutturati.

Una manifattura bio-ispirata (che alcuni già definiscono bionic ma­nufacturing) rappresenta una delle frontiere su cui si svilupperà la ro­botica nei prossimi 15-30 anni. Se, infatti, negli ambienti strutturati come quelli industriali, la locomozione su quattro ruote è preferibi­le in quanto più facilmente gestibile, nell’esplorazione di ambienti meno strutturati – quali quelli interessati da ca­tastrofi naturali o disastri provocati dall’uomo – altre forme di movimento simili anche a quella umana, possono portare a interessanti applica­zioni. Sono sempre di più i sistemi robotici che si ispirano a forme provenienti dalla natura: dal cane-robot di Boston Dynamics ai robot-for­mica per l’esplorazione degli ambienti e molto altro. Robot del genere sono stati utilizzati per la ricerca di superstiti e l’individuazione di resti umani tra le macerie di Ground Zero e per il disastro di Fukushima.

La linea di sviluppo di questa tecnologia per il prossimo futuro deve capitalizzare questi aspetti: versatilità e sem­plicità di impiego. Quando anche i “cobot” saranno divenuti stru­menti utilizzabili in maniera intuitiva, così come èper i device che abitualmente utilizziamo anche senza istruzioni, in modalità “plug & play”, allora avremo davvero una tecnologia in grado di rivoluzionare l’approccio produttivo e del vivere quotidiano.

D’altro canto, la vocazione tecnica dell’uomo non solo lo potenzia ma lo espone a rischi e pericoli. Per tale motivo i cittadini utenti di ogni nuova tecnologia devono essere adeguatamente informati sulle opportunità offerte da tale tecnologia e sui limiti per maturare una riflessione critica ponderata e non polarizzata tra speranze utopisti­che, accettazione passiva e paure irrazionali lontane dalla realtà e da un corretto e sereno dibattito in seno alla società.

La robotica italiana è stata la culla delle riflessioni sulle questioni etiche, legali, sociali, economiche (ELSE) legate all’utilizzo dei ro­bot. Nel 2003 il ricercatore Gianmarco Veruggio ha ideato il termine “roboetica” per indicare l’etica applicata alla robotica. Nel 2004 ha organizzato il primo Simposio internazionale di roboetica, in cui fi­losofi, giuristi, sociologi, economisti insieme alla comunità robotica, hanno gettato le basi di un’etica della progettazione, realizzazione e impiego dei robot. Un’occasione rivelatasi determinante per creare la consapevolezza della necessità di tale etica e che in prospettiva è essenziale per far fronte alla transizione digitale.

La roboetica si occupa in prima battuta di una serie di questioni lega­te alla diffusione crescente dei robot nella società, in particolar modo il doppio uso della tecnologia (virtuoso o dannoso), l’impatto sul mercato del lavoro, sulla psicologia delle persone, sull’ambiente, il digital divide tra regioni ricche e povere del mondo, il problema della dipendenza dalla tecnologia, intesa come dipendenza personale e di­pendenza sociale. La roboetica è in questo senso un’etica umana che tratta i robot come macchine e ne discute il ruolo sociale.

A un livello successivo e in un ambito più stret­tamente di interazione uomo-robot, entra in campo il concetto di autonomia e responsabilità delle azioni del sistema robotico. La crescente capacità dei robot di eseguire azioni autonome e compiti complessi solleva problemi di responsa­bilità e di accettabilità in un’ampia gamma di applicazioni. In alcuni ambiti militari, industriali e di servizio, le analisi critiche di questi problemi sono per lo più orientate allo sviluppo di politiche etiche che richiedono un controllo sostanziale dell’uomo Meaningful Hu­man Control (MHC) su robot autonomi per cui gli esseri umani, e non le macchine e i loro algoritmi, dovrebbero in ultima analisi man­tenere il controllo, e quindi la responsabilità morale, delle decisioni rilevanti che impattano sull’uomo. Più in generale, possiamo dire che sviluppare l’autonomia crescente dei sistemi robotici in armonia con l’autonomia morale e l’assunzione di responsabilità degli esseri umani è una delle grandi sfide tecnologiche e, allo stesso tempo, eti­che del nostro tempo.

Siamo protagonisti di una rivoluzione tecnologica che porta con sé una straordinaria connettività tra uomini e macchine da cui deriva­no nuovi linguaggi, modi di conoscere, lavorare e partecipare alla vita collettiva, e che può tramutarsi in una spinta nuova: quella di affermare la caratteristica meno artificiale del nostro mondo: la no­stra umanità.