Il partito dell’Io

Di Alessio Viola Martedì 28 Gennaio 2020 10:23 Stampa

Stasera fa un cazzo di freddo. Figurati stanotte che sarà. Non dovevo buttare il pomeriggio al cinema, mi risparmiavo quegli euri per un paio di birre. Cazzo di idea andare a vedere questa depressione.

«Il film di Ken Loach è bellissimo. Purtroppo quelli a cui è dedicato non potranno vederlo perchè troppo impegnati a consegnare stronzate a quelli che lo vanno a vedere» ha scritto il mio amico Antonio su Facebook. Ho capito di colpo perché sto nella merda. E mica ero destinato, a questo bagno. Ho studiato, che altro volevate. Mi sono quasi preso una laurea inutile, poi mi sono fatto il mazzo per dieci anni a inventarmi un lavoro. Niente, a chi serve un laureato in filosofia? Potevo finire, lo so, e sarei entrato nel girone dei precari, le graduatorie, le supplenze, l’emigrazione… Volevo stare qui al caldo, e allora? Voi no? Ho provato a farle, le cose. Ho lavorato per anni a nero nei locali della movida. Dalle sei di pomeriggio alle tre di mattina, 40 euro se andava bene, un lavoro da bestie. Mi sono fatto pure un paio di stagioni al mare, nei bar-discoteca sulle spiagge, fiumi di droga che ti passano sotto il naso, fighettini che spacciano o pippano, che poi sono sempre loro, ragazzi tirati e firmati pure nel buco del culo che scopano come se non ci fosse un domani, beati loro. Noi gli schiavetti a portare bicchieri nei privè e a fare ehm ehm quando stanno tirando in tanti davanti a chi lavora.

Ci ho provato a risolvere qualcosa insieme ad altri precari di varia natura.

“Collettivamente, uniti”, come diceva mio padre. Abbiamo fatto non so quante associazioni, cooperative, imprese a partita IVA. Dopo qualche mese dovevi chiudere tutto e sparire dai radar del fisco, che ancora mi cercano, saranno cazzi amari quando mi troveranno. Partita IVA, la salvezza dalla schiavitù del lavoro dipendente! Certo, come no, soprattutto se te lo racconta qualche sindacalista garantito o l’assessore amico e compagno di una vita. Ti prendi il destino fra le mani, mica come loro che sono costretti a consulenze d’oro e lavori finti che sono coperture per mandare avanti la macchina di partiti e organizzazioni che un tempo, ma proprio un tempo eh! sono stati di sinistra.

I peggiori, gli ex compagni. Che se li chiami ex si incazzano a bestia, loro erano a piazza San Giovanni nel secolo scorso. Pure io, l’ultima volta era appena arrivato Monti, successe una battaglia di quelle all’uso di una volta, fu bellissimo. Ma si spense tutto: la sinistra è responsabile, non possiamo farci prendere la mano dal teppismo. Mica siamo francesi. La Fornero mi aveva quasi convinto che fosse colpa mia se la gente non riusciva ad andare in pensione. No, mi dovevo rimboccare le maniche, cercare fra le pieghe della globalizzazione un modo per sopravvivere. Anzi per fare soldi, perché no. Mi sono dovuto inventare mille altre cose, sbattendomi contro i miei coetanei messi pure peggio di me. Troppo giovani per arrendersi, già vecchi per accedere a una qualunque carriera.

Mi si sta gelando il culo qua fuori dal fast food, sto come una puttana in attesa di un cliente disperato. E manco fumo, loro stanno meglio di me. Aspetto la chiamata, pronto a scattare borsa in spalla nel gelo. Ma pure le sere di luglio non scherzano, per come ti fottono di caldo. Arrivo, suono, salgo. Mi aprono persone di mezza età in genere, case normali di gente perbene. Non mi fanno mai entrare. Intravedo librerie altissime, gonfie di volumi e di ninnoli esotici, sono persone che viaggiano mica pezzenti che se la fanno in piazza con gli sfigati come me. Ogni tanto colgo brani di conversazione su barricati e perlage, su quella volta che sono andati a mangiare da Cracco, che si fa pagare un botto, è vero, ma si mangia da dio, e su come sia emozionante Umbria Jazz nonostante gli anni. Alle pareti ogni tanto si intravede un Che o un Primo Maggio, o manifesti femministi. Sono i clienti peggiori, ti sorridono, ti danno subito del tu, non ti calano una mancia perché si sa, è un gesto che umilia chi lo fa, oltre a chi lo subisce.

Da ragazzino mi è successo di andare a qualche assemblea di movimento e di partito, niente di simile a quello che mi raccontava mio padre. Un cazzone che se n’era andato per un tumore causato dall’amianto, mi raccontava che era così fiero da giovane di essere andato a lavorare in fabbrica! Povero cristo. Diceva che loro vincevano perché possedevano il “segreto dei pronomi”: usavano sempre il noi, mai io. Azz, grandi proprio!

Pedalo come una bestia in salita su uno dei ponti della città, peggio di una montagna con questo freddo, e cerco di immaginare queste strade incasinate da cortei, bordelli, blocchi stradali, tutta la paccottiglia storica che lui mi ha spacciato da bambino. Diceva che facevano i picchetti, “noi”. Per impedire ai crumiri di entrare e sabotare gli scioperi nelle fabbriche. Che non esistono più. Che quando gli ho chiesto cosa avete fatto per impedirlo non mi ha mai saputo rispondere. E noi ora siamo una generazione di crumiri, a fotterci l’uno con l’altro come cani assatanati intorno a un osso già spolpato e andato a male.

«Bella domanda, ma proprio non ci riesco a ricordare quando abbiamo dimenticato il “noi”», mi disse una delle ultime volte in cui ci parlai. Ero poco più che un bambino, si era reso conto che niente di quello che aveva fatto era servito, me lo disse con la voce bassa e senza guardarmi negli occhi, e mi sentii male per lui e mi maledissi per averglielo chiesto.

Io li vedo cosa sono ora i movimenti giovanili, non mi aveva parlato d’altro per tutta la mia infanzia. Ora fanno i verdi, mai andato a una manifestazione gretina. Sono per gli immigrati, mai andato a una manifestazione con quelli dei centri sociali, fgurt, o contro le mafie ma tanto quella sta in Sicilia.

Qui è tutto un fottersi che non ne hai idea. E i peggiori sono gli immigrati, lo devo dire, mi dispiace ma è così, perché sono più resistenti alla fatica e più abituati a subire. Noi ci stanchiamo, crolliamo, loro resistono e continuano a macinare chilometri e mance, perché a loro la danno ovviamente, e pure generosa, poverini vengono dai gommoni. Io e gli altri italiani li teniamo sulle palle, ma mica per la razza, io gli amici africani ce li ho ci mancherebbe. È perché mi fanno rabbia, mi sento impotente, non riesco a trovare un modo per svoltare. Loro almeno sono contenti così.

Mio padre diceva che la lotta di classe muoveva la storia del mondo. Io non è che capivo bene, anzi non capivo proprio, ma ora cerco di rendermi conto: dove cazzo la posso trovare? Contro chi facciamo i picchetti? Contro i disgraziati come me a partita IVA che alla fine dell’anno si mettono mille euro in tasca? E con chi poi, con che aiuto? I sindacalisti preoccupati della tranquillità sociale che pendono dalle labbra del padrone? I partiti di sinistra che solo a dirlo ti viene da ridere?

«Guarda che non sono leghista frate’!» gli ho gridato in faccia a Dabo, un amico a cui voglio molto bene, africano, che sentendomi parlare mi ha detto che ero salvinista. «Senti, quello almeno mi fa sentire meno solo, lo so che mi prende per il culo pure lui, ma non sta a fare le pippe culturali, non si chiude con i suoi a farsi correnti, spartizioni, zozzerie. Comanda lui e basta. Forse è quello che ci vuole, una guida. Magari lo avessero fatto quelli di sinistra!».

«Frate’, sempre leghista mi sembri. Pure un poco fascista mi pare», aveva sorriso Dabo, che sapeva cosa sentivo dentro, chi era stato mio padre, conosceva la storia dei movimenti e delle lotte operaie meglio di qualunque giovane italiano della mia generazione. Chi si era occupato di insegnarcelo? Nessuno. Chi aveva provato a formarci, darci spazio nei partiti, metterci alla prova e farsi indietro? Nessuno. Centellinare nomine, posizioni, alleanze, spartizioni, tutte le cose che mi raccontava mio padre dei suoi tempi, le robe che facevano i partiti di allora e che non ho mai conosciuto, a quanto pare ora sono patrimonio culturale della sinistra. Ma magari arrivano i cinesi e ci comprano tutti, che già lo stanno facendo! Comandano il mondo, un miliardo e mezzo di persone che si prenderanno tutto. E quelli a Hong Kong che fanno casino per la libertà. Sai quanto me ne fotte. Prendetevi tutta la libertà che volete tanto a cosa mi è servita finora.

Io sto qui, una vecchia puttana giovane, ad aspettare la chiamata.

Ho trovato un basso in periferia, costa 200 euro a letto, divido la stanza con un ragazzo di Taranto, più frecato di me. Arrivo a casa alle due di notte, accendo un vecchio Mivar recuperato da un rigattiere, mi bevo una cosa di grappa, da mangiare lo rimedio sempre dagli amici del fast, almeno quello, mi passano sottobanco un mare di roba. E niente, sto qui come un coglione ad aspettare. Se mi va bene passa la mia vicina di basso, la nigeriana che rientra dal lavoro pure lei. Ogni tanto mi offre una botta gratis, meglio di niente.

Aspetto. Di consumare la giovinezza, che dicono tutti passa presto ma a me sembra una condanna, fine pena mai, mi sento sempre troppo giovane, e sempre più sconfitto. Aspetto da solo, che se almeno fossimo in gruppo ci consoleremmo.

Aspetto che cambi il vento: forse è il momento di mettersi a lavorare sul progetto di un collega di sventura. L’idea è quella di aprirci noi una agenzia di consegne a domicilio, può essere la cosa giusta per svoltare. Tutto sommato non dovrebbe essere difficile. Ci prendiamo un poco di africani che ne trovi quanti ne vuoi. Ci fottiamo le biciclette del Comune e li mettiamo a lavorare. Alla fine tutti i grandi ricchi hanno incominciato così, Berlusconi ha iniziato da zero, ha lavorato, si è fatto un mazzo tanto e vedi ora come sta. Vecchio malato e tutto ma pieno di femmine e di soldi che gli escono dalle orecchie. Ogni lunga marcia inizia con un passo, diceva mio padre.

Mi dimetto dal “noi”, non ci sono mai stato veramente, non ci ho mai creduto. Mi iscrivo al partito dell’Io, tanto si nasce soli, si vive peggio, si muore soli.

Io faccio la puttana delle consegne a domicilio, magari ci riesco pure io a finire la lunga marcia.